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Commissione Ue pronta a sanzionare Apple e Meta (ma con multe simboliche)

Commissione Ue pronta a sanzionare Apple e Meta (ma con multe simboliche)Roma, 12 apr. (askanews) – Apple e Meta e saranno sanzionati dalla Commissione europea la settimana prossima perché non rispettano alcuni degli obblighi che hanno come “gatekeeper”, ovvero come detentori, attraverso i propri software e dispositivi elettronici, del punto d’ingresso dei servizi del mercato digitale dell’Ue, ai sensi del regolamento Dma (“Digital Markets Act”).


Lo si apprende a Bruxelles, dove la decisione finale che infliggerà delle multe alle due Big Tech americane è data per “imminente”. Le multe, tuttavia, saranno “modeste”, molto lontane dalla soglia massima del 10% del fatturato mondiale delle società, prevista dal regolamento Dma. Questo perché le sanzioni, in questo caso, non sono punitive, ma hanno il fine ultimo di convincere le piattaforme ad adeguarsi e ottemperare alle regole Ue. Secondo le conclusioni preliminari della Commissione nell’indagine su Apple, pubblicate lo scorso 19 marzo, “alcune caratteristiche e funzionalità di Google Search riservano un trattamento più favorevole ai servizi di Alphabet (la società madre di Apple, ndr) rispetto a servizi concorrenti e così facendo non garantiscono il trattamento trasparente, equo e non discriminatorio dei servizi di terzi richiesto dal regolamento”. Inoltre, “il mercato online di applicazioni Google Play non è conforme al regolamento, in quanto agli sviluppatori di app è impedito di orientare liberamente i consumatori verso altri canali per offerte migliori”.


In sostanza, Apple fa un uso monopolistico del suo app store, riservando ai propri servizi un trattamento preferenziale nei risultati delle ricerche da parte degli utenti (auto-preferenza), e impedendo agli sviluppatori esterni (a meno che non paghino una commissione giudicata eccessiva dalla Commissione), di inserire le proprie applicazioni nella lista di quelle che possono essere scaricate. Lo sviluppatore esterno, così, non può entrare in contatto diretto con gli utenti online. L’inchiesta della Commissione era cominciata il 25 marzo 2024, un anno e mezzo dopo l’approvazione del regolamento Dma, che aveva designato sei “gatekeeper” (Alphabet, Amazon, Apple, ByteDance, Meta e Microsoft) piattaforme digitali di grandi dimensioni che offrono una serie di servizi digitali essenziali, quali motori di ricerca online, app store e servizi di messaggistica. I “gatekeeper” sono tenuti a rispettare una serie di obblighi, tra qui quello di non discriminare gli utenti commerciali impedendo loro di offrire sulle proprie piattaforme online prodotti o servizi simili o alternativi a quelli già presenti, a prezzi diversi o con condizioni differenti.


Apple ha risposto alle conclusioni preliminari della Commissione, ma l’Esecutivo comunitario non ha giudicato gli impegni presi dalla società soddisfacenti per l’ottemperanza agli obblighi del Dma. Il secondo caso riguarda Meta, e il suo sistema “pay or consent” che viene applicato in modo generalizzato, chiedendo agli utenti di pagare per i servizi offerti o, in alternativa, di accettare la pubblicità online. Se l’utente accetta la seconda alternativa, Meta si appropria di tutti i suoi dati, utilizzandoli per la profilazione pubblicitaria. La Commissione considera che dovrebbe esserci almeno una terza possibilità, al di là di questa scelta rigidamente binaria. Per esempio, l’utente dovrebbe poter indicare uno o più settori d’interesse per i quali accettare la pubblicità, ad esclusione degli altri.


Anche questa indagine era iniziata il 25 marzo dell’anno scorso, e anche qui la società sotto inchiesta ha presentato delle osservazioni e dei rimedi alternativi, che in questo caso la Commissione sta ancora valutando. Ma l’Esecutivo Ue, a quanto si apprende a Bruxelles, comminerà comunque una sanzione simbolica a Meta per la violazione del regolamento Dma nel periodo trascorso fino ad ora. Infine, contemporaneamente alle conclusioni sulle altre due inchieste, la Commissione dovrebbe comunicare anche la chiusura positiva di una terzo caso, riguardante ancora Apple. Si tratta dell’indagine sul “Choice Screen”, ovvero la possibilità per gli utenti di decidere quali applicazioni mettere sullo schermo del proprio dispositivo elettronico, senza imposizioni da parte di Apple. Sempre a quanto si apprende a Bruxelles, in questo caso, la società americana ha risposto ai rilievi della Commissione fornendo un’alternativa giudicata soddisfacente. Ci vorrà ancora un po di tempo, invece, per concludere l’indagine che la Commissione ha in corso, ai sensi dell’altro regolamento del Ue sui servizi digitali (il “Digital Services Act”, Dsa), sulla piattaforma di social media X (ex Twitter), di proprietà di Elon Musk. E’ una vicenda diventata particolarmente delicata dopo l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, grande alleato di Musk, e dopo l’uso spregiudicato e politicamente orientato che il proprietario ha imposto a X, che appare in violazione con il regolamento Dsa riguardo alla sorveglianza delle piattaforme sui post dei social media, sul funzionamento degli algoritmi, sulla manipolazione e la verifica delle informazioni, sui contenuti illegali e sulle interferenze nei processi elettorali. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Difesa Ue, le posizioni opposte dei Conservatori di Meloni e del Ppe di Tajani e Weber

Difesa Ue, le posizioni opposte dei Conservatori di Meloni e del Ppe di Tajani e WeberRoma, 12 apr. (askanews) – Nel momento in cui la crisi dei dazi della relazioni transatlantiche, la minaccia Usa di ridurre o ritirare il proprio ombrello difensivo per i paesi europei nella Nato, gli sviluppi della guerra Russa in Ucraina e il ritorno prepotente della logica delle ‘sfere d’influenza’ nella geopolitica mondiale impongono all’Europa di ripensare, rafforzare, riorganizzare e rendere più efficiente la propria difesa, le famiglie politiche europee dei due principali partiti di governo in Italia, Fi e Fdi, divergono in modo clamoroso, con posizioni opposte, proprio sul concetto di difesa comune.


Intervenendo durante un dibattito sulle strategie di politica estera, sicurezza e difesa dell’Unione, tenutosi lunedì primo aprile a Strasburgo, Adam Bielan, coordinatore per gli Affari esteri dell’Ecr, il partito dei Conservatori europei a cui appartiene Fratelli d’Italia, ha parlato in modo inequivocabile contro i piani di abbandono dell’unanimità nella politica estera e di sicurezza dell’Ue e ha respinto l’idea di un’Unione della Difesa, vista come un progetto in concorrenza con la Nato. ‘Vi sono serie preoccupazioni. Ancora una volta, assistiamo a proposte di abbandono dell’unanimità nella politica estera e di difesa. Crediamo fermamente che queste decisioni debbano rimanere nelle mani degli Stati membri sovrani, non essere centralizzate a Bruxelles’, ha detto Bielan. ‘Mettiamo inoltre in guardia – ha aggiunto – contro la spinta verso una vera e propria ‘unione di difesa’ e la vaga promozione dell’autonomia strategica, che rischia di duplicare le strutture della Nato e di allontanarci dal nostro alleato più importante: gli Stati Uniti. La sicurezza europea deve basarsi sulla responsabilità, su una forte cooperazione con la Nato e su una chiara visione strategica’, ha concluso il rappresentante dei Conservatori europei. Posizioni diametralmente opposte a quelle del Ppe, a cui appartiene Forza Italia, e in particolare del presidente del Partito europeo e del gruppo europarlamentare, Manfred Weber. ‘In merito alla difesa – ha detto Weber durante una conferenza stampa a Bruxelles mercoledì 9 aprile -, sostengo pienamente le iniziative del Consiglio europeo avviate da Ursula von der Leyen e dalla Commissione in merito agli 800 miliardi’ che gli Stati membri potranno destinare al riarmo nazionale e alla spesa per la difesa utilizzando la clausola di sospensione del Patto di stabilità e il piano ‘Safe’ da 150 miliardi di euro. ‘Dobbiamo sanare i limiti e gli errori del passato, perché non abbiamo investito abbastanza nell’ultimo decennio nella difesa europea. Ecco perché dobbiamo accelerare immediatamente il pieno sostegno’ all’aumento delle capacità di difesa dei paesi Ue, ha riconosciuto il presidente del Ppe. ‘Ma devo dire – ha avvertito – che in questo momento stiamo perdendo l’opportunità di creare un vero pilastro europeo della difesa’, perché ‘ci stiamo basando esclusivamente sugli investimenti nazionali nell’industria della difesa’. ‘Quando domani – ha osservato Weber – in uno dei nostri paesi dell’Ue, la Romania tra poche settimane o la Francia o altri paesi tra pochi mesi, probabilmente arriverà al potere un leader populista e autoritario, in Francia o altrove, non potrà dire: ‘Ora lascerò immediatamente l’Eurozona o il mercato unico’, perché questo significherebbe un danno economico notevole per i francesi, per i rumeni o per qualsiasi altro europeo’. Negli anni ’90, ha ricordato il presidente del Ppe, ‘Helmuth Kohl e François Mitterrand hanno organizzato l’economia con un mercato unico e con l’euro in modo che non si potesse revocare l’Europa’. Sull’economia, insomma, nei nostri Stati membri ‘non si può far tornare indietro l’Europa, chiunque arrivi’ al potere. ‘Ma sul piano della difesa – ha sottolineato Weber -, un leader populista di destra in Romania, in Germania, in Francia, ovunque, potrebbe dire immediatamente: ‘Non difenderò con le mie truppe la Polonia o la Lituania. Non prendo sul serio la solidarietà in termini militari’. E questo significa che sul piano della difesa non siamo ancora integrati nell’Unione europea, non siamo uniti. Non siamo un blocco attivo di paesi che si difendono a vicenda’. Oggi, ha detto ancora il presidente del Ppe, ‘crediamo fermamente in eserciti nazionali forti: l’esercito spagnolo, l’esercito francese, l’esercito polacco, su questo non c’è dubbio. Ma dobbiamo unire le forze in Europa per ottenere qualcosa che sia anche, alla luce della storia, sostenibile e sostenibile a lungo termine, questo è ciò che intendo, aggiungendo idee che vadano oltre le soluzioni tecniche che abbiamo attualmente sul tavolo’ per il riarmo nazionale degli Stati membri.


Durante un punto stampa a margine della riunione ministeriale della Nato al quartier generale dell’Alleanza a Bruxelles, il 4 aprile, abbiamo chiesto al ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, Antonio Tajani, cosa pensasse delle posizioni dei Conservatori europei contro la difesa comune europea, espresse da Bielan tre giorni prima, e come si concilia questa posizione con quella di Fi nel governo italiano e nei negoziati europei. ‘Intanto – ha risposto Tajani – non si deve conciliare nulla perché si sta parlando ora soltanto di un maggior coordinamento e su quello siamo tutti quanti d’accordo. A lungo termine la nostra visione di Forza Italia è quella di avere una difesa europea, ma è una questione che per essere realizzata richiede decenni di lavoro. Non pensiamo domani di far togliere l’uniforme a tutte le forze armate europee per indossarne un’altra. Adesso bisogna lavorare con il coordinamento, bisogna lavorare a livello industriale, bisogna lavorare sull’armonizzazione, magari per avere dei reparti numerosi di pronto intervento che siano coordinati, e a questo stiamo lavorando’. ‘Poi – ha continuato il leader di Forza Italia -, a lungo termine le visioni possono essere anche diverse: noi siamo federalisti, quindi è ovvio che siamo per una difesa europea. Noi, Forza Italia, crediamo negli Stati Uniti di Europa, siamo un partito europeista, l’abbiamo detto, ripetuto, ribadito, Berlusconi l’ha sempre detto. Ma adesso il primo passo per raggiungere quell’obiettivo è quello di un coordinamento più forte e su questo siamo tutti d’accordo’. Ma non ci vorrebbe, abbiamo chiesto ancora, un’autorità di coordinamento europea, che assicuri una politica industriale armonizzata per la difesa? ‘Adesso, intanto – ha replicato Tajani – il coordinamento deve essere fatto fra gli Stati perché in questo momento le difese dipendono dai vari Stati. E’ giusto avere per la prima volta un commissario europeo alla difesa. Su questo noi abbiamo dato un giudizio positivo, e quindi è un percorso che si sta facendo. Non dobbiamo partire dalla fine del percorso, dobbiamo partire dall’inizio e si sta andando in quella giusta direzione’. ‘Il fatto che si parli insieme di difesa europea – ha rilevato il ministro degli Esteri – è già veramente l’inizio di una azione che deve portare, per quanto mi riguarda, a quello che era il sogno di De Gasperi e che poi è stato il sogno di Berlusconi, ribadito nel suo ultimo intervento. Lui aveva cominciato a parlare anche di coordinamento tra forze armate europee. Questa è la prima tappa e su questo siamo tutti d’accordo’.


‘Poi – ha ammesso Tajani – che ci siano delle differenze fra le forze italiane della maggioranza… Siamo parte di famiglie politiche europee diverse, ma lo siamo dal 1994, cioè da quando è nata la coalizione di centrodestra. La nostra è una coalizione politica, sapendo bene, ognuno di noi, che ci sono delle differenze. Ma c’è un minimo comun denominatore: sulla riforma della giustizia, la riforma del presidenzialismo, l’autonomia purché sia equilibrata, sulla riduzione della pressione fiscale. Ci sono tante azioni su cui noi siamo d’accordo, ma siccome non siamo nello stesso partito abbiamo su alcune questioni idee diverse. Ma questa è anche una ricchezza per il centrodestra. La nostra appartenenza al popolarismo europeo – ha aggiunto il leader di Forza Italia – è chiara. Sui valori noi non facciamo neanche un millimetro di retromarcia’. E a proposito di differenze, in Italia questa settimana è andata in scena una singolare ‘rappresentazione’ parlamentare in cui la maggioranza di centrodestra – per celare le proprie divisioni interne – è riuscita ad approvare una mozione sulla difesa europea senza far minimamente cenno al progetto ReArm Europe Plan/Readiness 2030 della Commissione. Semplicemente, con uno straordinario atto di equilibrismo, la mozione di maggioranza impegna genericamente l’esecutivo ‘a proseguire nell’opera di rafforzamento delle capacità di difesa e sicurezza nazionale al fine di garantire, alla luce delle minacce attuali e nel quadro della discussione in atto in ambito europeo in ordine alla difesa europea, la piena efficacia dello strumento militare’. Il dibattito aveva messo plasticamente in evidenza le differenti anime del centrodestra. Se Forza Italia con Isabella De Monte sottolineava che ‘ci vuole una risposta europea, che deve essere quella dell’incremento della nostra capacità di difenderci’ e Fratelli d’Italia (Giangiacomo Calovini) spiegava che ‘un’Ue che aspira a essere protagonista nel mondo non può rimanere dipendente da altri per la propria sicurezza’, ascoltando il leghista Simone Billi pareva di sentire un esponente dell’opposizione (di sinistra): ‘Noi della Lega-Salvini Premier – aveva detto Billi – ci opponiamo fermamente a questi 800 miliardi di debiti per la difesa europea’. ‘In un’altra epoca – ha chiosato il Dem Stefano Graziano – si sarebbe andati al Quirinale a fare una verifica di governo, perché c’è un problema serio nella maggioranza, molto serio’.


Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Dazi, Meloni da Trump: gli scenari di una missione ad alto rischio

Dazi, Meloni da Trump: gli scenari di una missione ad alto rischioRoma, 12 apr. (askanews) – “Certo la sospensione di 90 giorni dei dazi è stata un bel colpo di fortuna. L’incontro con Donald Trump a guerra commerciale in corso avrebbe rischiato di trasformarsi in una catastrofe, adesso è stato declassato ad alto rischio. Perché comunque con lui non si sa mai”. A leggere il ‘termometro’ è un esponente di governo che segue da vicino la questione dazi e che ha osservato l’ottovolante di pochi giorni fa, dalla frase volgare del tycoon (“tutti vogliono baciarmi il c..o”) alla frenata arrivata poche ore dopo. E se c’è stato sollievo per una situazione che si era fatta estremamente imbarazzante, quell’episodio ha confermato tutta l’imprevedibilità del presidente Usa. Imprevedibilità che, come all’economia, non piace neppure alla diplomazia. “E’ il fattore C di Giorgia…”, sorride un parlamentare di maggioranza, alludendo diciamo alla fortuna che – secondo molti – la premier avrebbe nei momenti critici.


Dunque ora che il pistolero ha rimesso la colt nella fondina e Ursula von der Leyen ha parimenti deposto la sua arma (che era un po’ una scacciacani, il famoso “bazooka” era stato solo minacciato) fermando le contromisure, cosa può venir fuori dall’incontro che Meloni e Trump avranno alla Casa Bianca il 17 aprile? Ipotizziamo tre scenari, come ce li tratteggia un diplomatico di lungo corso. 1) Il best case (certo non probabile): a Washington è un successo su tutta la linea di Meloni. La premier – questo è il suo piano – nello Studio Ovale rilancia a Trump la proposta “zero per zero” già avanzata dall’Ue e soprattutto lo convince a mettersi a un tavolo con i “parassiti” europei per arrivare a una soluzione “vantaggiosa per tutti”. Il tycoon accetta e lei torna in Italia e a Bruxelles vincitrice, potendo anche dire: “Ve l’avevo detto che ci parlavo io e si sistemava tutto”.


2) Il pareggio: Meloni fa la sua proposta (zero per zero e tavolo di trattativa), Trump ringrazia, le fa i soliti complimenti, grandi sorrisi e attestazioni di stima ma in concreto non si fanno passi avanti. Materialmente un incontro inutile, però da un punto di vista mediatico comunque la premier potrà giocarsi, in Italia, la narrazione della “relazione privilegiata” da portare avanti per ulteriori contatti. 3) La trappola: Trump riempie di lodi Meloni ma in diretta Tv torna ad attaccare l’Unione europea “nata per fregarci” creando un enorme imbarazzo e magari (worst case) sgancia la bomba: uno “sconto” unilaterale sui dazi solo per alcune esportazioni italiane. Una mossa non probabile, ma possibile, nell’ottica del suo tentativo – abbastanza chiaro – di disarticolare l’Ue. A questo punto Meloni dovrebbe scegliere: accettare, mettendosi di fatto contro tutta l’Europa, o rifiutare, rovinando il rapporto con Trump ma rimanendo fedele al patto comunitario. Si può ragionevolmente confidare nel fatto che sceglierebbe la seconda strada, anche se in questo caso tornerebbe a Roma con in tasca un fallimento. E’ vero che il governo, con il ministro degli Esteri Antonio Tajani, aveva annunciato il 7 aprile che avrebbe provato a ritardare la prima ondata di contromisure europee riguardo ai dazi Usa su acciaio e alluminio; ma all’atto pratico l’Italia ha votato poi a favore di quelle misure, il 9 aprile, pur non avendone ottenuto il rinvio.


Le diplomazie sono al lavoro per disinnescare e prevenire tutte le possibili mine e imboscate, ma con il presidente americano non è possibile mai avere certezze. Chiedere a Volodymyr Zelensky per conferma: con lui lo spray (il breve saluto iniziale alla presenza dei giornalisti) è diventato una “esecuzione” politica in diretta mondiale. Per questo, a Palazzo Chigi, c’è chi spera che se ne faccia a meno, limitandosi a una stretta di mano. Ma la decisione, su questo, spetta a The Donald. P.S. Per onestà intellettuale bisogna dire che non è vero – al di là delle affermazioni di qualche esponente di governo francese – che a Bruxelles c’è diffidenza nei confronti dell’iniziativa di Meloni. Nei giorni scorsi, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e Giorgia Meloni, “si sono tenute in contatto in merito alla visita della premier italiana a Washington”, hanno riferito fonti della Commissione. “Per quanto riguarda i negoziati commerciali, spetta alla Commissione europea negoziare per conto degli Stati membri; tuttavia, qualsiasi messaggio coordinato che possa essere trasmesso all’Amministrazione statunitense è benvenuto”, spiega una fonte europea. E comunque un “doppio gioco”, anche volendo, non è proprio possibile: come ha ricordato un portavoce della Commissione europea, Stefan de Keersmaecker, “la Commissione ha competenza esclusiva per negoziare in ambito commerciale”.


E se qualcuno “sgarra”, può scattare il meccanismo anti-coercizione. Si tratta di uno strumento finora mai usato, attivabile in assenza di una maggioranza qualificata degli Stati membri contraria, che può essere utilizzato contro i paesi terzi che, “applicando o minacciando di applicare misure che incidono sugli scambi (come i dazi, ndr) o sugli investimenti”, intendano interferire nelle legittime decisioni sovrane dell’Ue o di un suo Stato membro, “cercando di impedire o di ottenere la cessazione, la modifica o l’adozione di un determinato atto”. L’uso dei dazi da parte dell’Amministrazione Trump come strumento di pressione per ottenere modifiche nella normativa Ue sull’Iva, o sui regolamenti del mercato digitale, o sugli standard fitosanitari e di sicurezza alimentare, ad esempio, rientrerebbe chiaramente nella definizione di “coercizione economica”. Così come qualunque tentativo di accordo separato da parte di Washington con uno Stato membro, con concessioni date in cambio dell’impegno di quel paese a cercare d’influenzare le decisioni dell’Ue nel senso auspicato dall’Amministrazione Usa. L’attivazione del regolamento può portare all’imposizione, nei confronti del paese responsabile del tentativo di coercizione economica e delle sue imprese, di dazi, restrizioni al commercio nei servizi e nei diritti di proprietà intellettuale, restrizioni all’accesso agli investimenti e agli appalti pubblici. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Dazi, come risponderà l’Unione europea? L’obiettivo è trattare

Dazi, come risponderà l’Unione europea? L’obiettivo è trattareRoma, 5 apr. (askanews) – Come sta rispondendo, concretamente, la Commissione europea ai dazi di Donald Trump, al di là della costernazione e dei proclami contraddittori che abbiamo sentito negli ultimi giorni da Bruxelles e dai governi dei Ventisette, e che vanno dalla fermezza e determinazione, con l’annuncio di misure di ritorsione adeguate e proporzionate, all’appello al dialogo, al negoziato, a evitare l’escalation, a minimizzare le contromisure europee?


Innanzitutto due precisazioni. La prima: come ricordava David Carretta sul ‘Mattinale europeo’ l’Italia viene ‘risparmiata’ grazie alla sua appartenenza all’Ue. Se Trump avesse applicato la sua semplicistica formula ai singoli paesi europei, l’Italia avrebbe dovuto subire un dazio del 32%, più del 31% imposto alla Svizzera e del 20% imposto all’Ue. Senza l’Ue l’Italia avrebbe dovuto pagare un dazio più alto di Germania e Francia, a cui la formula di Trump avrebbe inflitto un’aliquota del 25% e del 14%. La seconda precisazione: la risposta europea non è più quella che era stata annunciata nelle ultime settimane; c’è stata una evidente correzione di rotta tattica, per adeguarsi alle imprevedibili e, sotto diversi punti di vista, spesso incomprensibili decisioni del presidente americano.


Inizialmente, la Commissione europea intendeva far rientrare in vigore automaticamente, il primo aprile, le vecchie contromisure già decise nel 2018 e nel 2020 contro i dazi della prima Amministrazione Trump sulle importazioni di acciaio (25%) e alluminio (10%), e che erano state sospese durante il mandato di Biden. Queste contromisure (che avrebbero colpito le esportazioni Usa verso l’Ue per un valore di 8 miliardi di euro) avrebbero risposto ai nuovi dazi Usa annunciati per i due settori il 12 marzo scorso. Inoltre, l’Esecutivo comunitario annunciava che avrebbe preparato nuove contromisure (per un valore di 18 miliardi di euro) per rispondere all’aumento del 15% dei dazi sull’alluminio (dal 10 al 25 per cento), rispetto a quelli che erano stati previsti dalla precedente Amministrazione Trump. Questi nuovi contro-dazi sarebbero entrati in vigore a metà aprile. Immediatamente dopo, inoltre, la Commissione aveva annunciato che avrebbe preparato nuove misure di ritorsione (che è la traduzione italiana corretta dall’inglese ‘retaliation’, molto più di ‘rappresaglia’ e soprattutto dell’inappropriato ‘vendetta’), per rispondere ai dazi già minacciati da Trump, ma non ancora quantificati e definiti nei dettagli.


Il 20 marzo, mentre si riuniva il Consiglio europeo a Bruxelles, questa tempistica è stata rivista, con l’annuncio che la riattivazione dei contro-dazi su acciaio e alluminio sarebbe avvenuta il 9 aprile. Inoltre, successivamente la Commissione, anche a seguito delle intense consultazioni in corso con gli Stati membri (e come auspicato da Giorgia Meloni), ha frenato ancora sulle ulteriori misure di ritorsione previste in risposta ai nuovi dazi annunciati da Trump, prendendo tempo per poter negoziare con Washington e rinunciando a una reazione immediata, che avrebbe come effetto inevitabile una nuova risposta da parte Usa e l’escalation verso una vera e propria guerra commerciale che l’Ue vuole assolutamente evitare. Un altro elemento importante che ha chiaramente cambiato la prospettiva per gli europei è la netta sensazione che le minacce, gli annunci e le decisioni clamorose di Trump siano soprattutto delle posizioni negoziali, ovvero strumentali per ottenere altro, non è ancora ben chiaro cosa, ma lo si scoprirà durante il negoziato. In questo quadro, anche le ritorsioni commerciali europee non sono affatto un fine in sé, ma uno strumento tattico per ottenere il risultato strategico di una riduzione, non un aumento, dei dazi da entrambe le parti. A questo punto, insomma, la tempistica delle decisioni europee si configura nei termini seguenti.


1) Il 7 aprile, a Lussemburgo, c’è il Consiglio Ue dei ministri del Commercio (con Antonio Tajani per l’Italia), che non voterà, ma avrà un’ultima discussione sui prodotti Usa da prendere di mira con le misure europee di ritorsione per i dazi sull’acciaio (dove sostanzialmente dovrebbe essere riattivata la vecchia lista del 2018-2020, già già chiusa) e soprattutto per quello sull’alluminio (dove invece la lista è in gran parte nuova, a causa del 15% di dazi aggiuntivi). 2) Il 9 aprile, saranno riattivate le vecchie misure del 2028 e 2020 contro i dazi di Trump su acciaio e alluminio che erano state sospese durante l’Amministrazione Biden, e in più la Commissione presenterà ai rappresentanti degli Stati membri, nel comitato Ue competente per gli strumenti di difesa commerciale (‘Trade Defense’) la sua proposta riguardo alla misure di ritorsione per l’aumento supplementare del 15% dei dazi sull’alluminio (deciso dagli Usa il 12 marzo). Da notare che si tratta di una procedura decisionale (detta di ‘comitologia’) per gli atti di esecuzione, in cui le proposte della Commissione possono essere respinte solo dalla maggioranza qualificata degli Stati membri, e possono dunque essere adottate anche con una maggioranza semplice contraria. Complessivamente, i dazi Usa in questi due settori colpiscono le esportazioni Ue per un valore di 26 miliardi di euro. Le misure di ritorsione su acciaio e alluminio entreranno tutte in vigore il 15 aprile, ma solo i vecchi contro-dazi saranno riscossi alle dogane a partire da quella data. Per le nuove misure riguardanti l’alluminio, la riscossione dei dazi avverrà a partire dal 15 maggio. 3) Entro fine aprile o inizio maggio, se non ci saranno state sorprese nel negoziato che è ora in corso, la Commissione proporrà al voto del Comitato per gli strumenti di difesa commerciale le nuove misure di ritorsione contro l’imposizione dei nuovi dazi del 25% sull’importazione di auto e componentistica dei veicoli, annunciata dall’Amministrazione Trump il 26 marzo scorso (valore delle esportazioni Ue colpite: 66 miliardi di euro); anche qui, verrà negoziata con gli Stati membri una nuova lista di prodotti Usa da colpire, in modo che le prevedibili contro-ritorsioni americane abbiano un impatto distribuito equamente sulle esportazioni degli Stati membri verso gli Usa. 4) A fine aprile, ma più probabilmente a maggio, e anche qui se nel frattempo non ci saranno stati progressi importanti nel negoziato con Washington, la Commissione presenterà le ulteriori misure di ritorsione contro i nuovi dazi generalizzati del 20% contro l’Ue, definiti ‘reciproci’ (valore delle esportazioni Ue colpite: 290 miliardi di euro), annunciati il 2 aprile, il ‘giorno della liberazione’, che rischia invece di passare alla storia come la data d’inizio di una nuova Grande Depressione dell’economia mondiale. ‘L’annuncio del presidente Trump di dazi universali su tutto il mondo, inclusa l’Ue – aveva affermato la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, poche ore dopo la decisione del presidente americano del 2 aprile -, è un duro colpo per l’economia mondiale. Mi rammarico profondamente di questa scelta. Cerchiamo di essere lucidi sulle immense conseguenze. L’economia globale ne soffrirà enormemente. L’incertezza aumenterà vertiginosamente e innescherà l’ascesa di un ulteriore protezionismo. Le conseguenze saranno disastrose per milioni di persone in tutto il mondo’. ‘Tutte le aziende, grandi e piccole – aveva avvertito von der Leyen -, soffriranno fin dal primo giorno. Da una maggiore incertezza all’interruzione delle catene di fornitura alla burocrazia gravosa. Il costo delle attività commerciali con gli Stati Uniti aumenterà drasticamente. E, cosa ancora più grave, sembra non esserci ordine nel disordine. Nessun percorso chiaro attraverso la complessità e il caos che si stanno creando mentre tutti i partner commerciali degli Stati Uniti vengono colpiti’. ‘Fin dall’inizio – aveva sottolineato la presidente della Commissione -, siamo sempre stati pronti a negoziare con gli Stati Uniti, per rimuovere qualsiasi barriera residua al commercio transatlantico. Allo stesso tempo, siamo pronti a rispondere. Stiamo già ultimando un primo pacchetto di contromisure in risposta ai dazi sull’acciaio. E ora ci stiamo preparando per ulteriori contromisure, per proteggere i nostri interessi e le nostre attività se i negoziati falliscono. ‘Come europei promuoveremo e difenderemo sempre i nostri interessi e valori. E difenderemo sempre l’Europa. Ma esiste un percorso alternativo. Non è troppo tardi per affrontare le preoccupazioni attraverso i negoziati. Ecco perché il nostro Commissario per il commercio, Maros Sefcovic, è costantemente impegnato con le sue controparti statunitensi. Lavoreremo per ridurre le barriere, non per aumentarle. Passiamo dal confronto al negoziato’, aveva concluso von der Leyen. Tutta l’attenzione, a questo punto, si sposta sul negoziato: faranno valere gli europei l’argomento del forte attivo Usa nello scambio con l’Ue nel settore dei servizi, soprattutto a vantaggio dei giganti americani del digitale, per ottenere condizioni più favorevoli dall’Amministrazione Usa? L’Ue ha strumenti per intervenire penalizzando le Big Tech, anche se per ora preferisce mantenere un silenzio tattico su questo punto. E poi, soprattutto: si capirà finalmente che cosa vuole davvero Trump dagli europei, oltre che dal resto del mondo, e quanto converrà all’Ue fare le concessioni che chiederà eventualmente il presidente americano? Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Dazi, Meloni insiste su trattativa. E chiede stop Grean Deal e deroghe a Patto

Dazi, Meloni insiste su trattativa. E chiede stop Grean Deal e deroghe a PattoRoma, 5 apr. (askanews) – “Le crisi nascondono sempre un’opportunità”. Questa frase, un po’ “fatta”, è una delle preferite dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che più volte l’ha usata nei suoi discorsi. L’ultima volta a proposito dei dazi imposti dal presidente americano Donald Trump.


Da settimane la premier frena sulle contro-misure che sta valutando la Commissione Ue e predica la linea della “trattativa” (anche se per ora gli spiragli sono pochi). Anche dopo il “Liberation Day” la sua opinione non cambia. Anzi la questione dazi passa – nel suo discorso – in secondo piano rispetto alla necessità di cambiare le politiche europee, rilanciando temi cari come la sospensione delle norme del Green Deal sull’automotive o la deroga al Patto di Stabilità. Cosa dice Meloni? Innanzitutto che i dazi non sono una “catastrofe” ma un solo “problema” che non impedirà all’Italia di continuare a esportare negli Usa (che rappresenta il 10% dell’export italiano). Per lei è più preoccupante l’”allarmismo” che si è creato dopo l’annuncio del tycoon. A cui però un paese vicino e simile come la Spagna ha subito risposto con un “bazooka” da 14 mld. Meloni, da parte sua, ha riunito i suoi ministri economici e la settimana prossima vedrà le associazioni di categoria per cercare le “soluzioni migliori”. Ma poi c’è da “trattare” a oltranza con gli americani, una “necessità” più che una “speranza” per lei che nei giorni del ponte di Pasqua vedrà a Roma J.D. Vance e ancora coltiva l’obiettivo di una missione a Washington a breve (ne abbiamo scritto la scorsa settimana) per un faccia a faccia alla Casa Bianca. Per lei la trattativa deve arrivare a “rimuovere tutti i dazi e non a moltiplicarli”. Una linea morbida che diventa maggiormente ‘tagliente’ quando parla dell’Europa che deve fare “passi avanti importanti” su vari fronti, eliminando quelli che definisce “dazi autoimposti”. “Sappiamo – spiega – che l’automotive oggi è un settore colpito dai dazi in maniera importante, quindi forse dovremmo ragionare di sospendere le norme del Green Deal relativi al settore dell’automotive”. Secondo punto, il Patto di Stabilità: “C’è una norma che si chiama clausola generale di salvaguardia che prevede una sospensione, una deroga al Patto di stabilità. Forse dovremmo ragionare di quello, o di fare una valutazione ulteriore su come è stato pensato il Patto di stabilità”. Anche sull’energia e sul mercato elettrico “bisogna essere un po’ più decisi e coraggiosi”. Questi saranno i temi che l’Italia porterà a Bruxelles, nella consapevolezza che “è possibile” che le proposte “non siano perfettamente sovrapponibili con i partner ma abbiamo il dovere di farlo”.


Una linea, quella di Meloni, per una volta molto simile a quella della Lega, ma fino a un certo punto. Se anche per il Carroccio “prima di pensare a guerre commerciali o contro-dazi che sarebbero un suicidio, l’Unione Europea tagli burocrazia, vincoli e regole europee che soffocano le imprese italiane, azzerando il Green Deal e il tutto elettrico”, il partito di Matteo Salvini si spinge ben oltre. “Quello che l’Italia può fare, ed è quello che la Lega chiede, e che il governo farà – dice un ‘big’ come il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari – è di trattare bilateralmente con Trump. Ad esempio, scopriamo che sui farmaci questi dazi non ci saranno, e per l’Italia l’industria farmaceutica è un’industria importante ed è la prima fonte di export. Questo vuol dire che trattando si può su diverse merci andare a ottenere delle differenziazioni sui dazi che emettono loro”. Un confine, quello del muoversi autonomamente rispetto all’Europa, che Meloni non supera e di cui Forza Italia, l’anima europeista della coalizione, non vuol sentir parlare. “Non si può negoziare” direttamente, come Italia “con gli Stati Uniti perché la competenza del commercio internazionale è della Commissione europea, quindi chi tratta è il commissario Ue Maros Sefcovic, ascoltando e confrontandosi con noi”, taglia corto il ministro degli Esteri e vice premier Antonio Tajani. Che avverte: “Non accetteremo mai derive antieuropeiste”. Parafrasando un ex premier: “Prepariamo i pop-corn”?


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Governo, in Italia si inizia a sussurrare la parola elezioni (nel 2026)

Governo, in Italia si inizia a sussurrare la parola elezioni (nel 2026)Roma, 5 apr. (askanews) – Proprio mentre Giorgia Meloni festeggia l’ingresso nella top five dei governi più longevi, in Italia si comincia a parlare di elezioni. Per ora sono accenni, indizi, sussurri, confidenze. Come quelle che abbiamo raccolto da due ministri (non leghisti), in due diverse conversazioni. Ed entrambi hanno detto la stessa cosa: “Al massimo nella primavera 2026 si va a votare”.


E simile è anche la spiegazione di entrambi. “Il governo ha perso la sua spinta propulsiva. Giorgia (Meloni) si è stufata delle continue fughe in avanti di Salvini, sopporta con grande pazienza, ogni tanto sbotta, ma mi pare che abbia la consapevolezza che così rischia di farsi logorare”, spiega uno di loro. In effetti nel sondaggio elaborato da Ipsos e diffuso pochi giorni fa, Fdi è dato in leggero calo (26,6%) con la Lega in crescita al 9% (+ 0,9%) che torna a superare Forza Italia, accreditata dell’8,4%. Ma il dato che più colpisce è che l’indice di gradimento della premier è a quota 41, al livello minimo registrato dal 2022. E non è solo la presidente del Consiglio a essere irritata per la strategia aggressiva e la “diplomazia parallela” del leghista. Lo è anche – e forse ancor di più – Antonio Tajani, alla guida di un partito che appartiene al Ppe e che sempre più a disagio osserva le sortite dell’altro vice premier. Il voto anticipato dunque “non mi sembra una questione di se ma di quando e salvo rivolgimenti internazionali o un Papeete-bis sarà Giorgia a dettare i tempi”, osserva il secondo ministro. Fin qui le confidenze, ma dicevamo anche di indizi. Il principale è quello che riguarda la legge elettorale. Quando il tema viene fuori – nella storia politica italiana – vuol dire che si sta iniziando a pensare al voto. Dopo la partecipazione di Meloni al congresso di Azione, sabato 29 marzo, si è iniziato a sussurrare di conversazioni sottotraccia con il partito di Calenda per arrivare a una legge elettorale proporzionale. “Sarebbe una mossa astuta – riflette un parlamentare di lungo corso della maggioranza -. Tutti hanno parlato di un avvicinamento Meloni-Calenda, di una volontà di ‘sostituire’ i leghisti con gli azionisti. Cosa sul momento impossibile politicamente e numericamente. Ma per il futuro è un altro discorso. Con una legge proporzionale Meloni prenderebbe il suo 30% a cui potrebbe sommare gli eletti di Forza Italia e altri centristi, Calenda compreso, estromettendo la Lega. Se fosse vero mi sembrerebbe, sulla carta, una buona idea”. Poi certo c’è da trovare i voti per una legge del genere, cosa non facile. Senza contare che Salvini, se fiutasse l’inghippo, potrebbe far saltare il banco.


Senza spingersi alla fantapolitica, comunque, il clima è quello di una grande difficoltà, sia sulla scena internazionale – per le politiche di Donald Trump – che all’interno. Passeggiando in Transatlantico alla Camera, già al martedì non è raro vedere l’Aula non convocata e pochi deputati che si aggirano tra i divanetti. “E’ un momento strano, non arriva quasi nulla”, allarga le braccia un peone. Secondo cui, in Fdi, già si sta mettendo mano a una ricognizione per le eventuali candidature. I prossimi appuntamenti (il dossier dazi, il congresso della Lega sabato e domenica, le regionali e i referendum) saranno decisivi per chiarire il quadro. E forse anche i tempi. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

L’emergenza migranti non è un’emergenza? Cosa ne pensano i cittadini europei

L’emergenza migranti non è un’emergenza? Cosa ne pensano i cittadini europeiRoma, 5 apr. (askanews) – Forse la “narrazione” dominante sui migranti è sbagliata? E’ quanto pare emergere da uno studio dell’Istituto Universitario Europeo e dell’Università di Uppsala che ha coinvolto 20.000 persone in Italia, Regno Unito, in Polonia, Svezia e Austria.


Secondo la ricerca, in Italia, come in Europa, i cittadini preferiscono politiche che offrano ai migranti irregolari (stimati in 2-3 milioni) un percorso verso la regolarizzazione – a determinate condizioni -, anziché negare loro questa possibilità. E l’Italia si distingue, in particolare, come il paese più favorevole tra quelli studiati all’adozione di politiche inclusive per questo gruppo di migranti. Lo studio ha dato diverse opzioni politiche riguardanti i diritti sociali, le protezioni sul lavoro e l’assistenza sanitaria per i migranti irregolari, insieme a “programmi di regolarizzazione” che offrono percorsi per ottenere lo status legale. Lo studio ha inoltre rivelato che l’accesso all’assistenza sanitaria primaria per i migranti irregolari è preferito rispetto a dare loro sussidi per i redditi bassi. Il sostegno pubblico alla fornitura di assistenza sanitaria varia tra i paesi: in Italia si è registrato il massimo supporto a politiche inclusive su diversi aspetti analizzati nello studio. Ad esempio, sebbene in generale ci sia stato poco o nessun supporto per il sostegno ai redditi bassi per i migranti irregolari, l’Italia è l’unico paese in cui i partecipanti si sono mostrati più ambivalenti, senza manifestare una netta preferenza né a favore né contro questa politica.


“I risultati – spiega Martin Ruhs, responsabile del progetto PRIME (Protecting Irregular Migrants in Europe) che ha portato avanti lo studio – mostrano che i residenti in Italia e nell’UE sono contrari a politiche semplicistiche, come l’opposizione totale e indiscriminata alla concessione dello stato legale ai migranti irregolari. Preferiscono invece politiche che distinguano tra diverse categorie di migranti irregolari e i diritti a cui dovrebbero avere accesso”. Questo, precisa, “non significa che i nostri intervistati vogliano offrire uno stato legale incondizionato e l’accesso ai diritti a tutti i migranti irregolari, ma dimostra che i cittadini hanno opinioni più sfumate su come la migrazione dovrebbe essere gestita di quanto i responsabili politici solitamente riconoscano”. In tutti e cinque i paesi, i rispondenti hanno mostrato un supporto costante per politiche che permettano ai migranti irregolari di ottenere la residenza legale a determinate condizioni, come una permanenza minima e un casellario penale pulito. Le politiche che integrano l’accesso ai diritti legali con alcune misure di controllo dell’immigrazione (ad esempio, obblighi di segnalazione per i fornitori di assistenza sanitaria) tendono a generare una maggiore accettazione pubblica, anche se l’effetto varia a seconda del tipo di politica e del paese. Mentre gli intervistati tendono a supportare l’accesso condizionato all’assistenza sanitaria primaria per i migranti irregolari, mostrano una forte opposizione nel concedere benefici economici, come il sostegno al reddito basso. Il pagamento degli arretrati per salari non pagati (un diritto fondamentale del lavoro) è invece sostenuto quando collegato a misure di controllo migratorio. Le persone sono più disposte a sostenere la regolarizzazione e la protezione dei diritti per quei migranti irregolari che abbiano già lavorato legalmente nel paese ospitante, soprattutto in ruoli essenziali come l’assistenza agli anziani.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Braccio di ferro e pressioni Usa su attuazione regolamento IA

Braccio di ferro e pressioni Usa su attuazione regolamento IARoma, 29 mar. (askanews) – È in corso un braccio di ferro attorno ad alcune misure di esecuzione, ancora in corso di definizione nei dettagli, del pionieristico regolamento dell’Ue sull’Intelligenza artificiale (IA), con il sospetto che vi sia una pesante influenza delle potenti multinazionali Big Tech statunitensi per indebolire o eliminare del tutto le garanzie a tutela dei diritti fondamentali e della democrazia, dei diritti d’autore e della trasparenza per favore degli utilizzatori.


Pur essendo stato approvato definitivamente nel maggio 2024 ed entrato in vigore nell’agosto scorso, il regolamento (“AI Act”) ha lasciato aperti diversi elementi per l’attuazione delle nuove norme, da definire successivamente con atti delegati o atti di esecuzione (“implementig act”). Il più importante di questi atti è l’elaborazione di un “Codice di buone pratiche” (articolo 56 del Regolamento) che dovrebbe essere applicato in particolare dai fornitori di IA per finalità generali che presentano “rischi sistemici”, come GPT-4. L’elaborazione del Codice di buone pratiche è stata affidata a un gruppo di esperti, chiamato “AI Office” (Ufficio per l’IA), che si riunisce regolarmente e che ha prodotto già tre bozze, sottoposte poi regolarmente a larga consultazione delle parti interessate. L’obiettivo prescritto dal regolamento è di arrivare a un testo definitivo entro inizio maggio. Se l’Ufficio per l’IA non riuscirà a produrre un testo definitivo, o se non lo riterrà soddisfacente, la Commissione europea potrà prescrivere entro inizio agosto delle norme comuni, attraverso un atto di esecuzione, per l’attuazione degli obblighi prescritti ai fornitori di modelli di IA per finalità generali con rischio sistemico.


Abbiamo chiesto al relatore dell’Ai Act per il Parlamento europeo, Brando Benifei, del Pd (gruppo dei Socialisti e Democratici, S&D) di spiegare i punti controversi nell’ultima bozza del Codice di buone pratiche prodotta dall’Ufficio per l’IA, che hanno già provocato proteste, in particolare, del Parlamento europeo e dalle organizzazioni dell’industria culturale e creativa, degli autori e dei creatori di contenuti. “Il codice di buone pratiche – ha ricordato Benifei – si applica solo ai sistemi generativi che usano i modelli più potenti di IA. Riguarda un pezzo importante del regolamento europeo sulla IA (“AI Act”) che è stato lasciato volutamente aperto perché è un terreno più avanzato in rapida evoluzione. Si tratterebbe di una sorta di manuale di istruzioni su come rispettare l’AI Act per quanto riguarda la cyber sicurezza, la trasparenza delle informazioni nei riguardi degli utilizzatori, i dati usati per l’addestramento dei modelli, il rispetto del copyright, e anche la verifica di tutti gli elementi di rischio sistemico riguardo alla libertà di informazione, alla democrazia e ai diritti fondamentali”.


“Il Codice – ha continuato Benifei – è oggetto del lavoro di gruppi di esperti provenienti anche da paesi non Ue, accademici, sviluppatori, Pmi, organismi della società civile. Siamo alla terza stesura e dovrebbero essercene altre due o tre prima del testo definitivo. Ci sono – ha rilevato il relatore dell’AI Act – tre aspetti problematici nell’ultima bozza: il primo riguarda la tutela dei diritti fondamentali e la verifica dei rischi sistemici, che avrebbero carattere solo volontario e opzionale, invece che vincolante. D’accordo sulla critica a questo punto c’è una maggioranza molto forte nel Parlamento europeo, che è la stessa che ha approvato l’AI Act”, ovvero Ppe, Socialisti e Democratici, Liberali di Renew e Verdi. Questa posizione critica è stata espressa chiaramente in una lettera inviata alla vicepresidente esecutiva della Commissione europea responsabile per la Sovranità tecnologica, Henna Virkkunen, e firmata dallo stesso Benifei e da tutti i relatori ombra dei quattro gruppi politici della maggioranza favorevole, più la ex segretaria di Stato spagnola alla Digitalizzazione e l’Intelligenza artificiale, Carme Artigas, che nel 2023 aveva condotto i negoziati sull’AI Act come rappresentante della presidenza di turno spagnola del Consiglio Ue. “Le scriviamo – si legge nella lettera – con grande preoccupazione riguardo al Codice di buone pratiche dell’AI Act, in cui la valutazione e la mitigazione di vari rischi per i diritti fondamentali e la democrazia sono ora improvvisamente del tutto volontarie per i fornitori di modelli di IA a finalità generali con rischi sistemici. Noi, i co-legislatori che hanno negoziato l’AI Act, sottolineiamo: questa non è mai stata l’intenzione dell’accordo” nel negoziato a tre (trilogo) tra Parlamento europeo, Consiglio Ue e Commissione. “I rischi per i diritti fondamentali e la democrazia sono rischi sistemici che i fornitori di IA più impattanti devono valutare e mitigare. È pericoloso, antidemocratico e crea incertezza giuridica reinterpretare completamente un testo legale e restringere la sua portata, tramite un Codice di buone pratiche, dopo che è stato concordato dai co-legislatori”, rileva ancora la lettera.


E non è tutto. “Io ritengo – ci ha spiegato Benifei – che ci siano anche altri due elementi critici nella bozza del Codice, di cui non si parla della lettera a Virkkunen, perché in questo caso i quattro gruppi politici non hanno le stesse posizioni. Il primo riguarda le disposizioni insoddisfacenti per garantire il rispetto dei diritti d’autore, ovvero le regole sull’uso delle informazioni per addestrare i modelli di IA, volte a tutelare gli autori e i creatori di contenuti. Su questa critica sono d’accordo il Ppe e i Socialisti, mentre sono più freddi i Verdi, e contrari i Liberali”. “L’altro elemento critico – ha aggiunto il relatore dell’AI Act – riguarda le disposizioni sulla trasparenza, sulla condivisione con gli utilizzatori, ovvero con le imprese che acquistano e usano i modelli di IA, delle informazioni di sicurezza, delle caratteristiche tecniche e dei rischi esistenti. Questo punto è importante soprattutto per la tutela delle imprese più piccole. In questo caso a essere d’accordo con la critica sono i Socialisti e i Verdi; il Ppe è più freddo mentre i Liberali, anche qui, sono contrari. Noi vogliamo più trasparenza, altrimenti si fa un grosso favore alle Big Tech statunitensi; vogliamo aumentare, per gli europei che comprano i modelli di IA americani e cinesi, la capacità di sapere che cosa hanno in mano”. “La Commissione Europea non può ignorare i co-legislatori. La Commissione non ha interesse a uno scontro frontale con il Parlamento europeo”, ha rilevato Benifei, secondo il quale, anche se non possono intervenire nell’approvazione dell’atto di esecuzione per il Codice, gli eurodeputati potrebbero minacciare di opporsi alla definizione di altri aspetti ancora in sospeso del regolamento, per i quali è previsto che l’Assemblea di Strasburgo dia il suo via libera. “Io penso che sul primo punto controverso”, quello sulla verifica obbligatoria dei rischi sistemici per i diritti fondamentali e la democrazia, “il testo definitivo del Codice di buone pratiche verrà migliorato”, perché c’è una forte pressione unitaria in questo senso da parte dei gruppi europarlamentari, ha notato il relatore dell’Ai Act, che appare meno fiducioso invece sul fatto che sugli altri due punti possano esserci miglioramenti sostanziali. “Noi temiamo che possa esserci un cedimento alla linea politica degli Stati Uniti. In generale, per ora l’Ue sta tenendo sulla difesa del proprio apparato di leggi riguardo al sistema digitale dagli attacchi americani. Ma c’è il dubbio che la Commissione europea sia sensibile alle pressioni degli Stati Uniti per una semplificazione della regolamentazione in questo settore”, ha concluso Benifei. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Meloni mantiene il punto sui rapporti con Trump, ma ora affiorano primi dubbi

Meloni mantiene il punto sui rapporti con Trump, ma ora affiorano primi dubbiRoma, 29 mar. (askanews) – A Washington, a Washington! Ma a far cosa? E’ questo il dubbio che inizia a serpeggiare, anche nel governo, di fronte al tentativo di Palazzo Chigi, per ora non riuscito, di organizzare un faccia a faccia tra Giorgia Meloni e Donald Trump alla Casa Bianca. Se la strategia di mantenere un’equidistanza tra l’appartenenza all’Europa e la vicinanza politica al tycoon era ritenuta giusta e condivisa da tutta la maggioranza, la scarsa (eufemismo) volontà di dialogo con i “parassiti” europei manifestata dal presidente americano sta iniziando a creare qualche dubbio sull’opportunità di andare in visita della capitale Usa, almeno se non si è certi di portare a casa qualcosa che non sia una mera photo opportunity.


Dubbi che non sembra avere la premier, che in un’intervista pubblicata sul Financial Times il 28 marzo ha definito “infantile” e “superficiale” l’idea che l’Italia debba prima o poi scegliere da che parte stare, se con gli Stati Uniti o con l’Europa. Per lei “l’Italia può avere buoni rapporti” con gli Stati Uniti e “costruire ponti” con Trump, a cui si sente “più vicina” che “a molti altri”. Anche al vertice dei “volenterosi” di Parigi, ribadendo il “no” italiano (come di altri Paesi) all’invio di truppe in Ucraina per monitorare un’eventuale tregua, la presidente del Consiglio ha ribadito che è importante “continuare a lavorare con gli Stati Uniti per fermare il conflitto e raggiungere una pace che assicuri la sovranità e la sicurezza dell’Ucraina” e per la prima volta ha chiesto e fatto mettere a verbale la richiesta di un “coinvolgimento di una delegazione americana al prossimo incontro di coordinamento”. Un’insistenza che ha infastidito Emmanuel Macron, che con Trump ha una linea diretta – si sono sentiti anche mercoledì sera prima del summit – che però al momento non sembra portare a un apprezzabile miglioramento delle relazioni tra Vecchio e Nuovo continente. Se Meloni non cambia linea, si diceva, tra i suoi qualche perplessità inizia ad affiorare. Non perché considerino sbagliata la strategia ma perché il destinatario degli inviti al dialogo non sembra rispondere. E dunque qualche ripensamento comincia a serpeggiare sia nella base politica e sociale di Fratelli d’Italia (vedi le posizioni molto critiche sui dazi di un tradizionale grande collettore di voti come Coldiretti, che invita il governo a seguire la linea dura dell’Ue, senza trattative ‘bilaterali’) sia nell’esecutivo. “Il tentativo di mantenere un’equidistanza tra Bruxelles e Washington e di rivestire un ruolo di intermediario, di facilitatore del dialogo era giusto e sembrava anche possibile – ragiona un membro del governo – ma al momento non sembra che Trump e la sua amministrazione siano intenzionati a raccogliere l’invito. Anzi ci sono dei segnali, l’attivismo di Salvini che telefona a Vance e sostiene Starlink, che in qualche modo sono una novità rispetto al quadro che ci eravamo fatti di un ‘rapporto privilegiato’ tra Meloni, Trump e Musk. Io a questo punto suggerirei prudenza. Ovvero: va bene andare a Washington ma adesso, con la guerra commerciale di fatto iniziata, un rapporto diciamo ambiguo con Putin, le frasi offensive contro gli europei, una visita va preparata con grande cura e finalizzata solo quando si ha la certezza di portare a casa qualche risultato concreto. Altrimenti rischia di essere un boomerang. Ma questo, ne sono certo, a Palazzo Chigi lo sanno benissimo”.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Migranti, il governo ci riprova con i centri in Albania. Ma rischia altri stop

Migranti, il governo ci riprova con i centri in Albania. Ma rischia altri stopRoma, 29 mar. (askanews) – Sui centri per migranti in Albania il governo ci riprova. Sarà la volta buona? Forse no, o almeno non subito. Nella seduta del 28 marzo il Consiglio dei ministri ha approvato un nuovo decreto con cui tenta di far entrare in funzione i due centri collegati di Gjader e Shengjin, fino a questo momento bloccati da alcune sentenze giudiziarie.


In pratica, con questo provvedimento, si amplia il “perimetro d’azione” del centro di Gjader che diventa un Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr). La struttura, ha spiegato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, “non perde le sue funzioni” e perciò “non viene snaturato”. Il provvedimento, ha assicurato, non cambia il contenuto dell’intesa Italia-Albania, ma si limita a intervenire “sulla legge di ratifica del protocollo, rendendo possibile utilizzare la struttura già esistente a Gjader anche per persone trasferite dall’Italia e non solo per quelle trasferite all’esito di procedura di soccorso in mare”. In Albania saranno dunque trasferiti migranti irregolari “destinatari di un provvedimento di espulsione e trattenuti nei Cpr” italiani e quindi “il centro in Albania si aggiungerà alla rete nazionale dei Cpr” con un intervento che “non costerà un euro in più rispetto alle risorse già stanziate” dato che “la struttura è già stata realizzata”. L’obiettivo è “l’immediata riattivazione” di Gjader, senza attendere la sentenza della Corte europea di giustizia su un ricorso che è stato presentato contro l’Accordo. Il nuovo decreto mette il governo al riparo da contestazioni o altre sentenze contrarie alla ‘delocalizzazione’ in Albania? C’è una base giuridica nel diritto Ue per questo? L’11 marzo scorso la Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento in cui si parla dei cosiddetti “return hubs” (centri di rimpatrio). “Stiamo aprendo la possibilità per gli Stati membri di stabilire hub di rimpatrio in paesi terzi sicuri”, ha annunciato la presidente Ursula von der Leyen. Nelle conclusioni del Consiglio europeo del 20 marzo, nel capitolo migranti, a proposito del tema specifico, i leader si limitano a sollecitare gli “sforzi per facilitare, incrementare e accelerare” i rimpatri. La proposta di regolamento deve essere ora approvata nel negoziato co-legislativo con il Parlamento europeo e il Consiglio Ue, per diventare legge. Dunque perché sia pronta la base giuridica comunitaria necessaria ad aprire i ‘return hubs’ in Paesi terzi la strada è ancora lunga. Il rischio è che, come si suol dire, il governo italiano abbia messo il carro davanti ai buoi, utilizzando un quadro normativo che probabilmente ci sarà in futuro, ma che non esiste ancora, e potrebbe essere modificato rispetto alla proposta iniziale.


E in ogni caso, se si resta alla proposta di regolamento originaria, la trasformazione dei centri per migranti in Albania in Cpr non la rispetterebbe per almeno tre ragioni: 1) i ‘return hub’ in paesi terzi sicuri sarebbero destinati solo ai migranti in attesa di rimpatrio dopo aver ricevuto un rifiuto definitivo, in appello, alla loro richiesta di asilo, e quindi sicuramente non potrebbero accogliere i migranti salvati in mare in acque internazionali, che non hanno neanche avuto il tempo di richiedere l’asilo; 2) il Protocollo Italia-Albania, nella sua versione attuale, non sarebbe accettabile, perché dovrebbe essere modificato per rispondere ai requisiti che il regolamento prevede per gli accordi bilaterali con paesi terzi disposti a installare sul proprio territorio i ‘return hub’, e sottoposto alla Commissione prima di essere convalidato; 3) tra questi requisiti (che prevedono tra l’altro il rispetto del diritto internazionale, della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e del principio di non respingimento), c’è anche la designazione di un organismo indipendente di monitoraggio dell’attuazione dell’accordo bilaterale, che non è previsto dal Protocollo Italia-Albania. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli