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Per Meloni Commissione Ue ha più poteri del presidente Usa, è davvero così?

Per Meloni Commissione Ue ha più poteri del presidente Usa, è davvero così?Roma, 22 mar. (askanews) – “Io penso, ma è uno studio che adesso devo ancora fare, che se andassimo a fare una verifica ci accorgeremmo che le competenze che ha la Commissione Europea sono maggiori di quelle che ha il Presidente degli Stati Uniti d’America, che ha otto competenze di massima”. Queste le parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni pronunciate il 18 marzo nell’Aula del Senato, nella replica al dibattito sulle sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo. Una premessa fatta per dire di non essere “d’accordo sulla maggiore cessione di sovranità” all’Unione europea, “noi continuiamo a pensare che l’Europa debba occuparsi di meno materie e di quelle delle quali gli stati nazionali non possono occuparsi da soli”.


Ma davvero la Commissione ha più ‘competenze’ del presidente degli Stati Uniti, riconosciuto come una delle persone più potenti al mondo? Per verificarlo abbiamo messo a confronto il Trattato sul funzionamento dell’Ue (TFUE) e la Costituzione americana. Secondo l’Articolo 3 del Trattato l’Unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori: unione doganale; definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro; conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; politica commerciale comune. Ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali “allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata”.


Ci sono poi dei settori in cui l’Unione e gli Stati membri hanno una “competenza concorrente” (articolo 4), nel senso che in principio possono entrambi adottare atti giuridicamente vincolanti, ma se lo fa l’Ue non possono farlo gli Stati a livello nazionale. I settori in questione sono: mercato interno; politica sociale (limitatamente a determinati aspetti definiti nel trattato stesso); coesione economica, sociale e territoriale (politiche regionali); agricoltura e pesca (tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare, di competenza Ue esclusiva); ambiente; protezione dei consumatori; trasporti; reti transeuropee; energia; spazio di libertà, sicurezza e giustizia; problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica”. Infine (articolo 6) l’Unione può solo “svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri” in ulteriori settori che sono di competenza nazionale esclusiva: tutela e miglioramento della salute umana; industria; cultura; turismo; istruzione, formazione professionale, gioventù e sport; protezione civile; cooperazione amministrativa.


Per quanto riguarda i poteri del presidente Usa, la Costituzione è piuttosto scarna e all’aspetto formale va affiancata una lettura “materiale” della Carta. L’articolo 2 riconosce al presidente la carica di “Comandante in capo dell’Esercito e della Marina degli Stati Uniti, e della Milizia dei diversi Stati quando chiamata al servizio attivo degli Stati Uniti” e dispone che sia investito “del potere esecutivo”. Ha il potere di negoziare e stipulare trattati internazionali. Inoltre “con il parere ed il consenso del Senato nominerà gli Ambasciatori, gli altri Rappresentanti pubblici ed i Consoli, i Giudici della Corte Suprema e tutti gli altri funzionari degli Stati Uniti la cui nomina non sia qui altrimenti disciplinata”. Al presidente è riconosciuto poi (articolo 1) un potere di veto sulle proposte legislative delle Camere del Congresso dato che “ogni progetto di legge che sia stato approvato dalla Camera dei Rappresentanti e dal Senato dovrà, prima di diventare legge, essere presentato al Presidente degli Stati Uniti”. In caso di mancata firma il testo sarà rimandato indietro con le modifiche ritenute necessarie e dovrà essere riesaminato e votato a maggioranza dei due terzi. Per quanto riguarda il potere legislativo, per legge è affidato al parlamento, ma l’Articolo 1 stabilisce la necessità che il presidente dia “al Congresso una Informativa sullo stato dell’Unione” raccomandando “alla considerazione

Migranti, come dovrà cambiare il Protocollo Italia-Albania

Migranti, come dovrà cambiare il Protocollo Italia-AlbaniaRoma, 14 mar. (askanews) – La Commissione europea ha presentato, l’11 marzo a Strasburgo, la sua attesa proposta di regolamento che mira a istituire un sistema comune per i rimpatri dei migranti irregolari che non hanno ottenuto un permesso d’asilo in uno Stato membro, e che quindi sono “soggiornanti illegalmente” nell’Ue.


La proposta include esplicitamente la possibilità di trasferire in “centri di rimpatrio” (“return hubs”) in paesi extra Ue questi migranti che si trovano in situazione illegale in uno Stato membro. Ma, come ha precisato in conferenza stampa a Strasburgo il commissario all’Immigrazione e Affari interni, Magnus Brunner, si tratta di una “nuova possibilità” che è “completamente diversa” sia dal “modello Ruanda”, che il governo britannico non è mai riuscito ad applicare per deportare i migranti irregolari nel paese africano, sia dal “modello Albania” che l’Italia ha tentato finora di applicare con poco successo e che “era destinato solo a richiedenti asilo”, mentre questa “soluzione innovativa” proposta dalla Commissione “si applica ai migranti a cui è stato rifiutato l’asilo o che hanno già avuto un ordine di espulsione”, ha puntualizzato Brunner. Comunque, ha aggiunto il commissario, “gli Stati membri ora potranno esplorare se è possibile o no negoziare accordi con certi paesi terzi” per stabilire eventuali “centri di rimpatrio” sul loro territorio, implicando che questo potrà farlo anche l’Italia con l’Albania, se modificherà il Protocollo tra i due paesi alle condizioni previste dal regolamento, una volta che sarà stato approvato dai co-legislatori europei.


Il 13 marzo, durante il briefing quotidiano per la stampa, il portavoce per la Giustizia e gli Affari interni della Commissione europea Markus Lammert ha fornito ulteriori precisazioni in risposta alle domande dei giornalisti: “Innanzitutto sugli hub di rimpatrio in generale, quello che stiamo facendo è creare lo spazio per gli Stati membri per esplorare nuove soluzioni per il rimpatrio di persone che non hanno diritto a rimanere nell’Ue. Ciò significa che creiamo il quadro giuridico e che stiamo definendo le condizioni minime per la creazione di centri di questo tipo. Dovranno essere limitati – ha detto il portavoce – alle persone che sono state soggette a decisioni di rimpatrio esecutive, ovvero che hanno già completato (negativamente, ndr) l’intero processo ed esaurito tutti i ricorsi” della procedura d’asilo, “e che non hanno alcun diritto legale a rimanere ancora nell’Ue”. Gli hub di rimpatrio “si baserebbero su un’intesa o un accordo internazionale dettagliato. E questo può accadere solo con paesi terzi che rispettino le norme internazionali sui diritti umani, incluso il principio di non respingimento”. Inoltre, ha continuato Lammert, “dovrebbe essere istituito anche un organismo o un meccanismo indipendente per monitorare l’applicazione dell’accordo o dell’intesa”. “L’accordo – ha aggiunto il portavoce – dovrà includere anche altre cose: le condizioni per rimanere nel centro rimpatri e cosa accadrà in seguito; che cosa accadrà in caso di violazioni dell’accordo; e l’esclusione dei minori non accompagnati e di famiglie con bambini”, che non potranno essere inviati negli hub. Quindi, “il regolamento prevede un organismo o meccanismo indipendente per monitorare l’applicazione dell’accordo o dell’intesa; ma non specifichiamo chi gestirà questo organismo. Specifichiamo che è una condizione, una precondizione per la conclusione di un accordo o di un’intesa” per la creazione degli hub di rimpatrio. Alla domanda se la Commissione fornirà ulteriori raccomandazioni su come uno Stato membro debba costituire l’organismo indipendente, il portavoce ha risposto: “Non ci sono ulteriori specificazioni rispetto a quelle contenute nel regolamento. Ma quello che posso dire è che qualsiasi accordo sarà ovviamente sottoposto al vaglio dei tribunali nazionali ed europei”, compresi dunque la Corte europea di Giustizia e la Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo. In ogni caso, ha precisato Lammert, “la Commissione dovrà essere consultata prima della conclusione” degli accordi. “E naturalmente, la Commissione ha un ruolo di guardiana del Trattato Ue”.


Il considerando 23 della proposta di regolamento stabilisce in particolare che “l’accordo o l’intesa dovrebbe stabilire le modalità di trasferimento” dei migranti, “le condizioni di soggiorno nel paese” in cui si trova il centro di rimpatrio, “le modalità in caso di rimpatrio successivo nel paese di origine, le conseguenze in caso di violazioni o di cambiamenti significativi che incidono negativamente sulla situazione nel paese terzo” e infine “un organismo o meccanismo di monitoraggio indipendente per valutare l’attuazione dell’accordo o dell’intesa. Tali accordi o intese costituiranno un’attuazione del diritto dell’Unione ai fini dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta” dei diritti fondamentali. Quest’ultimo elemento è importante perché conferma senza ombra di dubbio che il diritto comunitario, e il diritto nazionale derivato dal diritto comunitario, dovranno applicarsi agli accordi con i paesi terzi che ospiteranno gli hub di rimpatrio, anche se, ovviamente, il diritto comunitario non si applica sul loro territorio. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Effetto Trump (e Ue) su politica italiana, destra divisa e sinistra frantumata

Effetto Trump (e Ue) su politica italiana, destra divisa e sinistra frantumataRoma, 14 mar. (askanews) – Le iniziative di Donald Trump e la risposta dell’Europa, a partire dal ReArm Europe, hanno terremotato la politica italiana, mostrando le divisioni della maggioranza, ma soprattutto frantumando l’opposizione.


Per quanto riguarda il centrodestra al governo, il voto del 12 marzo all’Europarlamento sulla risoluzione (non vincolante) sul progetto di difesa unica europea ha certificato che ci sono almeno due linee diverse. A favore si sono espressi tutti i deputati presenti di Fdi-Ecr (22 su 24) e gli eurodeputati italiani presenti del Ppe (otto su nove, sette di Fi e uno della Svp). Quelli della Lega (7 su 8) hanno votato tutti contro, insieme al gruppo dei Patrioti per l’Europa. Non è certo una notizia: ormai da settimane Matteo Salvini, vestiti i panni dell’ultra-trumpiano, spara ad alzo zero contro Ursula von der Leyen e il suo “ReArm”. Da ultimo per Meloni è stato un dito in un occhio il Consiglio federale del Carroccio convocato il 13 in concomitanza del Consiglio dei ministri. Al termine la Lega ha diffuso una nota in cui – tra l’altro – ribadisce che “l’Europa non ha bisogno di ulteriori debiti, di riarmo nucleare o di ulteriori cessioni di sovranità bensì di sostegno a famiglie, sanità e lavoro”. A margine della seduta del Cdm, la premier avrebbe avuto una discussione (“accesa” secondo alcuni, “franca” secondo altri più diplomatici) con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Palazzo Chigi e il Mef, congiuntamente, hanno smentito che ci siano “contrasti” assicurando che i due lavorano in “piena sintonia e con la massima condivisione sui vari dossier aperti, inclusa la difesa europea”. La tensione, però, è palpabile e destinata a salire da qui a martedì, quando Meloni è attesa in Senato per le consuete comunicazioni in vista del Consiglio europeo. In queste ore sono in corso continue consultazioni per arrivare a una risoluzione unitaria che sia “digeribile” da tutti. Perché sia così, nel suo intervento, la premier dovrà fare esercizio di equilibrismo: volerà alto, viene spiegato, ribadirà la critica al nome scelto “ReArm”, confermerà che le maggiori spese in difesa non andranno a scapito di sanità e servizi, ripeterà il suo “no” all’eventuale invio di truppe europee in Ucraina, si soffermerà sulle divisioni delle opposizioni. E quelle certo non mancano. A partire dal Pd. A Strasburgo la delegazione Dem, la più grande del gruppo S&D, si è letteralmente spaccata in due e la segretaria Elly Schlein, è riuscita a limitare i danni solo grazie al ‘soccorso’ degli indipendenti, superando di un voto la pattuglia ‘riformista’ guidata dal presidente (suo sfidante alle primarie) Stefano Bonaccini. Contro la linea di Schlein hanno votato a favore lo stesso Bonaccini, Decaro, Giorgio Gori, Gualmini, Lupo, Maran, Moretti, Picierno, Tinagli e Topo. Si sono astenuti invece Benifei, Corrado, Laureti, Nardella, Ricci, Ruotolo, Strada, Tarquinio, Zan, Zingaretti e Lucia Annunziata. Il piano ‘Rearm Eu’ va cambiato perché “all’Europa serve la difesa comune, non la corsa al riarmo dei singoli Stati. La posizione del Pd è e resta questa”, ha dichiarato la segretaria dopo il voto, non senza irritazione. Schlein sa che questa è la prima vera crisi da quando guida il Pd e che intorno alla sua leadership si aprono giochi difficili da gestire. Mentre qualcuno inizia a pronunciare la parola “congresso”, è lei stessa a chiedere un “chiarimento politico”, consapevole che il rischio maggiore è quello di farsi logorare, dall’interno, ma anche dall’esterno, dagli alleati o presunti tali.


Tra questi, l’Alleanza Verdi e Sinistra è contraria all’aumento delle spese per la difesa, ma è soprattutto il Movimento 5 Stelle ad approfittare delle difficoltà Dem. Nel giorno del voto il leader Giuseppe Conte e i parlamentari hanno manifestato di fronte all’Europarlamento e l’ex premier non esita ad attaccare Schlein: “L’astensione è la cosa più incomprensibile. Non è ammissibile in un momento così cruciale. Abbiamo visto un Pd che si è diviso, un partito in grande difficoltà”. “Viviamo una situazione strana, a livello internazionale e nazionale – commenta un parlamentare di lungo corso che vuol restare anonimo -. Trump sta terremotando il mondo, ogni giorno ci sono novità che destabilizzano il quadro e in Italia ormai ogni partito gioca per sé. Poi in generale il centrodestra al momento opportuno riesce a compattarsi, la sinistra si disgrega e questa è un’assicurazione per Meloni. Ma è una situazione così fluida e in qualche modo inedita che può succedere di tutto”.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Ue, Commissione pronta a semplificazione per imprese ma burocratica su tutela consumatori

Ue, Commissione pronta a semplificazione per imprese ma burocratica su tutela consumatoriRoma, 14 mar. (askanews) – Questa Commissione europea appare molto determinata a facilitare la vita e la competitività delle imprese con una serie di misure di semplificazione burocratica e normativa della legislazione esistente, che a volte diventa vera e propria deregolamentazione, ma non sembra avere altrettanto a cuore gli interessi dei consumatori e la loro libertà di scelta informata, basata sulla trasparenza. E’ quanto sembra indicare una recente decisione di Bruxelles contro una norma italiana chiaramente intesa a tutelare, appunto, i consumatori e la trasparenza delle pratiche commerciali, che dimostra una sorprendente rigidità burocratica.


Il 12 marzo scorso, la Commissione ha inviato una notifica di messa in mora all’Italia, prima tappa della procedura di infrazione comunitaria, accusandola di aver violato le regole del mercato unico per avere “introdotto l’obbligo di apporre sui prodotti di consumo un’indicazione specifica che informi che la quantità del prodotto è stata ridotta mentre la confezione è rimasta invariata, il che ha portato a un aumento del prezzo unitario”, come spiega una nota dell’Esecutivo comunitario. L’infrazione riguarda in particolare gli articoli da 34 a 36 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, che vietano le restrizioni alle importazioni ed esportazioni tra gli Stati membri e le misure equivalenti. “Sebbene la Commissione riconosca l’importanza di informare i consumatori di questo tipo di modifiche, richiedere che tali informazioni siano visualizzate direttamente su ciascun prodotto interessato non sembra proporzionato. I requisiti nazionali di etichettatura costituiscono un importante ostacolo al mercato interno e compromettono seriamente la libera circolazione delle merci”, spiega ancora la Commissione, ritenendo che “le autorità italiane non abbiano fornito prove sufficienti in merito alla proporzionalità della misura, in quanto sono disponibili altre opzioni meno restrittive (ad esempio, l’esposizione delle stesse informazioni vicino ai prodotti interessati)” negli scaffali dei negozi e supermercati, come avviene in Francia.


Secondo l’Esecutivo comunitario, inoltre, l’Italia avrebbe violato anche la direttiva Ue 2015/1535 sulla trasparenza del mercato unico, “poiché la misura è stata adottata durante il periodo di attesa successivo alla notifica da parte dell’Italia del disegno di legge e senza considerare il parere dettagliato emesso dalla Commissione”. Questo periodo di attesa (“standstill period”) è previsto dalla procedura di notifica “Tris”, che mira a prevenire l’avvio delle procedure d’infrazione, attraverso un dialogo preliminare tra la Commissione e lo Stato membro interessato. La misura italiana in questione fa parte del “Disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2023”, articolo 21, intitolato “Misure di contrasto alle prassi commerciali di riporzionamento dei prodotti preconfezionati”. L’articolo stabilisce: “I produttori che mettono in vendita, anche per il tramite dei distributori operanti in Italia, un prodotto di consumo che, pur mantenendo inalterato il precedente confezionamento, ha subito una riduzione della quantità nominale e un correlato aumento del prezzo per unità di misura, informano il consumatore dell’avvenuta riduzione della quantità e dell’aumento del prezzo in termini percentuali, tramite l’apposizione nella confezione di vendita di una specifica etichetta con apposita evidenziazione grafica”. Inoltre, si precisa che l’obbligo di informazione “si applica per un periodo di sei mesi a decorrere dalla data in cui il prodotto è esposto nella sua quantità ridotta”.


Come spiega il Ministero delle Imprese e del Made in Italy nella sua notifica alla Commissione del 7 ottobre 2024, la misura italiana è stata adottata “al fine di regolamentare il fenomeno della cosiddetta ‘Shrinkflation’, ovvero la pratica dei produttori di ridurre la quantità di prodotto all’interno della confezione, mantenendo sostanzialmente invariato il prezzo o addirittura aumentandolo, con la conseguenza di disorientare i consumatori che si trovano di fronte a un aumento di prezzo in modo non trasparente”. Sono motivazioni che appaiono tutt’altro che peregrine e infondate, ma a Bruxelles non sono bastate. L’Italia ha ora due mesi per rispondere alla Commissione, che in caso di risposta insoddisfacente potrebbe inviare un “parere motivato”, secondo passo nella procedura di infrazione, che prelude al ricorso in Corte europea di giustizia, se anche in questo caso l’Esecutivo comunitario giudicasse inadeguate le contro argomentazioni del governo.


Sarebbe un pessimo segnale agli operatori commerciali, che verrebbero premiati per un comportamento volutamente ingannevole, e ai consumatori, a cui verrebbe impedito di vedere i loro diritti tutelati da una legge nazionale. Bisogna precisare che la Commissione ha piena discrezionalità nelle sue decisioni sul controllo dell’attuazione della legislazione comunitaria. In altre parole, non era affatto obbligata ad aprire questa procedura d’infrazione, e potrebbe benissimo scegliere di non portarla avanti, se considerasse con più flessibilità che la misura italiana non mira affatto a restringere od ostacolare le importazioni di prodotti provenienti da altri Stati membri, ma solo a evitare un aumento dei prezzi occulti. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Ue, sala conferenze stampa Italia inutilizzata, rischia “esproprio”?

Ue, sala conferenze stampa Italia inutilizzata, rischia “esproprio”?Roma, 8 mar. (askanews) – C’è una sala, nell’Europa Building, che resta sempre desolatamente vuota. E’ la sala dell’Italia, quella in cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni potrebbe tenere le sue conferenze stampa a margine dei summit europei. Uno spazio di ampie dimensioni, con sedie, tavoli e prese elettriche. Perfetto per lavorare, insomma. Ma fino a questo momento Meloni l’ha usata solo una volta: il 10 febbraio 2023. In quell’occasione tenne la conferenza nella sala all’indomani della chiusura dei lavori e non il giorno stesso. Provocando, si racconta, qualche malumore nei funzionari del Consiglio europeo che dovettero rientrare al lavoro per allestire la stanza.


Da allora la porta della sala è rimasta sempre chiusa. Al più la premier si ferma per un “doorstep” (ma questo non è accaduto negli ultimi due summit su tre) nel cosiddetto passaggio alla Lanterna, con giornalisti e operatori accalcati in quella che in gergo viene chiamata “tonnara”, senza possibilità di prendere appunti e con poche chance di porre domande. Il bello è che per ottenere quella sala il governo italiano (all’epoca presieduto da Giuseppe Conte) aveva lottato. Sono solo tre, infatti, le grandi sale per conferenze stampa disponibili nel palazzo. Prima erano assegnate ai “big” Francia, Germania e Regno Unito. Dopo la Brexit il governo italiano aveva chiesto per sé quello spazio, che è considerato anche un segno di “status”. Una volta ottenuto, era stato inizialmente utilizzato ben poco a causa del Covid. Mario Draghi, invece, usava la sala regolarmente, come del resto fanno ancora oggi nei rispettivi spazi il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz che ben di rado saltano un appuntamento con la stampa seduta e in grado di lavorare adeguatamente.


Visto lo stato di disuso della sala italiana, al Consiglio europeo qualcuno inizia a chiedersi se non sia possibile lasciarla libera, magari mettendola a disposizione di qualche altro Paese membro di primo piano (la Spagna?) che oggi deve utilizzare spazi ben più piccoli. Al momento, secondo quanto si apprende, una richiesta del genere non è stata ancora avanzata, ma se la situazione non cambiasse – è il mood che si percepisce nei corridoi dell’Europa Building (il palazzo del Consiglio, non la newsletter, ndr) – potrebbe arrivare il momento dell’”esproprio”. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Arriva il “vero” modello Ue dei centri di rimpatrio nei paesi terzi

Arriva il “vero” modello Ue dei centri di rimpatrio nei paesi terziRoma, 8 mar. (askanews) – Martedì 11 marzo, a Strasburgo, la Commissione europea presenterà la sua attesa proposta legislativa sul rimpatrio dei migranti irregolari a cui è stata rifiutata la domanda di asilo in uno Stato membro dell’Ue. Lo ha confermato il 5 marzo scorso a Bruxelles il Commissario per gli Affari interni e le Migrazioni, Magnus Brunner, durante la conferenza stampa al termine di una riunione del Consiglio Giustizia dell’Ue.


Brunner ha aggiunto, ed è qui la notizia, che la Commissione presenterà presto, sebbene non ancora martedì ma comunque prima di giugno, anche la lista europea dei “paesi di origine sicuri” e la revisione dei criteri per la definizione dei “paesi terzi sicuri”, affinché possano esservi inviati i migranti in attesa di rimpatrio. Questa revisione del concetto di “paese terzo sicuro”, con la proposta, “se del caso, di eventuali modifiche mirate”, è prevista dal nuovo regolamento Ue sulla procedura d’asilo, che fa parte Patto sull’immigrazione approvato nel maggio 2024 e che entrerà in vigore dal giugno 2026, con una precisa scadenza “entro il 12 giugno 2025”. A quanto riferiscono altre fonti comunitarie, la proposta potrebbe arrivare già durante il mese di marzo.


Non si sa ancora, invece, quando sarà presentata la nuova lista che elencherà uno per uno i “paesi terzi sicuri”, sulla base dei nuovi criteri. Al contrario degli altri due casi menzionati, per la pubblicazione di quest’ultima lista la legislazione Ue in vigore non prevede alcuna scadenza, hanno puntualizzato le fonti. Riguardo al testo legislativo sui rimpatri che sarà presentato martedì, è pressoché certo che si tratterà di una proposta di regolamento invece che di una proposta di direttiva. La differenza sta nel fatto che il regolamento è applicabile direttamente e immediatamente negli Stati membri, mentre la direttiva deve essere recepita nell’ordinamento giuridico nazionale di ogni paese Ue con una legge specifica che garantisca il rispetto degli obiettivi indicati.


La legislazione sui rimpatri attualmente in vigore è basata su una direttiva del 2008, che si era cercato di aggiornare e modificare in modo mirato con un’altra proposta di direttiva presentata dalla Commissione nel 2018, per rispondere ai numerosi problemi che si sono verificati riguardo alla sua attuazione poco efficace, sia a causa di lacune nel testo, sia perché gli Stati membri non sempre l’hanno recepita correttamente (Belgio, Germania, Spagna e Grecia sono state oggetto di procedure comunitarie d’infrazione per questo), oppure l’hanno applicata un modo incoerente e non coordinato. Questa considerazione vale, in particolare per quanto riguarda quali cittadini, di quali paesi terzi debbano essere rimpatriati, le modalità di rimpatrio, il riconoscimento reciproco delle decisioni sulle domande d’asilo prese da ciascuna giurisdizione nazionale (ciò che consente il fenomeno dei “movimento secondari” dei migranti all’interno dell’Ue, con il tentativo di ripresentare in altri paesi la domanda d’asilo già respinta nel paese di primo arrivo). Inoltre, i dati mostrano che solo un migrante su quattro (o in certi anni su cinque) di quelli a cui è stata respinta la domanda d’asilo sono poi effettivamente rimpatriati; gli altri, restano sul territorio dell’Ue, spesso in condizioni di illegalità e di estrema precarietà.


La proposta di modifica del 2018, che prevedeva una “rifusione” della direttiva rimpatri, è rimasta bloccata dal giugno 2019 nei negoziati legislativi in Parlamento europeo. Inoltre, il Patto sull’immigrazione e l’asilo adottato a maggio 2024, ha introdotto una nuova procedura di “rimpatrio alla frontiera”, applicabile ai cittadini di paesi terzi a cui è stata respinta la domanda di asilo, e l’obbligo per gli Stati membri di emettere una decisione “comune o congiunta” per il rigetto di una domanda di asilo e il rimpatrio. Il Consiglio europeo, nelle sue conclusioni dell’ottobre 2024, ha chiesto alla Commissione di sottoporre urgentemente una nuova proposta legislativa. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha risposto con l’annuncio del ritiro del testo del 2018, e della presentazione di un “nuovo approccio” sui rimpatri, previsto per il mese di marzo 2025. La nuova proposta di regolamento che sarà presentata l’11 marzo dovrebbe finalmente esplicitare le cosiddette “soluzioni innovative” di cui si parla ormai da un paio d’anni nel dibattito politico europeo sull’immigrazione, chiarendo il concetto e stabilendo la definizione dei “centri di rimpatri” (“return hubs”) in paesi terzi, nei quali poter inviare i migranti irregolari a cui è stata respinta la domanda di protezione internazionale. E c’è da aspettarsi che non mancheranno le polemiche su questa “esternalizzazione” della gestione dei migranti irregolari e sulla loro “deportazione” al di fuori dell’Ue. “Non è accettabile che oggi nei paesi Ue solo uno su cinque migranti irregolari che dovrebbero essere rimpatriati lo siano poi effettivamente. In termini generali – ha affermato Brunner – quando a delle persone che non hanno il diritto di rimanere si permette di restare nell’Ue, l’intero sistema dell’asilo viene minato. Bisogna agire secondo le regole, altrimenti – ha avvertito – si rischia anche di erodere il sostegno pubblico per una società aperta e tollerante”. Il commissario ha poi anticipato che il nuovo regolamento sui rimpatri imporrà tra l’altro, obblighi precisi di cooperazione con le autorità competenti ai migranti in attesa di rimpatrio, con “conseguenze” previste nel caso in cui non rispettino questi obblighi; vi saranno poi regole più rigorose per le persone che rappresentano rischi per la sicurezza, una semplificazione delle procedure per i rimpatri, e infine un rafforzamento del riconoscimento reciproco tra i paesi Ue delle decisioni prese riguardo alle domande d’asilo. Infine, una considerazione sul protocollo Italia-Albania. E’ chiaro che non si tratta affatto di un “modello” precursore per la nuova legislazione Ue, ma di un caso fondamentalmente diverso di esternalizzazione, riguardante l’elaborazione extraterritoriale delle domande di asilo. Nei centri in Albania dovevano essere trasferiti i migranti irregolari adulti salvati in mare, fuori dalle acque territoriali italiane, per esaminare le loro richieste di asilo. Tuttavia, a causa di ripetute contestazioni nei tribunali italiani, il Protocollo non è mai stato attuato davvero. A differenza dei centri istituiti dal Protocollo in Albania, gli “hub di rimpatrio” definiti e previsti dalla nuova proposta della Commissione dovrebbero ospitare cittadini di paesi terzi che hanno già subito una decisione di rigetto della richiesta d’asilo e sono quindi in attesa di rimpatrio. Ma nulla vieta, ovviamente, di modificare il Protocollo e adattarlo al nuovo “modello europeo” che sarà presentato l’11 marzo a Strasburgo. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Ucraina, Italia a vertice militare “volenterosi” (ma solo da osservatore)

Ucraina, Italia a vertice militare “volenterosi” (ma solo da osservatore)Roma, 8 mar. (askanews) – Non sganciarsi dal treno dei “volenterosi” organizzato da Emmanuel Macron e Keir Starmer ma senza al momento impegnarsi direttamente. E’ questa – secondo quanto si apprende – la posizione ‘attendista’ decisa dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in vista della riunione convocata a Parigi il prossimo 11 marzo. Ad annunciare l’incontro, a margine del Consiglio europeo straordinario del 6 marzo, è stato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.


Si tratta di una riunione a livello di vertici militari ma che segna un cambio di passo: dopo le dichiarazioni di principio dei leader, si entra nel vivo nell’organizzazione di una forza europea che potrebbe essere schierata ‘boots on the ground’ in Ucraina per garantire un eventuale cessate il fuoco. Si incontreranno, ha spiegato Zelensky, “i rappresentanti militari dei Paesi che sono pronti a compiere sforzi maggiori per garantire in modo affidabile la sicurezza nel quadro della fine della guerra”. Dunque non l’Italia che, come ha detto più volte la premier, è contraria all’invio di truppe di peace-keeping senza il cappello dell’Onu o quantomeno della Nato. “Sono molto perplessa, la considero una soluzione molto complessa e la meno efficace. Una pace giusta ha bisogno di garanzie di sicurezza certe che stanno sempre nell’alveo della Nato. E ho escluso che possano essere inviati soldati italiani”, ha ripetuto la presidente al summit di Bruxelles.


Del resto Meloni è consapevole che con il “no” annunciato (e sbandierato) della Lega, in Parlamento molto difficilmente potrebbe avere una maggioranza favorevole all’eventuale missione, anche nel caso di qualche ‘aiuto’ da parte di alcune forze di opposizione. Allo stesso tempo, tirarsi fuori completamente dall’iniziativa Macron-Starmer rischierebbe di isolare Roma nell’attuale scenario internazionale. Quindi meglio una soluzione all”italiana’: andiamo sì, ma per osservare. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Criptovalute e stablecoin, altro scontro in vista fra Trump e l’Ue

Criptovalute e stablecoin, altro scontro in vista fra Trump e l’UeRoma, 8 mar. (askanews) – Le preoccupazioni europee per la raffica di ordini esecutivi sventagliata dal presidente americano Donald Trump e per le sue dichiarazioni incendiarie nell’ultimo mese e mezzo, da quanto ha inaugurato il suo secondo mandato, non si limitano alla politica estera, alle posizioni sull’Ucraina e sulla Russia, al settore della Difesa, e alle minacce sul commercio internazionale e nel settore digitale, ma riguardano anche la stabilità e la sovranità dell’euro e il controllo dei sistemi di pagamento nell’Eurozona, che potrebbero essere messi a rischio, in particolare, mediante l’uso delle criptovalute come strumento per imporre gli interessi americani e l’influenza del dollaro in Europa.


L’Eurogruppo di lunedì 10 marzo ha in agenda tra l’altro, in una sessione in formato allargato (ovvero in presenza di tutti i ministri finanziari dell’Ue, e non solo di quelli dell’Eurozona), una discussione proprio su questo punto, sugli ‘Sviluppi nelle attività e nei mercati delle criptovalute e le loro implicazioni per l’Eurozona e l’economia europea’. Le criptovalute sono valute digitali (per usarle basta una app sullo smartphone) che usano la crittografia per proteggere le transazioni, ovvero che sono visibili e utilizzabili solo conoscendo un determinato codice informatico. In assenza di un quadro giuridico preciso e di obblighi di trasparenza, queste valute elettroniche possono essere emesse da chiunque, e utilizzate da qualunque intermediario, senza alcuna autorizzazione. Questo, come spiega sul suo sito la Consob, comporta una serie di notevoli rischi per i consumatori e gli investitori e non consente un’efficace tutela legale e contrattuale degli interessi degli utenti, esposti al rischio di ‘ingenti perdite economiche, ad esempio in caso di condotte fraudolente, fallimento o cessazione di attività delle piattaforme on-line di scambio presso cui vengono custoditi i portafogli digitali personali’. Inoltre, le criptovalute potrebbero essere utilizzate per il riciclaggio di denaro sporco e per altre attività illegali.


Gli sviluppi in questo settore sono diventati ‘un argomento di grande attualità’ per l’Europa dopo che ‘la nuova amministrazione statunitense ha adottato un atteggiamento molto diverso rispetto alla precedente per quanto le riguarda. Una posizione molto, molto pro-criptovalute’, hanno affermato venerdì scorso a Bruxelles fonti Ue qualificate. Le fonti hanno ricordato l’ordine esecutivo emesso dal presidente Trump il 23 gennaio scorso, dal titolo ‘Rafforzare la leadership americana nella tecnologia finanziaria digitale’, che delineava l’obiettivo di ‘promuovere e proteggere la sovranità del dollaro statunitense, anche attraverso azioni volte a promuovere lo sviluppo e la crescita di ‘stablecoin’ legali e legittimi basati sul dollaro in tutto il mondo’.


Le stablecoin sono criptovalute il cui valore è ancorato a un asset stabile, come un deposito in una valuta corrente nazionale (sottostante valutario) oppure dei beni o delle materie prime come l’oro. Questo le rende molto meno volatili, più stabili, come indica il nome, rispetto agli altri tipi di criptovalute. Mentre l’Ue sta cercando di regolamentare e mettere sotto controllo le criptovalute, ed è la prima grande giurisdizione al mondo ad aver già approvato un quadro normativo completo in questo senso, con il regolamento Mica (‘Markets in Crypto-Assets’) che è entrato in vigore il 30 dicembre 2024; e mentre si attende l’approvazione di un’altra normativa, quella per ‘l’Euro digitale’ che sarebbe garantito dalle banche centrali, con valore nominale costante e corso legale, e che costituirebbe un’alternativa alle criptovalute, l’America di Trump sta andando nel senso diametralmente opposto, quello di una radicale deregolamentazione.


L’ordine esecutivo del 23 gennaio, infatti, non solo ha revocato un ordine della precedente Amministrazione Biden, del 9 marzo 2022, che mirava ad ‘assicurare uno sviluppo responsabile degli asset digitali’, ma ha anche proibito ‘l’istituzione, l’emissione, la circolazione e l’uso di valute digitali delle banche centrali all’interno della giurisdizione degli Stati Uniti’. E questo al fine di ‘proteggere gli americani dai rischi delle valute digitali delle banche centrali’, che secondo Trump ‘minacciano la stabilità del sistema finanziario, la privacy individuale e la sovranità degli Stati Uniti’. Questa decisione americana, hanno spiegato le fonti Ue, ‘è ovviamente rilevante per noi, rilevante per il nostro panorama dei pagamenti’. Quindi, durante la discussione dell’Eurogruppo, ‘la Commissione e la Banca centrale europea forniranno una panoramica degli sviluppi dei mercati delle criptovalute ed esprimeranno la loro opinione su come i piani statunitensi potrebbero influenzarci; e ovviamente – hanno sottolineato le fonti – vogliamo evitare che tali iniziative abbiano conseguenze negative sulla nostra sovranità monetaria, sulla nostra autonomia strategica, sulla nostra stabilità finanziaria’. ‘Abbiamo una legislazione in vigore per questo: abbiamo il regolamento Mica, approvato nel 2023, ma che ha iniziato a essere applicato pienamente solo alla fine dell’anno scorso’. Questo regolamento ‘pone l’Ue in prima linea nella chiarezza normativa sulle criptovalute. Ma dobbiamo monitorare gli sviluppi’ dopo la nuova decisione dell’Amministrazione Usa, ‘ed essere certi che ciò che abbiamo in quel regolamento sia all’altezza del compito e fornisca adeguate garanzie’, hanno avvertito le fonti Ue, secondo cui l’aspettativa ‘è che la Bce faccia presente che questi piani degli Stati Uniti sono un altro motivo per cui dovremmo andare avanti con il progetto dell’Euro digitale’, che è fermo da due anni, ‘e gettare le basi per un adeguato sistema di pagamento europeo’. Un punto, questo, che ‘probabilmente verrà ripreso da molti ministri’. A una nostra richiesta di fornire maggiori dettagli su quale sia il pericolo per l’Eurozona e per la stabilità dell’euro, le fonti hanno risposto: ‘Questo è uno scenario in cui bisogna scegliere attentamente le parole. Ma se c’è una cosa che abbiamo imparato nell’ultimo mese e mezzo, è che la nuova Amministrazione a Washington è pronta a usare tutte le leve che ha nei negoziati per fare pressione sugli altri paesi, quando ritiene che sia nell’interesse americano. Quindi, bisogna considerare con attenzione se sia prudente consentire che certe parti della nostra economia facciano affidamento su strutture che sono intrinsecamente americane e controllate dagli Stati Uniti’, e valutare ‘dove vi sia un rischio di una ulteriore influenza (da parte americana, ndr) tale da indurci a voler garantire sovranità e una forma di sicurezza attraverso soluzioni europee’. Rimane la domanda: qual è ‘l’interesse americano’ che le criptovalute servirebbero a scapito degli interessi europei e della sovranità dell’euro? Una risposta interessante si trova in un articolo di Federico Fubini sul Corriere della sera del 17 febbraio scorso (‘Trump e il complotto contro l’Europa: le due strategie per dare l’assalto all’euro’), che avevamo già citato in questa newsletter. A uno stablecoin basato sul dollaro, spiega Fubini, corrispondono depositi in dollari gestiti dall’emittente, e ‘questi depositi vengono investiti quasi tutti in titoli del Tesoro americano’. Aumentare il loro uso ‘in tutto il mondo’, Europa compresa (che come abbiamo visto è uno degli obiettivi dell’ordine esecutivo di Trump), ‘significa dunque aumentare i depositi in dollari’, che vanno a finanziare il debito americano, ‘a scapito dei depositi in altre valute (incluso l’euro)’. A conferma di questa tesi, viene riportata una dichiarazione del 4 febbraio dello ‘special advisor’ dell’Amministrazione Trump per le criptovalute, David Sacks: ‘Gli stablecoin hanno il potenziale di assicurare che il dominio internazionale del dollaro americano aumenti e di creare potenzialmente migliaia di miliardi di dollari di domanda per i titoli di Stato americani’. Più chiaro di così… NOTA * Il regolamento Mica copre gli emittenti di criptovalute non garantite e i cosiddetti ‘stablecoin’, nonché le sedi di negoziazione e i portafogli in cui sono detenute le criptovalute. In base alla regolamentazione, i fornitori di servizi di criptovalute necessitano di un’autorizzazione per operare nell’Ue, devono rispettare rigidi requisiti per proteggere i portafogli dei consumatori e saranno ritenuti responsabili se perdono le criptovalute degli investitori. L’Autorità bancaria europea (Eba) manterrà un registro pubblico dei fornitori di servizi di criptovalute non conformi. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Dazi, ecco le “armi” a disposizione dell’Ue per rispondere a Trump

Dazi, ecco le “armi” a disposizione dell’Ue per rispondere a TrumpRoma, 1 mar. (askanews) – I dazi del 25% sulle importazioni dall’Ue annunciati da Donald Trump (ma ancora non specificati nei dettagli, a parte il riferimento alle automobili e più in generale all’acciaio e all’alluminio) stanno creando apprensione e timori soprattutto nei paesi (Germania, Italia e Irlanda) con il più alto attivo commerciale nello scambio di merci con gli Stati Uniti. La risposta della Commissione europea, che sul commercio ha una competenza esclusiva nell’Ue, è stata finora molto prudente, per mantenere aperto il negoziato con gli Usa, anche se ferma nel ribadire che le contromisure scatteranno immediatamente se i dazi verranno imposti, quando si saprà esattamente quali esportazioni dall’Ue saranno prese di mira.


Innanzitutto va detto che l’Ue è un’unione doganale, e quindi, mentre i paesi terzi possono imporre dazi all’importazione differenziati secondo i paesi di provenienza, la risposta dell’Ue non può essere nazionale, con contromisure diverse e magari negoziate da Stato membro a Stato membro, ma solo comunitaria, con dazi unici e uguali per tutti i Ventisette. Va precisato poi che gli strumenti Ue di difesa commerciale (‘trade defense’) sono sottoposti a un meccanismo decisionale diverso sia da quello riguardante la politica estera e di difesa (dove vige la regola paralizzante dell’unanimità dei paesi membri per l’approvazione), sia dal normale processo co-legislativo per la maggior parte delle politiche comuni (che richiede la maggioranza qualificata degli Stati membri).


La competenza comunitaria esclusiva per il commercio significa che le misure di ‘trade defense’, in particolare in risposta a dazi sproporzionati e ingiustificati imposti da paesi terzi alle importazioni dall’Ue, possono essere decise su iniziativa della Commissione con ‘regolamenti di esecuzione’ secondo il meccanismo della ‘comitologia’: le proposte sono formulate dall’Esecutivo Ue e sottoposta all’approvazione dei rappresentanti degli Stati membri nel ‘Comitato degli strumenti di difesa commerciale’. Qui il meccanismo decisionale prevede che le proposte di contromisure commerciali possano essere respinte solo se è contraria la maggioranza qualificata dei rappresentanti dei Ventisette (il 55% dei paesi che rappresenti almeno il 60% della popolazione totale dell’Ue). In assenza di una maggioranza qualificata contraria o favorevole, la proposta viene ripresentata in un ‘comitato di appello’: se anche in questo caso non c’è una maggioranza qualificata contraria, la Commissione può procedere senz’altro all’esecuzione delle misure. A questo punto bisogna puntualizzare che delle contromisure commerciali comunitarie riguardo ai dazi americani sull’acciaio erano già state decise all’epoca della prima Amministrazione Trump, e successivamente sospese durante l’Amministrazione Biden. La prima azione di ritorsione commerciale che l’Ue può prendere, in questo caso specifico, consisterebbe nel non prorogare la sospensione, prevista fino a fine marzo, di questi vecchi dazi, che tornerebbero quindi in vigore automaticamente entro l’inizio di aprile, se i dazi americani su acciaio e alluminio europei verranno applicati come annunciato da Trump, il 12 marzo. Il timing, tuttavia, è imprevedibile, perché il presidente americano continua a moltiplicare le minacce, ma anche a negoziare contropartite in cambio della sospensione o del rinvio dell’attuazione dei dazi annunciati.


Per quanto riguarda le altre importazioni, la Commissione ha già pronta una lista completa di prodotti americani che potrebbero essere colpiti da dazi nell’Ue, come contromisure di difesa commerciale nell’Ue. La scelta sui prodotti americani da prendere di mira sarà calibrata, in modo proporzionale, in base alle importazioni specifiche dall’Ue che verranno penalizzate dai nuovi dazi eventualmente notificati dall’Amministrazione Trump. In questo quadro, i singoli Stati potrebbero avviare trattative bilaterali per ridurre l’impatto dei dazi? Secondo il ministro italiano dell’Economia Giancarlo Giorgetti sì. ‘La risposta alla politica protezionistica dell’amministrazione Trump penso che possa essere bilaterale, perchè può essere bilaterale’, ha detto in conferenza stampa il 28 febbraio (creando qualche allarme a Bruxelles). Cosa intende Giorgetti con questa frase ‘sibillina’? Che i dazi possono essere usati come uno strumento negoziale, in una logica ‘transazionale’. Ovvero gli Stati Uniti potrebbero decidere di imporre dazi minori (o nessun dazio) a un paese specifico in cambio di alcune contropartite.


Contro questa possibilità, la Commissione dispone di un altro strumento, molto più recente (è in vigore dalla fine del 2023), ma anche più complicato da usare, lo ‘strumento anti coercizione’, a cui si può ricorrere quando sono soddisfatte due condizioni cumulative: 1) un paese terzo interferisce nelle legittime scelte sovrane dell’Unione o di uno Stato membro cercando di impedire o di ottenere la cessazione, la modifica o l’adozione di un atto legislativo specifico Ue o nazionale; 2) l’interferenza comporta l’applicazione o la minaccia di applicare misure che incidono sugli scambi o sugli investimenti. Anche in questo caso le misure sono decise in base alla procedura di ‘comitologia’. Lo strumento anti coercizione potrebbe essere usato, in particolare, nel caso in cui l’Amministrazione Trump decidesse, come si teme nell’Ue, di prendere di mira esplicitamente, con ordini esecutivi e divieti imposti alle imprese, l’applicazione delle normative comunitarie che regolano il settore digitale, e in particolare i due regolamenti ‘Digital Services Act’ (Dsa – Ue 2022/2065) e ‘Digital Markets Act’ (Dma – Ue 2022/1925), il regolamento Gdpr sulla protezione dei dati personali (‘General Data Protection Regulation’ – Ue 2016/679) e il recentissimo regolamento sull’Intelligenza Artificiale (Ue 2024/1689). E’ noto come esponenti dell’Amministrazione Trump abbiano già accusato proprio il regolamento Dsa di imporre forme di censura, mentre alcune piattaforme americane dei social media come X e Meta hanno annunciato di non applicare più il ‘fact checking’ sui loro contenuti, previsto dalle normative Ue. Un caso di scuola di coercizione economica accaduto in passato (2021-2022) è stato quello delle discriminazioni commerciali della Cina contro la Lituania (rifiuto di sdoganare o di accettare domande di importazione di merci lituane e pressioni sulle aziende dell’Ue esportatrici in Cina al fine di escludere eventuali input lituani dalle loro catene del valore), causate dall’apertura di un’ambasciata di Taiwan a Vilnius, capitale dello Stato baltico. All’epoca non era ancora stato istituito lo strumento anti coercizione, e il caso fu portato dall’Ue davanti all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). In realtà, nei rapporti con gli Stati Uniti, l’aspetto delle contromisure di difesa commerciale e quello dello strumento anti coercizione potrebbero essere entrambi coinvolti nella risposta dell’Ue, se si confermerà che dietro l’annuncio dei dazi, così come dietro la minaccia di ritirare o ridurre drasticamente l’impegno americano nella difesa europea attraverso la Nato, ci sarebbe in realtà una precisa strategia di Trump, volta a costringere i paesi sotto pressione e i loro sistemi finanziari ad acquistare massicciamente titoli del Tesoro Usa a bassi rendimenti e a lunghissimo termine. Insomma, come ha spiegato molto bene Federico Fubini sul Corriere della Sera (17 febbraio, ‘Trump e il complotto contro l’Europa: le due strategie per dare l’assalto all’euro’), basandosi su un lungo documento strategico del nuovo presidente del ‘Council of Economic Advisors’ della Casa Bianca, Stephen Miran, i dazi di Trump non sarebbero altro che un potente strumento negoziale per una gigantesca operazione di coercizione economica contro l’Europa e il resto del mondo. L’obiettivo di questa operazione andrebbe ben al di là delle finalità puramente commerciali: si tratterebbe di garantire la stabilizzazione dell’ingente debito pubblico americano (120,7% del Pil nel 2024, con un deficit al 6,3%), assicurandone il finanziamento ‘forzato’ dall’estero, a lungo termine e con rendimenti poco remunerativi, nonostante il forte aumento previsto (2.000 miliardi di dollari all’anno) del debito stesso. Questo consentirebbe anche a Trump di rispettare la promessa di ridurre ulteriormente (fino al 15%) le tasse sui profitti delle imprese (con un costo aggiuntivo per il bilancio americano calcolato a 5.000 miliardi di dollari in 10 anni), e di scongiurare il rischio che la Federal Reserve aumenti i tassi d’interesse, ciò che causerebbe grossi problemi all’economia del Paese. Dagli sviluppi delle prossime settimane si capirà se questo ‘Piano Miran’ è davvero il piano del presidente degli Stati Uniti. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Ucraina, Meloni lancia summit Usa-Ue per cercare di tornare protagonista

Ucraina, Meloni lancia summit Usa-Ue per cercare di tornare protagonistaRoma, 1 mar. (askanews) – Un vertice Usa-Unione europea. E’ questa la mossa pensata da Giorgia Meloni per cercare di ritrovare un ruolo da protagonista dopo essere stata stretta da un lato dall’iniziativa di Emmanuel Macron e Keir Starmer e dall’altro dalle uscite sempre più scomposte e provocatorie di Donald Trump, culminate il 28 febbraio nell’umiliazione di Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca.


Per giorni la premier era rimasta in silenzio, nella sempre più complicata posizione di non sganciarsi dall’Europa senza dover, allo stesso tempo, rinnegare il supposto “rapporto privilegiato” con il tycoon. Dopo che Zelensky è stato maltrattato da Trump in diretta mondiale – incassando subito la solidarietà, tra gli altri, di Antonio Costa, Ursula von der Leyen, Macron – Meloni non è intervenuta per qualche ora. Ha letto (non senza irritazione) gli elogi al tycoon del suo vice Matteo Salvini, si è consultata con i suoi consiglieri, poi ha affidato il suo pensiero a una nota. Nella dichiarazione la premier non fa, ed è singolare, nessun riferimento al comportamento di Trump né esprime solidarietà al leader ucraino. “Ogni divisione dell’Occidente – afferma invece – ci rende tutti più deboli e favorisce chi vorrebbe vedere il declino della nostra civiltà. Non del suo potere o della sua influenza, ma dei principi che l’hanno fondata, primo fra tutti la libertà. Una divisione non converrebbe a nessuno. È necessario un immediato vertice tra Stati Uniti, Stati europei e alleati per parlare in modo franco di come intendiamo affrontare le grandi sfide di oggi, a partire dall’Ucraina, che insieme abbiamo difeso in questi anni, e di quelle che saremo chiamati ad affrontare in futuro”. Questa proposta, annuncia, l’Italia la farà ai partner “nelle prossime ore”, ovvero al vertice di Londra di domenica 2 marzo e al Consiglio europeo straordinario di Bruxelles giovedì 6. Poi bisognerà dirlo a Trump (che ancora non le ha fissato una data per un bilaterale alla Casa Bianca) e il tycoon non sembra proprio nella disposizione d’animo di mettersi al tavolo con l’Ue “nata – come ha detto – per fregarci”.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli