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Ue, Von der Leyen taglia i portavoce, aumenta controllo sulla comunicazione

Ue, Von der Leyen taglia i portavoce, aumenta controllo sulla comunicazioneRoma, 6 dic. (askanews) – Il primo atto concreto della nuova Commissione europea è stato, il giorno dopo la sua entrata in funzione il primo dicembre, la presentazione alla stampa del nuovo servizio dei portavoce, guidato dalla portoghese Paula Pinho. La grande novità sta nel numero ridotto dei portavoce veri e propri, quelli che parlano dal podio in sala stampa durante i briefing dell’esecutivo comunitario. Saranno 14 in tutto, ma in realtà solo 11 con specializzazioni tematiche precise, perché due di essi sono i vice della numero uno Paula Pinho, con compiti di coordinamento generale.


Von der Leyen ha portato alle estreme conseguenze una trasformazione “presidenzialista” che era già cominciata nel 2014, con la commissione di Jean-Claude Juncker, per iniziativa del suo capo di gabinetto, il tedesco Martin Selmayr. Fino ad allora, c’era un portavoce per ogni commissario europeo, più alcuni “coordinatori”. Selmayr spezzò il legame che univa ciascun portavoce al “proprio” commissario e al suo gabinetto (e alle direzioni generali di sua competenza), e rese il servizio dipendente direttamente e pressoché unicamente dalla presidenza della Commissione. Negli ultimi dieci anni, comunque, era rimasto in voga il sistema che assegnava la competenza per un portafoglio (raramente due, ma collegati tra loro) a ogni portavoce. In questo modo, ognuno di loro era, o diventava presto, specializzato nei temi da trattare con la stampa. Con la nuova Commissione, invece, 11 persone si dividono le competenze per i portafogli di 26 commissari, secondo una logica dei “cluster” che riproduce in gran parte le nuove divisioni del lavoro stabilite dall’onnipotente capo di gabinetto di von der Leyen, Bjoern Seibert, tedesco anche lui.


Ad esempio, il portavoce Maciej Berestecki, che si occuperà delle competenze di Raffaele Fitto (Coesione e Riforme), sarà responsabile anche per la comunicazione riguardo ai portafogli dei tre commissari che il vicepresidente esecutivo italiano avrà il compito di coordinare: Pesca, Agricoltura e Trasporti. Un altro portavoce, Olof Gill si occuperà di Sicurezza economica, Commercio, Dogane, Servizi finanziari, Relazioni interistituzionali. Anna-Kaisa Itkonen risponderà sulle Politiche climatiche, Energia, Politica degli alloggi, Ambiente e Tassazione. Markus Lammert sarà competente per Affari interni, Democrazia, Giustizia, Stato di diritto. E Lea Zuber per la Concorrenza, il Mercato interno e la Strategia industriale.


Sono solo alcuni esempi, che rendono bene l’idea della grande complessità dei compiti per ciascuno di questi portavoce. I quali non potranno più partecipare (come succedeva in passato) alle riunioni dei gabinetti di tutti i commissari responsabili delle competenze loro assegnate. E meno conosceranno in profondità i temi sui quali dovranno rispondere alla stampa (di cui a volte non si sono mai occupati finora), più si atterranno alla “line to take”, fissata nelle dichiarazioni scritte fornite loro dai servizi, e spesso direttamente dal gabinetto di von der Leyen.

Ue, se la Finlandia sembra il paradiso della stampa

Ue, se la Finlandia sembra il paradiso della stampaRoma, 6 dic. (askanews) – Una boccata d’aria fresca arriva dalla Finlandia per i “chigisti” – i giornalisti italiani che seguono Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio – abituati a lottare contro agende che (quando ci sono) cambiano continuamente e informazioni con il contagocce, che costringono non di rado a mettere in piedi trasferte all’ultimo momento, e spesso a cambiarle e smontarle. Con grande affanno e dispetto per uffici viaggi e amministrazioni, di fronte a biglietti aerei, prenotazioni alberghiere e denaro buttati.


Si diceva della Finlandia. Giorgia Meloni sarà a Saariselka in Lapponia il 21 e 22 dicembre per il primo vertice europeo Nord-Sud, presenti oltre al padrone di casa Petteri Orpo, i colleghi di Svezia Ulf Kristersson e Grecia Kyriakos Mitsotakis, l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza Kaja Kallas. Nel pomeriggio di lunedì 2 dicembre da Palazzo Chigi arriva un “off” in cui si annuncia la partecipazione della premier e si danno, oltre a un breve contesto, informazioni su luogo del summit, aeroporto più vicino, temperature medie e la dicitura che “non sono ancora disponibili info riguardo accrediti ed eventuale presenza di un media center”. Il buon chigista si dà quindi da fare per trovare i voli (qualcuno partirà da Bruxelles, altri da Roma) e un hotel in una località piccola, con poche strutture e peraltro in altissima stagione, ché questo è il paese di Babbo Natale. In quattro e quattr’otto la logistica è sistemata, a caro prezzo visto che così all’ultimo momento tanto il costo degli aerei quanto quello degli hotel è alle stelle. Manca da definire la questione, non secondaria, di un accredito da fare. Di cui non si hanno notizie nel palazzo di piazza Colonna. Ma i “chigisti” sono abituati al fai-da-te e allora il 3 vanno sul sito del governo finlandese, trovano una generica mail stampa “info@…” e chiedono informazioni. Tempo poche ore e arriva la risposta da ben due addetti alla comunicazione. Questo il testo:


“Dear XXX, have learned that you have only lately got information about the Saariselka Summit. It will be busy, but I´m sure we can make this work together

Ue, chi è il nuovo ministro per gli Affari europei Tommaso Foti

Ue, chi è il nuovo ministro per gli Affari europei Tommaso FotiRoma, 6 dic. (askanews) – “A destra da sempre”, sempre ligio alla disciplina di partito, fedelissimo di Giorgia Meloni. Così viene descritto Tommaso Foti, il successore di Raffaele Fitto come ministro per gli Affari europei, il Pnrr e la Coesione. Quasi un “premio alla carriera” per questo orgoglioso piacentino, interista sfegatato, che nella sua lunga carriera politica ha più volte sfiorato incarichi di primo piano, salvo poi restarne escluso. In realtà l’idea di Meloni sarebbe stata quella di tenersi l’interim dei rapporti con Bruxelles, una scelta che però le è stata “sconsigliata” dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella (e dagli “appetiti” degli alleati Lega e Forza Italia). Dunque la premier ha messo in atto la tecnica già usata per la successione di Gennaro Sangiuliano: dimissioni di Fitto e nomina immediata di Foti, senza dare spazio a eventuali discussioni interne alla maggioranza.


Nato il 28 aprile 1960, diploma di liceo scientifico, con una buona “familiarità” con l’inglese, Foti (“Masino”, per gli amici) è un parlamentare di lunghissimo corso, con sei legislature alle spalle. Il suo impegno politico, nella regione “rossa” per eccellenza, l’Emilia Romagna, inizia nel “Fronte della gioventù”, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano. Il suo primo ispiratore fu Carlo Tassi, deputato missino e avvocato molto apprezzato, ricordato anche per indossare sempre la camicia nera, per una “promessa” – raccontava lui stesso – fatta da bambino a Benito Mussolini. Per il Msi viene eletto nel settembre del 1980 consigliere comunale di Piacenza, ruolo che ricopre fino al 1994. Proprio nel 1994 partecipa alla fondazione di Alleanza nazionale, il partito creato da Gianfranco Fini. Nel 1996 viene eletto in Parlamento e nella primavera del 2009 partecipa alla fondazione del partito unitario del centro-destra Il Popolo della Libertà. Da questo però si stacca nel 2012, quando è tra i fondatori di Fdi, insieme a Meloni, Guido Crosetto, Ignazio La Russa, Fabio Rampelli. Con i Fratelli d’Italia si candida nel 2013, ma non viene eletto (del resto era ancora un ‘partitino’). Eletto invece nel 2018, quando assume l’incarico di vice capogruppo vicario alla Camera, nell’attuale legislatura è stato eletto capogruppo. Fino alla “promozione” a ministro. Descritto come “spigoloso” ma capace di mediazioni al momento opportuno, Foti ha sicuramente l’esperienza per gestire alleati e tecnici con cui avrà a che fare per la gestione del Pnrr e dei fondi di coesione. Quel che manca pare essere invece un profilo di stampo europeo e internazionale e la consuetudine con i meccanismi di Bruxelles. A proposito di Europa, recentemente ha espresso la sua contrarietà al green deal “che rischia di ridurre a ben poco l’industria europea. La rivoluzione verde porterà povertà è disoccupazione. Il buon senso prima delle ideologie suggerisce di fermarsi in tempo”. Così come a una impostazione economica fatta solo di “virgole o logaritmi”. Per questo, prima delle elezioni europee, aveva auspicato “un’alleanza di centrodestra anche in Europa”. Anche quando ci fu da votare in Parlamento la ratifica del Mes (bocciata) aveva espresso la “ferma contrarietà” del partito, anche perchè “se ci viene posto come un prendere o lasciare, più che un trattato o un accordo a me appare come un diktat”.


Pur tenendo uno stile sempre istituzionalmente corretto, ogni tanto gli è scappato qualche ‘scivolone’ come quando il 25 aprile 2020 – nel giorno della festa della liberazione – pubblicò una sua foto in cui indossava una mascherina nera con il motto mussoliniano “Boia chi molla”. Un post che accese le polemiche e portò alcune opposizioni a chiederne le dimissioni. Lui lo rimosse, spiegando di essere stato equivocato e di voler semplicemente intendere che anche quel giorno era regolarmente al lavoro. di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Nuova Commissione Ue, Von der Leyen vince ma non convince

Nuova Commissione Ue, Von der Leyen vince ma non convinceRoma, 29 nov. (askanews) – Altro che obiettivi ambiziosi, cambio di paradigma, coraggiose assunzioni di responsabilità, chiamata alle armi, come era stato cinque anni fa con il ‘Green Deal’: il discorso con cui Ursula von der Leyen doveva convincere la maggioranza del Parlamento europeo a votare la fiducia alla sua nuova Commissione, il 27 novembre a Strasburgo, è stato poco ispirato e poco convincente, per nulla straordinario, stanco, senza visione, senza un progetto faro che mostri la rotta.


Una nuova versione del Patto verde proposta da von der Leyen, il ‘Clean Industry Act’, di cui non si conoscono ancora i contenuti, sarà probabilmente solo un tentativo di semplificare e forse anche deregolamentare l’attuazione delle norme già approvate per la transizione verde, e con pochi fondi, visto che la presidente della Commissione non vuol neanche sentir parlare di nuove emissioni di debito comune. L’impegno di ‘mantenere la rotta’ sul Green Deal verrà presto smentito dalle iniziative per annacquare e ritardare l’attuazione del regolamento sulla riduzione delle emissioni di CO2 dei veicoli (con l’obiettivo del loro azzeramente nel 2035), e da un probabile stravolgimento della normativa Cbam (‘Carbon Border Adjustment Mechanism’), che prevede l’introduzione graduale, dal 2026 al 2034, di ‘dazi climatici’ all’importazione nell’Ue di energia e altri prodotti delle industrie energivore come cemento, acciaio, chimica e fertilizzanti, da paesi che non hanno sistemi equivalenti all’Ets, la ‘borsa’ europea dei permessi di emissione.


Un grande progetto per i prossimi cinque anni di mandato, in realtà, von der Leyen lo avrebbe già sul tavolo, se davvero intendesse dare seguito integralmente, con misure concrete, ambiziose e conseguenti ai rapporti Draghi e Letta sul futuro della competitività europea e sull’ulteriore sviluppo del mercato unico, senza utilizzarlo come un menu ‘à la carte’, da cui prendere solo alcune cose a scelta, ignorando o scartando le altre. Ma si può già prevedere che mancherà la volontà politica, da parte della Commissione e degli Stati membri, di concretizzare finalmente una vera e propria politica industriale dell’Ue, e mancheranno i finanziamenti, sia pubblici che privati, per finanziare gli ingenti investimenti necessari alla transizione verde restando competitivi, secondo le raccomandazioni di Mario Draghi. Alla fine, si può prevedere, sarà ripresa soprattutto la raccomandazione (giusta) di semplificare gli oneri burocratici per le imprese, interpretata però (in modo sbagliato) come un appello alla deregolamentazione.


Intanto, si prepara lo scontro tra le due componenti della ‘maggioranza Ursula allargata’ che ha votato eccezionalmente la fiducia, quella di centro sinistra (S&D e Renew e Verdi) e quella di centro destra (Ppe ed Ecr), un vero e proprio unicorno che difficilmente si riproporrà nei voti sulla legislazione europea. Rivedremo la ‘maggioranza Venezuela’, ovvero da un’alleanza Ppe-Ecr appoggiata dall’esterno con i voti dei gruppi di estrema destra dei Sovranisti (Esn) e dei ‘Patrioti’ (Pfe) innanzitutto ogni volta che si presenterà un’occasione di fare marcia indietro sul Green Deal, ma presto anche e soprattutto sui temi dell’immigrazione e asilo. La nuove proposte legislative della Commissione per una nuova direttiva sui rimpatri e per una nuova lista comune dei ‘paesi terzi sicuri’, essenziali per l’esternalizzazione della gestione della politica migratoria comunitaria, saranno presentate entro giugno. La Commissione, secondo quanto ha fatto capire von der Leyen, proporrà la possibilità di deportare nei paesi terzi sicuri non solo i migranti irregolari senza il diritto alla protezione internazionale e in attesa di rimpatrio (‘return hub’), ma anche quelli che invece avrebbero diritto all’asilo nell’Ue. Sarà una nuova versione del ‘modello Ruanda’, adattata per tener conto del precedente ‘modello Turchia’. E sarà una sconfitta storica per il centro sinistra e per la fantomatica ‘maggioranza europeista’ con il Ppe, in cui ancora vogliono credere i Liberali, i Socialisti e i Verdi che hanno appoggiato la fiducia a von der Leyen.


I numeri del voto di fiducia alla nuova Commissione Il voto di Strasburgo per la nuova Commissione europea alla fine è andato benone: la fiducia è passata con un’ampia maggioranza: 370 voti a favore, 282 contrari e 36 astensioni pari al 51,46% (su 719 seggi totali, ma il 53,77% rispetto ai 688 eurodeputati presenti in aula). Chiariamo subito che, al contrario di quanto alcuni hanno osservato nella stampa italiana, non si tratta di una maggioranza di ‘soli nove voti’, che si riferirebbe alla soglia della maggioranza assoluta di 361 voti. A parte che quella soglia oggi è in realtà di 360 voti, perché un seggio (spagnolo) dei 720 totali non è ancora stato assegnato, bisogna precisare che per la fiducia alla Commissione è prevista l’approvazione della plenaria con la maggioranza relativa dei votanti, e dunque senza alcuna soglia: basta che vi sia anche solo un voto favorevole in più rispetto ai voti contrari. Von der Leyen, dunque, ha vinto non con nove voti di scarto rispetto a una soglia inesistente, ma con 88 voti di vantaggio rispetto ai ‘no’. Resta il fatto politicamente significativo, sebbene tecnicamente senza conseguenze, che numericamente è stato il peggiore risultato per una nuova Commissione fin da quando esiste il voto di fiducia del Parlamento europeo, istituito dal Trattato di Maastricht e applicato la prima volta nel 1995, con la Commissione di Jacques Santer, che ebbe 417 voti favorevoli su 626 seggi totali, il 66,61%. Romano Prodi nel 1999 ebbe l’81,46% (510 voti su 626 seggi), José Manuel Barroso il 65,30% nel 2004 (478 su 732), ancora Barroso nel 2010 ebbe il 66,30% (488 su 736), Jean-Claude Juncker nel 2014 il 56,32% (423 su 751), e la stessa von der Leyen nel 2019 arrivò al 61,63% (461 su 748). Ed è stata anche la prima volta che il numero di ‘sì’ alla fiducia per il nuovo collegio dei commissari è stato inferiore a quello con cui era stata ‘eletta’ la sua presidenza: la Commissione von der Leyen II ha ricevuto 31 voti in meno rispetto ai 401 che la presidente von der Leyen aveva ricevuto dalla plenaria di Strasburgo a luglio, per il suo secondo mandato. Inoltre, ci sono state molte defezioni (il voto era nominale, non segreto) nel voto di fiducia dei tre gruppi centrali della vecchia ‘maggioranza Ursula’, soprattutto nel Ppe (25 contrari, quasi tutti spagnoli, e due astenuti) e nei Socialisti e Democratici (25 contrari, soprattutto francesi e 18 astenuti, soprattutto tedeschi), meno in Renew (sei astenuti); mentre i due gruppi ‘laterali’ opposti, Verdi e Conservatori dell’Ecr, come ci si attendeva, hanno appoggiato la fiducia con circa la metà dei loro eurodeputati: i Verdi con 27 favorevoli, 19 contrari e sei astenuti, e l’Ecr con 33 favorevoli (tra cui i 24 italiani di Fdi), 39 contrari (soprattutti i polacchi del Pis), e quattro astenuti. di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Con crisi Francia-Germania Meloni punta a centralità in Ue, ma anche Sanchez

Con crisi Francia-Germania Meloni punta a centralità in Ue, ma anche SanchezRoma, 29 nov. (askanews) – Una serie di fortunati eventi, per parafrasare il titolo di un film per ragazzi, potrebbe dare a Giorgia Meloni l’opportunità di avere un ruolo di rilievo nella legislatura europea che si sta aprendo. Lo stato di pre-crisi del governo francese di Michel Barnier (peraltro atteso giovedì a Palazzo Chigi) unito alla debolezza di Emmanuel Macron da un lato, e la Germania che si avvia a nuove elezioni dall’altro, è il ragionamento della premier, le daranno l’occasione per incunearsi nei processi decisionali europei, contando anche sul ruolo assegnato a Raffaele Fitto, vicepresidente esecutivo della nuova Commissione europea.


Con Ursula von der Leyen il rapporto è buono. Dopo il primo “no” al bis della tedesca, Meloni le ha assicurato il voto favorevole degli europarlamentari di Fdi – a differenza del Pis polacco, l’altra grande componente di Ecr – alla fiducia per l’intera nuova Commissione, e continuerà a svolgere un ruolo cruciale di dialogo e di eventuale appoggio nell’ottica della nuova “maggioranza Venezuela”. In particolare sulla partita che più interessa a Meloni, quella dei migranti, ma anche su altri temi, come quello delle norme ambientali e climatiche, la leader italiana punterà a condizionare e supportare lo spostamento a destra dell’esecutivo di Bruxelles. Le due si sono viste l’ultima volta al G20 di Rio e c’è un canale di comunicazione diretto. Tanto che – secondo quanto si apprende da fonti sia italiane che europee – la presidente della Commissione sarebbe stata invitata alla festa di Atreju, la kermesse dei Fratelli d’Italia, in programma al Circo Massimo a Roma dall’8 al 15 dicembre. Il programma è top secret, ma Vdl potrebbe essere uno degli ospiti d’onore, come l’anno scorso fu Elon Musk. Proprio il rapporto con il fondatore di Tesla, uno dei principali consiglieri e futuri membri dell’amministrazione Trump, è considerato una carta da giocare, tanto che sarebbero già in corso i contatti per un primo incontro tra il tycoon e la presidente della Commissione, con la leader italiana nelle vesti di “facilitatrice”.


Dall’altro lato, anche il premier spagnolo Pedro Sanchez proverà a esercitare un’influenza sulla presidente della Commissione, ritenuta da molti un’ottima esecutrice delle strategie e decisioni prese dal suo potentissimo capo di gabinetto, Bjorn Seibert, più che una leader con una propria visione strategica. Sanchez ha mandato a Bruxelles l’altra vice presidente esecutiva della Commissione, Teresa Ribera, che è stata messa sulla graticola dal Ppe (su richiesta dei popolari spagnoli) prima del via libera. Ma ora che è stata confermata, Ribera è il vero numero due dell’Esecutivo comunitario, ed è il più importante vero contrappeso, con la sua appartenenza socialista e le sue convinzioni ambientaliste, allo sbandamento a destra di von der Leyen e del Ppe. Il premier spagnolo teme uno slittamento dell’esecutivo sempre più lontano dalle istanze progressiste e ormai da tempo ha inaugurato una netta presa di distanze da Meloni, e in particolare dal suo ‘modello Albania’ per la gestione dell’immigrazione irregolare. Meloni ha anche instaurato un rapporto stretto (coltivato con frequenti contatti) con Kaja Kallas, neo Alto responsabile per la politica estera Ue, con cui sarà in Lapponia il 20 e 21 dicembre prossimi, per il primo incontro Nord-Sud a quattro tra Finlandia, Svezia, Italia e Grecia. A unire Kallas e Meloni c’è sicuramente una linea di pieno sostegno all’Ucraina.


di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

In Europa dopo Fitto Meloni “balla da sola” (per ora)

In Europa dopo Fitto Meloni “balla da sola” (per ora)Roma, 29 nov. (askanews) – Giorgia Meloni non nominerà (per il momento) un ministro per gli Affari europei, mantenendo per sé l’interim della delega di Raffaele Fitto che, come si sa, lascia il governo per assumere il ruolo di commissario e vicepresidente esecutivo dell’Ue. La premier, dunque, sarà in prima persona responsabile dei rapporti con Bruxelles, dove comunque considera Fitto il punto di riferimento del governo italiano. Il doppio ruolo di Meloni, però, non dovrebbe durare a lungo, complice anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che in un pranzo che si è tenuto il 28 novembre al Quirinale avrebbe fatto presente l’importanza di avere un titolare, sia esso un ministro o un sottosegretario delegato. Meloni ha preso nota, rimandando tutto a dopo l’approvazione della manovra, che già sta creando sufficienti fibrillazioni alla maggioranza di centrodestra.


A Fitto è stata organizzata un’ultima “passerella” con le firme degli accordi di coesione con la Sardegna e con la ‘sua’ Puglia, che deve essere “orgogliosa” – come l’Italia intera – per un ruolo che “pone la nostra nazione in una condizione di centralità nella prossima Commissione europea”, ha detto una commossa Meloni. Poi il passaggio in Consiglio dei ministri, al Cipess e nella Cabina di regia per il Pnrr, in cui la premier ha ringraziato “un ministro estremamente prezioso” la cui “competenza rimarrà in ottime mani”, prima dell’applauso e della foto di rito. Vediamo quindi quali saranno le “ottime mani”. Meloni come prima cosa assumerà l’interim. Poi procederà a ‘spacchettare’ il corposo portafoglio, affidando la gestione del Pnrr e della Coesione ai suoi sottosegretari Giovanbattista Fazzolari e Alfredo Mantovano. Resta la questione degli Affari europei, e qui inizia la partita più squisitamente politica. Con due punti fermi. Il primo è la volontà di Meloni di toccare il meno possibile la squadra, “allergica” – come viene definita – alla parola rimpasto. Il secondo è che “se esce un ministro di Fdi entra un ministro di Fdi”. In questo caso il candidato ‘naturale’ sarebbe Edmondo Cirielli, attuale vice ministro agli Esteri. “Però – riflette una fonte di governo – è difficile sostituirlo: ha esperienza e non ci sono altri esponenti di Fdi adeguati per quel ruolo”. Nome alternativo è quello di Giulio Terzi di Sant’Agata, ambasciatore, già ministro degli Esteri nel governo Monti, attualmente senatore di Fdi. Altrimenti c’è l’ipotesi, che si riaffaccia un po’ ogni volta che si tratta di individuare un profilo rilevante, di Elisabetta Belloni, direttrice del Dis, sherpa del G7, abile ed esperta mediatrice.


Dunque la porta sembra “sbarrata” per gli alleati, in primo luogo per Forza Italia, a cui piacerebbe molto la responsabilità dei rapporti con Bruxelles. Antonio Tajani pubblicamente assicura che non ne fa “una questione di poltrone” e che “alla fine deciderà la presidente del Consiglio”. Ma sicuramente – spiega chi ci ha parlato – intende “far pesare” l’aiuto che, per suo tramite, il Ppe ha dato per superare le diffidenze sul ministro pugliese. Così come intende far pesare i “sacrifici” fatti dagli azzurri, premiati dalle urne, ma non ‘ricompensati’ nella compagine dell’esecutivo, dove ormai si ritengono sottorappresentati rispetto alla Lega. Per Fi ci sarebbero già anche alcuni potenziali candidati. “Ma dubito che Meloni voglia privarsi di un ministro ‘suo’ per accontentare Forza Italia. Anche se – spiega una fonte azzurra – sarebbe un ruolo più che altro di rappresentanza, perchè il punto di riferimento in Europa resterà Fitto”. Un fatto, quest’ultimo, che Meloni non nasconde, quando dice che il nuovo vice presidente esecutivo “ci consente di avere un occhio di riguardo rispetto a molte materie che sono di interesse della nostra nazione”. Anche se i Trattati dicono altro, come ha ricordato Fitto, assicurando che opererà “a difesa dell’interesse comune europeo”.


di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Ue, a proposito di “maggioranza Venezuela”

Ue, a proposito di “maggioranza Venezuela”Roma, 29 nov. (askanews) – Facendo riferimento a un proprio articolo del 28 ottobre, la testata “Politico” ha rivendicato venerdì 29 novembre, in una sua newsletter da Bruxelles, di aver coniato la definizione “maggioranza Venezuela”. “I risultati delle elezioni europee di giugno hanno permesso al Partito popolare europeo di centro-destra di poter contare su una maggioranza di destra, che noi abbiamo battezzato come maggioranza Venezuela”, afferma Politico.


In realtà, il termine veniva già usato con quel significato dai corrispondenti italiani a Bruxelles almeno dal 24 ottobre, su una chat Whatsapp, e un’altra testata europea di Bruxelles, “Euractiv” aveva attribuito la paternità della definizione a un collega dell’Ansa, per un tweet su X dello stesso 24 ottobre. Lo stesso Politico, d’altra parte, il 25 ottobre aveva scritto: “I giornalisti politici hanno ora un termine per descrivere il nuovo blocco di voto della destra nel Parlamento europeo. La Maggioranza Venezuela, che abbraccia il Partito popolare europeo (Ppe), i Conservatori e Riformisti europei (Ecr), i Patrioti per l’Europa e l’Europa delle Nazioni Sovrane (Esn), prende il nome dalla coalizione che ha chiesto all’Ue di riconoscere Edmundo González Urrutia come presidente del Venezuela e gli ha conferito il Premio Sakharov questa settimana. L’inventore? Pietro Guastamacchia dell’Ansa”, concludeva Politico. di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Nuova Commissione Ue, chi vince e chi perde (e quanti voti avrà Vdl)

Nuova Commissione Ue, chi vince e chi perde (e quanti voti avrà Vdl)Roma, 23 nov. (askanews) – L’accordo fra i tre gruppi politici della ‘maggioranza Ursula’ (Ppe, S&D e Renew) al Parlamento europeo per sbloccare il processo di valutazione delle audizioni di conferma dei membri della nuova Commissione, raggiunto a Bruxelles nella notte tra il 20 e il 21 novembre, consentirà ora finalmente di passare all’ultima tappa prima dell’entrata in funzione del nuovo Esecutivo comunitario: il voto di fiducia della plenaria di Strasburgo il 27 novembre. Proviamo quindi a dare qualche risposta ad alcune domande: come si è usciti dall’impasse? Chi ha vinto e chi ha perso? Come sarà la navigazione con due maggioranze di Ursula von der Leyen?


Come si è usciti dall’impasse Il processo delle audizioni era rimasto a lungo in stallo a causa dei veti incrociati, da parte del Ppe sulla candidata socialista spagnola Teresa Ribera, e da parte di S&D e Renew contro la vicepresidenza esecutiva (ma senza contestarne il portafoglio) assegnata all’italiano Raffaele Fitto, membro del gruppo conservatore Ecr ma sostenuto dai Popolari come fosse uno dei loro. L’accordo è stato possibile grazie al fatto che il Ppe ha accettato, nel pomeriggio del 20 novembre, di firmare una ‘piattaforma di cooperazione’ che sostanzialmente conferma, in nove punti, le ‘linee guida’ programmatiche presentate da Ursula von der Leyen al Parlamento europeo il 18 luglio scorso. La sua rielezione per il secondo mandato alla presidenza della Commissione, con 401 voti della plenaria di Strasburgo, aveva come base quel programma, che viene ora rilanciato.


A questo punto, i veti incrociati avrebbero dovuto cadere, ma il Ppe ha continuato a pretendere da Ribera un impegno ‘chiaro e inequivocabile a dimettersi immediatamente dal Collegio dei commissari nel caso in cui vi sia qualsiasi accusa o procedimento legale (‘legal charge or proceeding’, in inglese, ndr) nei suoi confronti, in relazione ai tragici eventi della Dana’, l’inondazione di Valencia. Il Partido popular spagnolo applica la logica secondo cui la miglior difesa è l’attacco: accusa l’attuale ministra socialista della Transizione verde per sviare l’attenzione dalle responsabilità del governatore della Regione di Valencia, il popolare Carlos Mazón, nella sottovalutazione del pericolo, segnalato tempestivamente dalle agenzie del governo, e nella gestione dell’emergenza, che era di sua competenza. Mentre i Socialisti (sembra anche a seguito di un intervento diretto del premier spagnolo, Pedro Sanchez, sulla capogruppo S&D Iratxe García Pérez) erano già pronti a togliere il veto alla vicepresidenza di Fitto, il Ppe (o per meglio dire il Partido Popular, appoggiato dal capogruppo del Ppe Manfred Weber) si ostinava a pretendere che la lettera con il via libera finale per l’audizione di Teresa Ribera contenesse la condizione dell’impegno a dimettersi se un giudice spagnolo l’avesse anche solo indagata. L’impasse è stata risolta, dopo diverse ore, dal Servizio giuridico del Parlamento europeo, secondo cui il Ppe, pur votando a favore di Ribera, poteva allegare un ‘parere di minoranza’ al suo via libera formale. Il parere di minoranza non è vincolante, e non costituisce, in realtà, una condizione aggiuntiva rispetto agli obblighi previsti dal Codice di condotta (menzionato nella lettera del Ppe) a cui è sottoposto qualunque commissario europeo, incluso l’obbligo di dimettersi se lo chiede il presidente della Commissione europea (art. 17 del Trattato Ue).


Parallelamente, i Socialisti e i Liberali hanno chiesto e ottenuto di aggiungere anche loro un allegato alla lettera con il via libera formale per Fitto. I due gruppi ‘si attendono da lui che sia pienamente indipendente dal suo governo nazionale, come richiedono i Trattati Ue, e che si impegni pienamente ad applicare il meccanismo di condizionalità dello stato di diritto e a lavorare per il rafforzamento dello stato di diritto nell’Unione’. Anche qui, in realtà, non c’è alcuna condizione aggiuntiva che Fitto dovrebbe rispettare: ‘I membri della Commissione non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo’, prevede sempre l’art. 17 del Trattato Ue. Inoltre, l’applicazione da parte della Commissione del principio di ‘condizionalità’ (cioè il blocco dei finanziamenti comunitari, e in particolare dei fondi della politica di Coesione) nel caso in cui un paese membro non rispetti lo stato di diritto è un obbligo imposto dalla legislazione europea in vigore, e il rafforzamento dello stato di diritto dipende dal commissario designato titolare di questa competenza, che è l’irlandese (liberale) Michael McGrath. La ‘piattaforma di cooperazione’ tra Ppe, S&D e Renew non risolve il problema delle due maggioranze


L’accordo programmatico della ‘maggioranza Ursula’ riguarda l’impegno dei tre gruppi politici firmatari per lavorare all’attuazione delle nove priorità indicate, e in particolare ‘le sfide poste dalla situazione geopolitica, dal divario di competitività dell’Europa, dai problemi di sicurezza, dalla migrazione e dalla crisi climatica, nonché dalle disuguaglianze socio-economiche’, e si impegna anche a ‘promuovere le riforme necessarie, comprese le modifiche del trattato verso una Unione sempre più stretta’. Ma non è un ‘contratto di coalizione’ e non menziona in nessun punto un impegno (che il Ppe avrebbe rifiutato) a non tradire la ‘maggioranza Ursula’ e a non collaborare con l’estrema destra, in contrapposizione agli altri gruppi firmatari. Ed è ampiamente previsto che questo accadrà con i tentativi del Ppe, dei Conservatori e dell’estrema destra di fermare o annacquare le nuove misure del Green Deal, o di fare marcia indietro su quelle già in vigore; per non parlare dello scontro che sicuramente si verificherà con i Socialisti e i Liberali sulle nuove proposte relative alla deportazione fuori dall’Ue (in ‘paesi terzi sicuri’) dei migranti irregolari in attesa di rimpatrio e persino di quelli che avrebbero diritto all’asilo nell’Unione. Basta guardare a quello che è successo la settimana scorsa sul regolamento contro la deforestazione importata, quando il Ppe ha spregiudicatamente proposto e fatto approvare, con l’appoggio di tutte le destre, degli emendamenti che avrebbero riaperto un testo legislativo già adottato, approfittando di una proposta della Commissione di ritardarne di un anno l’applicazione. Il Consiglio Ue ha bloccato il tentativo (tra gli applausi delle Ong ambientaliste come Greenpeace e il Wwf), e l’iniziatrice degli emendamenti, la tedesca Christine Schneider (Cdu) ha accusato gli Stati membri di essere ‘irresponsabili’, e di creare con la loro opposizione alla marcia indietro su un testo già approvato, ‘un terreno fertile per prosperare per tutte le forze estremiste in Europa’. Eh sì, lei e il Ppe hanno fatto degli accordi con la destra più estrema, ma sono i governi che si oppongono a questi accordi che favoriscono la destra più estrema… E’ evidente che il Ppe di Manfred Weber vuole mantenere le mani libere, determinare ogni volta, per ogni singolo dossier legislativo, con quale maggioranza adottare gli emendamenti e le posizioni finali del Parlamento europeo, con la politica ‘dei due forni’, come l’aveva definita in altri tempi, in Italia, Giulio Andreotti. E gli altri due gruppi della ‘maggioranza Ursula’ non potranno opporsi, non ne hanno più la forza: anche se votassero tutti insieme, S&D, Renew, i Verdi e la Sinistra non hanno i numeri, sono sotto la soglia della maggioranza assoluta nella nuova legislatura. E il ‘cordone sanitario’, l’esclusione dell’estrema destra dai negoziati politici e legislativi? All’inizio della legislatura è stato applicato alla distribuzione, in proporzione ai seggi di ogni gruppo, degli incarichi istituzionali, le presidenze e vicepresidenze del Parlamento e delle sua commissioni, che ha effettivamente escluso i due gruppi di estrema destra (i sovranisti dell’Esn e i ‘Patrioti’). Ma i Conservatori dell’Ecr (guidati dagli italiani di Fdi) non riconoscono la legittimità di questo meccanismo, e dunque sono il ‘ponte’ ideale per aggirarlo. Il Ppe si accorda con l’Ecr, e l’Ecr può chiedere il sostegno dell’estrema destra. Il Cordone sanitario di fatto non c’è più, perché può essere regolarmente aggirato. Il problema, a questo punto, diventa quello della crisi di fiducia tra forze politiche sedicenti alleate, della stabilità della dinamica legislativa compromessa. Come hanno segnalato nei giorni scorsi diversi eurodeputati di centrosinistra, quale credibilità potranno avere gli accordi e i compromessi raggiunti con il Ppe nei lavori delle commissioni parlamentari, se poi in plenaria ci si può attendere i voltafaccia opportunisti del Ppe che si allea con i Conservatori e, con la loro mediazione, con l’estrema destra? L’abbraccio tra il Ppe e l’Ecr Una questione che resta per ora aperta è la motivazione dietro l’apertura, per usare un eufemismo, del Ppe ai Conservatori. C’è senza dubbio il ruolo dell’Ecr, già citato, come mediatore affidabile verso l’estrema destra. Ma quest’abbraccio, più che apertura, può fare pensare anche a un tentativo di allargare il gruppo dei Popolari, ai Conservatori ‘melonizzati’; quelli che hanno mostrato, cioè, una moderata e non incondizionata conversione pro europea. Questo avvicinamento, comunque riguarda gli italiani di Fdi, e magari anche i cechi e i belgi dell’Ecr; ma certamente non i polacchi del PiS (20 seggi), il partito di estrema destra ‘Legge e Giustizia’ arcinemico dell’attuale premier di Varsavia ed ex presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. Il popolare Tusk ha scalzato il PiS dal potere in Polonia, e non accetterebbe mai un suo ipotetico ingresso nel Ppe. D’altra parte, l’accordo sempre più stretto fra il Ppe e l’Ecr serve sia all’Italia che a von der Leyen per mantenere buoni rapporti di collaborazione tra Bruxelles e i paesi in cui i Conservatori sono al governo. Lo spostamento a destra del Ppe sembra poi avere un effetto strano per alcuni eurodeputati, quasi una perdita di equilibrio, come può accadere in uno sbandamento. Quello già citato di Christine Schneider a proposito della deforestazione non è l’unico caso. Giovedì scorso, il capo della delegazione italiana del Ppe Fulvio Martusciello (Fi) ha dichiarato testualmente: ‘È chiaro che chi non vota la Commissione il 27 novembre è fuori dalla maggioranza, e chi è fuori dalla maggioranza deve dimettersi dagli incarichi ricevuti. E quelli dei Verdi sono davvero tanti’. Stranamente, l’eurodeputato di Fi non aveva sollevato la stessa questione a luglio, quando l’Ecr, che aveva votato contro von der Leyen, ha preso tutti i posti istituzionali che spettavano al gruppo. ‘Si leggono strani aut aut da parte di esponenti del Ppe come l’europarlamentare Martusciello, che adesso impartisce obblighi e divieti a chi non voterà la Commissione von der Leyen. È doveroso allora ricordare al collega che la formazione della maggioranza europea non è collegata ai ruoli a cui lui fa riferimento. Questi ultimi sono invece il frutto di una decisione democratica che si prende all’interno del Parlamento in base alle percentuali di presenza di ogni gruppo. I Verdi, infatti, ricoprivano tali incarichi anche nella scorsa legislatura, quando non erano in maggioranza’, ha ricordato l’europarlamentare italiana dei Verdi Benedetta Scuderi, e ha sottolineato: ‘Sono parole che appaiono come minacce inaccettabili allo svolgimento democratico della funzione parlamentare’. Vincitori e perdenti Da questa vicenda escono vincitori soprattutto il Ppe, con la strategia opportunista e spregiudicata di Weber, e l’Ecr di Giorgia Meloni, per le ragioni che abbiamo esposto sopra; guadagnano politicamente, almeno in parte, anche i partiti di estrema destra, che ora possono aspettarsi di poter finalmente partecipare, anche se solo per alcuni dossier (quando lo decideranno i Popolari) alla dinamica legislativa del Parlamento europeo, da cui finora erano rimasti esclusi. Escono invece perdenti i Verdi: avevano votato per il secondo mandato di von der Leyen, si credevano parte della ‘maggioranza europeista’ che l’aveva rieletta, ma la presidente della Commissione, a quanto si sa, non li ha degnati neanche di una visita, un colloquio, un gesto di attenzione, durante tutto il processo delle audizioni. Il Ppe, evidentemente con il suo assenso, ha operato con determinazione per sostituire all’appoggio esterno dei Verdi quello, più utile per i disegni di Weber, dell’Ecr, o almeno della sua parte più moderata, che comprende in primis gli italiani di Fdi di Giorgia Meloni (24 seggi), e poi i deputati belgi (3 seggi) e i cechi (3 seggi) del gruppo (che a luglio avevano già votato per von der Leyen). I Verdi decideranno lunedì a Strasburgo se votare o no la fiducia alla nuova Commissione, ma a questo punto il ‘no’ appare quasi scontato. In misura minore, anche i Socialisti e Democratici hanno subito una sconfitta politica. E’ vero che hanno ottenuto la cosa per loro più importante, il via libera a Ribera, e poi rivendicano di aver costretto il Ppe a confermare la ‘maggioranza Ursula’ firmando la ‘piattaforma di cooperazione’, anche se con i limiti che abbiamo visto. Ma hanno dovuto rinunciare alle condizioni che avevano posto per il via libera a Fitto (togliergli il ruolo ‘gerarchico’ della vicepresidenza esecutiva, visto come un riconoscimento ‘de facto’ dell’entrata dell’Ecr in maggioranza), e in più ora sono divisi sulla fiducia alla nuova Commissione, con i francesi (13 seggi) che probabilmente voteranno ‘no’, e forse anche i tedeschi (14 seggi), i belgi (4 seggi) e qualche altra delegazione nazionale. I Liberali di Renew non possono certo parlare di una vittoria politica, ma hanno limitato i danni e avuto delle compensazioni maggiori rispetto al gruppo S&D. Su Fitto avevano la stessa posizione dei Socialisti, e come loro avevano insistito per rilanciare la piattaforma programmatica col Ppe. Ma possono rivendicare in più di aver ottenuto il ridimensionamento, su cui avevano molto insistito, del portafoglio dell’ungherese Oliver Varhelyi, unico commissario designato appartenente a un gruppo di estrema destra (quello dei ‘Patrioti’ di Viktor Orban), con le competenze tolte a lui che saranno assegnate (sempre che von der Leyen accetti la richiesta del Parlamento europeo) alla liberale belga Hadja Lahbib, commissaria designata alla Preparazione e gestione delle crisi e alla Parità. Lahbib dovrebbe avere ora la responsabilità per la gestione delle crisi sanitarie, per la lotta alla resistenza antimicrobica e per la salute e i diritti riproduttivi, prelevati dal portafoglio della Sanità e benessere degli animali di Varhelyi. Va ricordato inoltre che nella nuova Commissione i Liberali saranno sovrarappresentati rispetto ai Socialisti e ai risultati elettorali, con due vicepresidenze esecutive: quella dell’estone Kaja Kallas, nuovo Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune, e quella del francese Stéphane Séjourné, che avrà il portafogli intitolato Prosperità e Strategia industriale (ovvero le competenze nel Mercato unico e nella Politica industriale). Esce sconfitto, infine, il Parlamento europeo tutto intero, per il colpo che hanno subito il suo prestigio democratico e la sua credibilità politica a causa della ‘farsa’ di queste audizioni (così l’hanno definita sia l’eurodeputata del M5S Valentina Palmisano, che il capo delegazione leghista Paolo Borchia, annunciando il voto contrario alla fiducia). Le audizioni individuali di conferma dei commissari designati sono una prassi ormai consolidata, ma non prevista dai Trattati Ue, e conquistata politicamente come nuova prerogativa democratica dal Parlamento europeo, a partire dal 1995 (Commissione Santer), sul modello delle audizioni al Congresso degli Stati Uniti per le nomine presidenziali a cariche giudiziarie ed esecutive. Negli anni scorsi erano state viste come un buon metodo democratico per verificare le competenze tecniche dei commissari designati, testare la loro personalità e l’abilità politica, chiedere e ottenere da loro impegni sulle iniziative da prendere e sulle posizioni da tenere durante il loro mandato, e anche come una sorta di parziale compensazione per l’assenza del diritto d’iniziativa legislativa, che non è mai stata attribuita al Parlamento europeo. Ma questa volta le audizioni sono state piegate a logiche estranee alla loro ragion d’essere, sono risultate eccessivamente politicizzate dai gruppi e rese ostaggio di scontri politici nazionali, soprattutto di quello in corso in Spagna. Come finirà al voto di fiducia? Il 27 novembre, a Strasburgo, Ursula von der Leyen rischia di avere tra i 40 e i 50 voti in meno per la fiducia alla sua nuova Commissione, rispetto ai 401 voti che aveva avuto alla sua rielezione per il secondo mandato a luglio. Rivediamo i numeri: dovrebbe guadagnare una trentina di voti in più dall’Ecr (di cui 24 da Fdi, mentre non vanno contati come voti aggiuntivi i tre dei Belgi e altri tre dei cechi, che già l’avevano votata a luglio), ma non dai 20 polacchi del Pis che confermeranno voto contrario di luglio. Dovrebbero mancare poi, rispetto a luglio, i 53 dai Verdi e forse 20-30 dai Socialisti (13 dai francesi, forse 14 dai tedeschi e 4 dai belgi). Non è esclusa qualche defezione anche tra i Liberali di Renew e persino nel Ppe. Ma la dinamica della maggioranza semplice dei presenti, che è sufficiente per la fiducia, è diversa da quella della maggioranza assoluta (degli aventi diritto) che era richiesta per la rielezione di von der Leyen: questa volta, le astensioni non giocano contro, basterà che i voti favorevoli espressi siano di più di quelli contrari, e la nuova Commissione entrerà in funzione, come previsto, già il primo dicembre. di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Ue, dopo nomina Fitto possibile avvicinamento a Ppe di Fdi (ma senza PiS)

Ue, dopo nomina Fitto possibile avvicinamento a Ppe di Fdi (ma senza PiS)Roma, 23 nov. (askanews) – La nomina di Raffaele Fitto come vicepresidente esecutivo della Commissione europea ha sdoganato i Conservatori di Ecr (o almeno una parte) e potrebbe segnare l’avvio di un percorso di avvicinamento di Fratelli d’Italia al Partito popolare europeo. Non sarà certo un ingresso ufficiale, almeno a breve termine, ma se potrà esserci una prospettiva un primo segnale si avrà nella votazione per la “fiducia” al von der Leyen bis.


Partiamo dall’analisi della situazione attuale. Il Ppe, sotto la guida di Manfred Weber, ha compiuto un deciso spostamento a destra della sua linea politica e non sembra che il ruolo del tedesco (che punta alla conferma come presidente nel prossimo aprile) possa essere al momento messo a rischio dagli oppositori interni, in primo luogo il greco Kyriakos Mitsotakys e il polacco Donald Tusk. Dunque i Popolari si sono avvicinati ai Conservatori e sono stati decisivi per il sostegno a Fitto, considerato “uno di noi” in quanto democristiano di nascita e formazione. Cosa che l’italiano ha sempre rivendicato con orgoglio, anche con la stessa Meloni. “Fitto potrebbe essere il gancio con cui attrarre Fdi nell’orbita Ppe, sganciandolo dalla parte più estrema e sovranista di Ecr”, sottolinea un europarlamentare popolare. Il riferimento è in primo luogo al PiS polacco, la seconda forza della famiglia Ecr, tendenzialmente più vicina ai “Patriots” di Viktor Orban, Marine Le Pen e Matteo Salvini. Meloni a breve dovrebbe cedere il timone dei Conservatori a Mateusz Morawiecki, cosa che le permetterà di avere le mani maggiormente libere rispetto alla linea Ecr. Sarà interessante, a questo proposito, vedere come voterà Ecr il prossimo 27 novembre: i Fratelli d’Italia diranno “sì” a von der Leyen – come promesso dalla presidente del Consiglio alla tedesca in cambio del ruolo assegnato a Fitto – e in queste ore stanno cercando di convincere anche i compagni di gruppo a fare altrettanto. Il PiS, però, non sembra intenzionato a seguirli, preferendo schierarsi all’opposizione. Dunque più vicini ai Patriots, che hanno acquistato vigore dopo l’elezione di Donald Trump, puntano a rafforzarsi e ad essere gli interlocutori del tycoon nel Vecchio Continente. “E’ stato un anno di svolta per la politica patriottica. Abbiamo vinto le elezioni europee in Ungheria, il presidente Donald Trump ha vinto le elezioni negli Stati Uniti e ora abbiamo formato il partito Patrioti per l’Europa. Allacciate le cinture, il 2025 sarà un anno fantastico”, ha dichiarato Orban pochi giorni fa. I suoi voteranno contro l”odiata’ Vdl, compresa la Lega, a Bruxelles nettamente distante dalla presidente del Consiglio. Paolo Borchia, capo delegazione leghista, ha definito la Commissione “di qualità e competenze basse” annunciando che “non c’è la disponibilità da parte della Lega a votarla”. Se dunque Fdi voterà “sì” come il Ppe e il PiS “no” come i Patriots potrebbe essere il segnale che c’è filo da tessere per i pontieri. Così come un segnale potrebbe essere il passo in avanti del ministro Luca Ciriani – uno che non parla mai a sproposito – che ha aperto alla possibilità di “spegnere la fiamma dal simbolo Fdi”. Sarà un caso, ma è quello che ha sempre auspicato il Ppe. “Sicuramente Ppe e Fdi potranno lavorare insieme, ma per il momento non ci sono le condizioni per un ingresso nei Popolari, che comunque potrebbe trovare l’opposizione di Forza Italia, il cui interesse, e forse ragione di vita, è essere l’unico interlocutore del partito in Italia”, conclude una fonte europea.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Italia-Argentina, l’abbraccio con Milei che allontana Meloni dall’Ue

Italia-Argentina, l’abbraccio con Milei che allontana Meloni dall’UeBuenos Aires, 23 nov. (askanews) – Dal balcone della Casa Rosada l’Europa sembra lontanissima, più degli 11 mila chilometri che separano Buenos Aires da Bruxelles. Mercoledì 21 novembre, mentre si decideva (positivamente) il destino di Raffaele Fitto, la presidente del Consiglio si affacciava al terrazzo reso celebre da Evita Peron insieme a Javier Milei, salutando a braccia alzate i passanti.


La sosta in Argentina di ritorno da Rio de Janeiro è stata politicamente ben più significativa del G20, summit dal formato che non facilita le decisioni concrete, quest’anno incentrato in particolare sulla lotta alla povertà e alla fame, con l’attenzione particolare data dal presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva al Sud del mondo. Nella due giorni di lavori Meloni ha avuto però modo di parlare con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, perorando la causa di Fitto e assicurandole un’altra volta il voto favorevole di Fdi alla sua squadra. Però, come si diceva, più rilevante è stato l’incontro con il turbo-liberista Milei, l’”inviato” al G20 di Donald Trump, l’economista con la motosega, come raffigurato anche in una statuetta donata alla premier. La visita ha sancito il “feeling” tra i due, prima in una cena privata, poi con l’incontro alla Casa Rosada.


Nelle successive dichiarazioni congiunte (rigorosamente senza possibilità di domande) Milei, primo leader a incontrare Donald Trump dopo l’elezione del tycoon, ha rilanciato la sua idea di una “alleanza”, quella che già è stata definita “internazionale sovranista”. A Mar-a-Lago, residenza di Trump, aveva ipotizzato un asse costituito da Argentina, Usa, Italia e Israele. Con Meloni non ha definito il formato, ma ha auspicato una collaborazione tra coloro che hanno “obiettivi comuni”: non solo Italia e Argentina “ma anche altri Paesi del mondo libero che condividono questi valori”. Un’alleanza di “nazioni libere, unite contro la tirannia e la miseria. Perché l’Occidente si trova nelle tenebre” e ha bisogno di “noi che difendiamo la libertà anche se siamo ancora pochi. Possiamo fare luce e segnalare la strada” in un mondo segnato da una “mancanza di buon senso” e da “organismi internazionali sclerotici”. Riferimento chiaro all’Onu, alle istituzioni finanziarie internazionali, ma anche a quell’Unione europea che Trump mira a ‘scavalcare’ se non scardinare, usando come testa di ponte Viktor Orban e (forse) la leader italiana. La quale, da parte sua, sembra sposare in pieno la piattaforma Trump-Milei, sia nella gestualità (gesti di assenso, applausi, abbracci) sia con le parole. Con Milei, ha spiegato, la accomuna “l’amore per la libertà” e una “unità di vedute molto forte su molti dossier”, come la guerra in Ucraina, il conflitto in Medio Oriente, la crisi in Venezuela. Il leader argentino, ha aggiunto parlando brevemente in spagnolo, è un uomo “valente” e “amico dell’Italia”, con cui c’è una “condivisione politica” tra “due leader che si battono per difendere l’identità dell’Occidente e i punti cardine della sua civiltà: la libertà e l’uguaglianza delle persone, la democraticità dei sistemi, la sovranità delle nazioni”. Dunque c’è “molto più” di “una comune cooperazione tra nazioni: c’è la consapevolezza di vivere in un tempo difficile, la responsabilità che quel tempo difficile impone, cioè la forza delle idee e il coraggio che serve per difendere quelle idee”.


“Argentalia”, è stato il titolo di apertura del quotidiano “La Prensa” il giorno dopo. Sicuramente meno Europalia. di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli