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La diplomazia parallela di Salvini che fa arrabbiare Meloni (e le crea problemi in Ue)

La diplomazia parallela di Salvini che fa arrabbiare Meloni (e le crea problemi in Ue)Roma, 22 mar. (askanews) – Quando venerdì 21 marzo, intorno alle 12, sull’aereo che portava Giorgia Meloni e il suo staff da Bruxelles a Bologna è stato notato un sibillino post su X (“Giornata interessante”) di Andrea Stroppa, braccio destro di Elon Musk in Italia, qualcuno ha iniziato a farsi qualche domanda. Del resto l’attività sul social di Stroppa è da qualche settimana all’attenzione – preoccupata – di Palazzo Chigi. Un esempio sono i sondaggi contro il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e a favore di Matteo Salvini, che hanno fatto irritare non poco la premier e il suo staff.


Ma insomma, si son chiesti, perché “giornata interessante”? Non ne siamo certi ma la risposta potrebbe essere nella nota inviata dalla Lega alle 16.45 per informare di una telefonata tra Salvini e il vice presidente americano J.D. Vance. Nel colloquio “estremamente cordiale e concreto” si è parlato, tra l’altro, del “totale accordo per arrivare a una pace duratura in Ucraina” e della “eccellenza americana nel campo della connessione satellitare”, ovvero Starlink di Elon Musk. Salvini ha anche “anticipato la volontà di una missione negli Usa con imprese e investitori” e ha invitato Vance alle Olimpiadi Milano-Cortina 2026. A stretto giro Stroppa si è detto “felice” del colloquio in cui “si è parlato di tecnologie americane come i satelliti, tema molto caro all’amministrazione che guarda con attenzione le scelte degli alleati”. Per il collaboratore di Musk “il riconoscimento di Salvini della leadership americana sui satelliti, grazie a Elon Musk, rafforza i rapporti bilaterali tra i due paesi”. A chiudere il cerchio, sempre su X, lo stesso Vance, che sottolinea la “bella telefonata” con l’”amico” vice primo ministro che ringrazia “per il caloroso benvenuto riservato a Usha (la moglie di Vance, ndr) in Italia in occasione delle Olimpiadi Speciali di Torino. Non vedo l’ora di visitare anch’io l’Italia presto!” A Palazzo Chigi, ma anche alla Farnesina, non è piaciuta per niente questa nuova iniziativa di “diplomazia parallela” di Salvini, che ormai da tempo cerca di accreditarsi come principale interlocutore dell’amministrazione americana in Italia, consapevole del fatto che la premier vuole e deve mantenere una linea di equilibrio nel suo rapporto tra Bruxelles e Washington. Per questo – secondo quanto si apprende – da piazza Colonna è partito subito un “richiamo” all’ordine. Stroppa ha quindi scritto un post ‘riparatorio’ in cui elogia il “gioco di squadra” dell’esecutivo e Salvini ha assicurato che sono “restroscena surreali e assurdi” quelli relativi al contrasto con la premier. Ma certo il caso non è chiuso, Antonio Tajani un po’ piccato ricorda che “la linea politica per l’estero la danno il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri” e l’arrabbiatura di Meloni non sbollirà certo in un attimo.


Peraltro l’attivismo di Salvini (proprio mentre lei cerca, al momento senza successo, di fissare un incontro alla Casa Bianca) crea qualche problema a Meloni in Europa, dove il sentiment della maggioranza dei leader è quello di un distacco da Trump e soprattutto da Musk, ritenuto colpevole delle ‘ingerenze’ nella politica del Vecchio Continente, a partire dal suo sostegno all’Afd tedesca. L’atteggiamento di Salvini, sottolinea una fonte europea, da un lato crea “diffidenza” verso tutto il governo italiano e dall’altra fa percepire una leader “indebolita” per le tensioni nella sua maggioranza. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Ue, il successo del “metodo Costa” per aggirare il veto ungherese

Ue, il successo del “metodo Costa” per aggirare il veto unghereseRoma, 22 mar. (askanews) – E’ forse la notizia più importante del Consiglio europeo di Bruxelles del 20 marzo: per la seconda volta in sole due settimane, le posizioni dell’Ue sull’Ucraina sono state decise a Ventisei, con l’Ungheria di Viktor Orbán contraria, messa pateticamente in un angolo a riflettere sulla sua irrilevanza, e sull’inutilità, ormai (almeno in certi ambiti), del suo diritto di veto, che per anni aveva dato a Budapest un peso negoziale assolutamente sproporzionato rispetto all’importanza economica, politica e demografica del Paese.


E’ la soluzione pragmatica e intelligente, eppure finora pressoché mai usata, che ha escogitato il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, dall’alto della sua lunga esperienza precedente come membro del Consiglio europeo negli anni scorsi, in qualità di premier del Portogallo. Costa ha semplicemente considerato che l’impossibilità di pubblicare conclusioni formali del Consiglio europeo in caso di veto da parte di uno Stato membro (a causa della regola dell’unanimità che vige per quasi tutte le decisioni di questa istituzione), poteva essere aggirata con la pubblicazione delle posizioni degli altri Ventisei – una maggioranza schiacciante – in un formato diverso, finora non previsto (un “documento allegato”), ma sostanzialmente equivalente alle conclusioni, e percepito come tale, ovvero come la posizione dell’Ue al suo massimo livello politico. Che questo sia il ragionamento sottostante al “metodo Costa” lo ha spiegato lo stesso presidente del Consiglio europeo (curiosamente mai in inglese, ma in spagnolo e in francese) durante le conferenza stampa al termine dei due vertici Ue del 6 e del 20 marzo, in cui questo metodo è stato applicato con notevole successo proprio alle posizioni Ue sulla questione ucraina.


Tra i Ventisette, aveva detto Costa dopo il vertice del 6 marzo rispondendo a un giornalista in spagnolo “tutti vogliono la pace; la differenza è che 26 paesi credono al percorso per la pace attraverso il rafforzamento delle capacità di difesa dell’Ucraina. L’Ungheria si è isolata da questo consenso, ed è rimasta sola. Un paese isolato – aveva sottolineato – non crea una divisione. I Ventisei continuano uniti, con una posizione comune, e continueranno ad appoggiare l’Ucraina, come abbiamo fatto dal primo giorno, il 24 febbraio 2022” quando cominciò l’invasione russa. Un concetto ribadito dopo il Consiglio europeo di giovedì 20 marzo, sempre in spagnolo: “Come sapete, l’Ungheria ha una posizione diversa rispetto agli altri Ventisei su come sostenere l’Ucraina nel raggiungimento della pace. Dobbiamo rispettare le differenze, ma non possiamo essere bloccati perché l’Ungheria la pensa diversamente dagli altri. Dobbiamo continuare, ed è quello che stiamo facendo. Due settimane fa avevamo adottato delle conclusioni a Ventisei molto chiare sull’Ucraina. Oggi abbiamo seguito lo stesso metodo. È così che riusciamo a restare uniti, ma rispettando le reciproche differenze”. “La nostra Unione – ha aggiunto il presidente del Consiglio europeo rispondendo a un’altra domanda in francese – è composta da Ventisette Stati membri, ventisette nazioni, con storie diverse, culture diverse, tradizioni diverse, visioni del mondo diverse. La diversità non è quindi una novità. La novità – ha rilevato – è che siamo riusciti ad avere una posizione comune, e questa è la storia dell’Unione europea. Tutto è iniziato con sei Stati membri. Siamo già Ventisette, ci stiamo allargando e, con ogni allargamento la sfida diventa sempre più grande. Ma ciò che è molto positivo nella nostra Unione è la capacità di convivere con la diversità”.


“Ho trascorso diversi anni qui al Consiglio europeo, ho vissuto – ha ricordato Costa – delle situazioni diverse: molte volte siamo rimasti bloccati nelle decisioni, ma abbiamo sempre trovato il modo di superare le difficoltà. Oggi abbiamo parlato del Quadro di bilancio pluriennale”. L’ultima volta che è stato approvato, ha ricordato ancora, “siamo stati qui, credo, per cinque giorni e quattro notti, e alla fine abbiamo raggiunto un accordo. Insomma, può succedere, c’è a volte uno Stato membro, o ci sono anche due Stati membri contrari. La cosa più difficile è quando ce ne sono quattordici contro tredici. Ma qui – ha concluso il presidente del Consiglio europeo – la realtà è che ci sono Ventisei Stati membri con una posizione, e un solo paese con un’altra posizione. Dobbiamo rispettarlo nel suo isolamento, ma rimane isolato”. A conferma della volontà di continuare ad applicare ormai sistematicamente il “metodo Costa”, alla vigilia del Consiglio europeo del 20 marzo una fonte diplomatica di uno Stato membro tra i più impegnati a favore dell’Ucraina aveva affermato, rispondendo ad alcuni giornalisti: “Non so se sull’Ucraina finiremo con l’adottare delle conclusioni a Ventisette, ma non sto trattenendo il fiato nell’attesa. L’ultima volta le abbiamo adottate a Ventisei, e non ho visto una grande differenza. Naturalmente sarebbe meglio avere un testo approvato a Ventisette, ma tutti vediamo le conclusioni a Ventisei come le conclusioni del Consiglio europeo, e in termini di impatto sui media e percezione nell’opinione pubblica, che abbiamo monitorato attentamente, non abbiamo visto differenze”, ha spiegato la fonte.


Va ricordato, d’altra parte, che le decisioni del Consiglio europeo sottoposte alla regola dell’unanimità non sono quasi mai di natura legislativa, ma servono prevalentemente a dare un orientamento politico, a “guidare”, “invitare” o “sollecitare” la Commissione e i co-legislatori (le formazioni ministeriali del Consiglio Ue e il Parlamento europeo) affinché presentino, approvino, accelerino o migliorino determinate iniziative legislative. E se per la legislazione è necessaria e imprescindibile l’approvazione formale favorevole, secondo le modalità di voto previste (compresa l’unanimità, richiesta in certi ambiti come la politica estera o la politica fiscale), non è così per gli orientamenti politici, in cui la posizione di una nettissima maggioranza di paesi è sufficiente, e il dissenso di un solo, piccolo Stato membro non ha conseguenze reali. D’altra parte, pochi lo hanno notato, ma il linguaggio della dichiarazione a 26 nel “documento allegato” alle conclusioni è del tutto identico a quello che sarebbe stato usato se le conclusioni formali fossero state sostenute all’unanimità: i soggetti sono infatti il Consiglio europeo e l’Unione europea, e non “i Ventisei”. E’, ad esempio, “il Consiglio europeo” che riafferma il suo sostegno all’Ucraina, ed è “l’Unione europea” che mantiene il suo approccio per “la pace attraverso la forza”, che resta impegnata a fornire ulteriore supporto a Kiev, e che rimane pronta ad aumentare la pressione sulla Russia. Anche se l’Ungheria, che partecipa al Consiglio europeo ed è uno Stato membro dell’Unione europea, non è affatto d’accordo. Tutti si aspettano, comunque, che Budapest tornerà invece a far pesare il suo diritto di veto quando si tratterà di rinnovare le sanzioni contro la Russia, a giugno, con una decisione dei ministri degli Esteri che ha carattere legislativo e che richiede l’unanimità. Sempre che nel frattempo non si sia riusciti davvero a trovare un buon accordo, “giusto e durevole” per il cessate il fuoco in Ucraina, nel qual caso le sanzioni europee sarebbero oggetto del negoziato e finirebbero probabilmente per essere ritirate. Un’ultima annotazione. Giorgia Meloni, che si era sempre impegnata (rivendicandolo) al dialogo con Orban per raggiungere una mediazione, non ha aperto bocca di fronte alla tattica di Costa. Evidentemente il feeling tra l’ungherese e Matteo Salvini – entrambi Patriots – ha fatto raffreddare di molto i loro rapporti. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Ue, il rebranding del piano “ReArm Europe” di Ursula von der Leyen

Ue, il rebranding del piano “ReArm Europe” di Ursula von der LeyenRoma, 22 mar. (askanews) – La Commissione europea probabilmente eviterà di usare, d’ora in avanti, il roboante nome “ReArm Europe” per designare il suo piano di rafforzamento delle capacità di difesa e, più in generale, della sicurezza degli Stati membri, per non urtare la sensibilità di alcuni governi e delle loro opinioni pubbliche, in particolare in Italia e Spagna, che non considerano appropriato il linguaggio bellico e l’evocazione di un “riarmo” come se l’Europa si stesse inevitabilmente avviando alla guerra.


Due nomi alternativi esistono già: innanzitutto è stato chiamato “Safe” (“sicuro”) il nuovo strumento proposto per finanziare, con emissioni di debito europeo fino a 150 miliardi di euro, i prestiti che richiederanno gli Stati membri per investimenti nella difesa, possibilmente con acquisti congiunti; in secondo luogo, è sempre più usato “Readiness 2030” (prontezza per il 2030) come nome del piano complessivo, alternativo quindi a “ReArm Europe”. Bisogna dire però che anche in questo caso si rischia di evocare minacce e paure, perché il nome implica un sibillino avvertimento: come se fra cinque anni, dovesse comunque accadere qualcosa di drammatico per cui è necessario prepararsi (fonti dell’Intelligence tedesca hanno ipotizzato un possibile attacco russo alla Nato proprio per quella data). “Re-Arm Europe” sembrava inizialmente, e probabilmente questa era l’intenzione, l’unico nome per indicare i piani della Commissione, quando furono presentati per la prima volta, a grandi linee, da Ursula von der Leyen il 4 marzo scorso, alla vigilia del Consiglio europeo straordinario del 6 marzo, dedicato proprio alla difesa e all’Ucraina.


Il nome, più rassicurante, del nuovo strumento finanziario da 150 miliardi per gli acquisti congiunti, mai menzionato prima, è arrivato a sorpresa domenica 9 marzo, quando von der Leyen ne ha parlato alla sua conferenza stampa in occasione dei primi 100 giorni dall’inizio del suo secondo mandato alla presidenza della Commissione europea. “Lo chiameremo ‘Safe’, da ‘Security Action for Europe’”, ha annunciato von der Leyen. L’altro nuovo nome, “Prontezza per il 2030”, è apparso invece per la prima volta con il “Libro bianco sulla difesa” che la Commissione ha presentato alla vigilia del Consiglio europeo di giovedì 20 marzo. Il malumore nei confronti del concetto di riarmo è stato espresso più volte pubblicamente, nelle ultime due settimane, dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dal primo ministro spagnolo Pedro Sánchez. “La Spagna e l’Italia non si sentono a loro agio con il nome del piano “ReArm Europe”, e con il linguaggio evocativo della guerra che lo motiva. La Commissione europea è consapevole di questo disagio? Sta pensando di fare qualcosa per rassicurare Spagna e Italia?” La domanda è stata rivolta da un giornalista spagnolo a von der Leyen, durante la conferenza stampa al termine del Consiglio europeo del 20 marzo.


“La base della discussione tra i leader – ha risposto von der Leyen – è stata la presentazione del Libro bianco sulla difesa. E il Libro bianco ha un nome che dice tutto, ovvero ‘Prontezza per il 2030’. Ma l’ambito è più ampio, se si guarda a cosa finanziamo con lo strumento ‘Safe’ e con la clausola di sospensione nazionale” del Patto di stabilità, che sarà attivata per gli investimenti degli Stati membri nella difesa. Gli investimenti che saranno finanziati con questi due strumenti, ha spiegato la presidente della Commissione, riguardano, ad esempio, “priorità come le infrastrutture, la mobilità militare, oltre che le lacune di capacità, dai missili ai droni, all’artiglieria e altri elementi. E c’è, ovviamente, anche la moderna guerra elettronica, è incluso anche l’elemento informatico, e l’intero elemento della comunicazione, ad esempio. Quindi è un ambito molto più ampio” rispetto a quello strettamente militare.


“L’approccio che stiamo adottando – ha continuato von der Leyen – sta quindi nel nome ‘Prontezza 2030’. In realtà, la prossima settimana il collegio dei commissari europei si occuperà della strategia di preparazione, che mostra il secondo pilastro della prontezza per il 2030: mira a essere preparati per potenziali crisi, tra cui, ad esempio, anche disastri naturali e altre crisi che dobbiamo gestire. Quindi, in effetti, abbiamo iniziato con un ambito relativamente ristretto. Ma ora il concetto si è allargato, è maturato”, ha concluso la presidente della Commissione”. Il giorno dopo, la portavoce capo della Commissione, Paula Piño, ha risposto a un altro giornalista che chiedeva se sarà abbandonato ufficialmente il nome “ReArm Europe” e sostituito da “Readiness 2030”, durante il briefing quotidiano per la stampa di Bruxelles. “Il nuovo nome – ha risposto la portavoce – va visto in un contesto più ampio. Racchiude meglio la portata più ampia del piano. ‘ReArm’ si riferiva agli strumenti finanziari che potrebbero sostenere il pacchetto di difesa. Mentre quando parliamo di ‘Readiness 2030’ riguarda davvero tutto, tutte le misure necessarie in termini di capacità e tutte le misure che saranno messe in atto entro il 2030 per rafforzare l’industria della difesa, gli investimenti nella difesa, quindi davvero più onnicomprensivi e più ampi. La presidente ha detto ieri che in effetti abbiamo iniziato con un nome e un concetto ristretti, più ristretti con ‘ReArm’, e ora stiamo esaminando anche ciò che è necessario oltre le misure finanziarie”. “Preferiamo in effetti – ha continuato Paula Piño – riferirci a ‘Safe’ per lo strumento finanziario. E siamo coscienti del fatto che il nome ‘ReArm’ in quanto tale potrebbe urtare alcune sensibilità in alcuni Stati membri. Quindi, ovviamente, siamo in ascolto. E se questo rendesse più difficile anche convogliare il messaggio a tutti i cittadini dell’Ue sulla necessità di adottare queste misure, allora – ha concluso la portavoce – siamo pronti non solo ad ascoltare, ma anche a riflettere sul modo in cui comunichiamo questo messaggio”. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Per Meloni Commissione Ue ha più poteri del presidente Usa, è davvero così?

Per Meloni Commissione Ue ha più poteri del presidente Usa, è davvero così?Roma, 22 mar. (askanews) – “Io penso, ma è uno studio che adesso devo ancora fare, che se andassimo a fare una verifica ci accorgeremmo che le competenze che ha la Commissione Europea sono maggiori di quelle che ha il Presidente degli Stati Uniti d’America, che ha otto competenze di massima”. Queste le parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni pronunciate il 18 marzo nell’Aula del Senato, nella replica al dibattito sulle sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo. Una premessa fatta per dire di non essere “d’accordo sulla maggiore cessione di sovranità” all’Unione europea, “noi continuiamo a pensare che l’Europa debba occuparsi di meno materie e di quelle delle quali gli stati nazionali non possono occuparsi da soli”.


Ma davvero la Commissione ha più ‘competenze’ del presidente degli Stati Uniti, riconosciuto come una delle persone più potenti al mondo? Per verificarlo abbiamo messo a confronto il Trattato sul funzionamento dell’Ue (TFUE) e la Costituzione americana. Secondo l’Articolo 3 del Trattato l’Unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori: unione doganale; definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro; conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; politica commerciale comune. Ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali “allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata”.


Ci sono poi dei settori in cui l’Unione e gli Stati membri hanno una “competenza concorrente” (articolo 4), nel senso che in principio possono entrambi adottare atti giuridicamente vincolanti, ma se lo fa l’Ue non possono farlo gli Stati a livello nazionale. I settori in questione sono: mercato interno; politica sociale (limitatamente a determinati aspetti definiti nel trattato stesso); coesione economica, sociale e territoriale (politiche regionali); agricoltura e pesca (tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare, di competenza Ue esclusiva); ambiente; protezione dei consumatori; trasporti; reti transeuropee; energia; spazio di libertà, sicurezza e giustizia; problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica”. Infine (articolo 6) l’Unione può solo “svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri” in ulteriori settori che sono di competenza nazionale esclusiva: tutela e miglioramento della salute umana; industria; cultura; turismo; istruzione, formazione professionale, gioventù e sport; protezione civile; cooperazione amministrativa.


Per quanto riguarda i poteri del presidente Usa, la Costituzione è piuttosto scarna e all’aspetto formale va affiancata una lettura “materiale” della Carta. L’articolo 2 riconosce al presidente la carica di “Comandante in capo dell’Esercito e della Marina degli Stati Uniti, e della Milizia dei diversi Stati quando chiamata al servizio attivo degli Stati Uniti” e dispone che sia investito “del potere esecutivo”. Ha il potere di negoziare e stipulare trattati internazionali. Inoltre “con il parere ed il consenso del Senato nominerà gli Ambasciatori, gli altri Rappresentanti pubblici ed i Consoli, i Giudici della Corte Suprema e tutti gli altri funzionari degli Stati Uniti la cui nomina non sia qui altrimenti disciplinata”. Al presidente è riconosciuto poi (articolo 1) un potere di veto sulle proposte legislative delle Camere del Congresso dato che “ogni progetto di legge che sia stato approvato dalla Camera dei Rappresentanti e dal Senato dovrà, prima di diventare legge, essere presentato al Presidente degli Stati Uniti”. In caso di mancata firma il testo sarà rimandato indietro con le modifiche ritenute necessarie e dovrà essere riesaminato e votato a maggioranza dei due terzi. Per quanto riguarda il potere legislativo, per legge è affidato al parlamento, ma l’Articolo 1 stabilisce la necessità che il presidente dia “al Congresso una Informativa sullo stato dell’Unione” raccomandando “alla considerazione

Migranti, come dovrà cambiare il Protocollo Italia-Albania

Migranti, come dovrà cambiare il Protocollo Italia-AlbaniaRoma, 14 mar. (askanews) – La Commissione europea ha presentato, l’11 marzo a Strasburgo, la sua attesa proposta di regolamento che mira a istituire un sistema comune per i rimpatri dei migranti irregolari che non hanno ottenuto un permesso d’asilo in uno Stato membro, e che quindi sono “soggiornanti illegalmente” nell’Ue.


La proposta include esplicitamente la possibilità di trasferire in “centri di rimpatrio” (“return hubs”) in paesi extra Ue questi migranti che si trovano in situazione illegale in uno Stato membro. Ma, come ha precisato in conferenza stampa a Strasburgo il commissario all’Immigrazione e Affari interni, Magnus Brunner, si tratta di una “nuova possibilità” che è “completamente diversa” sia dal “modello Ruanda”, che il governo britannico non è mai riuscito ad applicare per deportare i migranti irregolari nel paese africano, sia dal “modello Albania” che l’Italia ha tentato finora di applicare con poco successo e che “era destinato solo a richiedenti asilo”, mentre questa “soluzione innovativa” proposta dalla Commissione “si applica ai migranti a cui è stato rifiutato l’asilo o che hanno già avuto un ordine di espulsione”, ha puntualizzato Brunner. Comunque, ha aggiunto il commissario, “gli Stati membri ora potranno esplorare se è possibile o no negoziare accordi con certi paesi terzi” per stabilire eventuali “centri di rimpatrio” sul loro territorio, implicando che questo potrà farlo anche l’Italia con l’Albania, se modificherà il Protocollo tra i due paesi alle condizioni previste dal regolamento, una volta che sarà stato approvato dai co-legislatori europei.


Il 13 marzo, durante il briefing quotidiano per la stampa, il portavoce per la Giustizia e gli Affari interni della Commissione europea Markus Lammert ha fornito ulteriori precisazioni in risposta alle domande dei giornalisti: “Innanzitutto sugli hub di rimpatrio in generale, quello che stiamo facendo è creare lo spazio per gli Stati membri per esplorare nuove soluzioni per il rimpatrio di persone che non hanno diritto a rimanere nell’Ue. Ciò significa che creiamo il quadro giuridico e che stiamo definendo le condizioni minime per la creazione di centri di questo tipo. Dovranno essere limitati – ha detto il portavoce – alle persone che sono state soggette a decisioni di rimpatrio esecutive, ovvero che hanno già completato (negativamente, ndr) l’intero processo ed esaurito tutti i ricorsi” della procedura d’asilo, “e che non hanno alcun diritto legale a rimanere ancora nell’Ue”. Gli hub di rimpatrio “si baserebbero su un’intesa o un accordo internazionale dettagliato. E questo può accadere solo con paesi terzi che rispettino le norme internazionali sui diritti umani, incluso il principio di non respingimento”. Inoltre, ha continuato Lammert, “dovrebbe essere istituito anche un organismo o un meccanismo indipendente per monitorare l’applicazione dell’accordo o dell’intesa”. “L’accordo – ha aggiunto il portavoce – dovrà includere anche altre cose: le condizioni per rimanere nel centro rimpatri e cosa accadrà in seguito; che cosa accadrà in caso di violazioni dell’accordo; e l’esclusione dei minori non accompagnati e di famiglie con bambini”, che non potranno essere inviati negli hub. Quindi, “il regolamento prevede un organismo o meccanismo indipendente per monitorare l’applicazione dell’accordo o dell’intesa; ma non specifichiamo chi gestirà questo organismo. Specifichiamo che è una condizione, una precondizione per la conclusione di un accordo o di un’intesa” per la creazione degli hub di rimpatrio. Alla domanda se la Commissione fornirà ulteriori raccomandazioni su come uno Stato membro debba costituire l’organismo indipendente, il portavoce ha risposto: “Non ci sono ulteriori specificazioni rispetto a quelle contenute nel regolamento. Ma quello che posso dire è che qualsiasi accordo sarà ovviamente sottoposto al vaglio dei tribunali nazionali ed europei”, compresi dunque la Corte europea di Giustizia e la Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo. In ogni caso, ha precisato Lammert, “la Commissione dovrà essere consultata prima della conclusione” degli accordi. “E naturalmente, la Commissione ha un ruolo di guardiana del Trattato Ue”.


Il considerando 23 della proposta di regolamento stabilisce in particolare che “l’accordo o l’intesa dovrebbe stabilire le modalità di trasferimento” dei migranti, “le condizioni di soggiorno nel paese” in cui si trova il centro di rimpatrio, “le modalità in caso di rimpatrio successivo nel paese di origine, le conseguenze in caso di violazioni o di cambiamenti significativi che incidono negativamente sulla situazione nel paese terzo” e infine “un organismo o meccanismo di monitoraggio indipendente per valutare l’attuazione dell’accordo o dell’intesa. Tali accordi o intese costituiranno un’attuazione del diritto dell’Unione ai fini dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta” dei diritti fondamentali. Quest’ultimo elemento è importante perché conferma senza ombra di dubbio che il diritto comunitario, e il diritto nazionale derivato dal diritto comunitario, dovranno applicarsi agli accordi con i paesi terzi che ospiteranno gli hub di rimpatrio, anche se, ovviamente, il diritto comunitario non si applica sul loro territorio. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Effetto Trump (e Ue) su politica italiana, destra divisa e sinistra frantumata

Effetto Trump (e Ue) su politica italiana, destra divisa e sinistra frantumataRoma, 14 mar. (askanews) – Le iniziative di Donald Trump e la risposta dell’Europa, a partire dal ReArm Europe, hanno terremotato la politica italiana, mostrando le divisioni della maggioranza, ma soprattutto frantumando l’opposizione.


Per quanto riguarda il centrodestra al governo, il voto del 12 marzo all’Europarlamento sulla risoluzione (non vincolante) sul progetto di difesa unica europea ha certificato che ci sono almeno due linee diverse. A favore si sono espressi tutti i deputati presenti di Fdi-Ecr (22 su 24) e gli eurodeputati italiani presenti del Ppe (otto su nove, sette di Fi e uno della Svp). Quelli della Lega (7 su 8) hanno votato tutti contro, insieme al gruppo dei Patrioti per l’Europa. Non è certo una notizia: ormai da settimane Matteo Salvini, vestiti i panni dell’ultra-trumpiano, spara ad alzo zero contro Ursula von der Leyen e il suo “ReArm”. Da ultimo per Meloni è stato un dito in un occhio il Consiglio federale del Carroccio convocato il 13 in concomitanza del Consiglio dei ministri. Al termine la Lega ha diffuso una nota in cui – tra l’altro – ribadisce che “l’Europa non ha bisogno di ulteriori debiti, di riarmo nucleare o di ulteriori cessioni di sovranità bensì di sostegno a famiglie, sanità e lavoro”. A margine della seduta del Cdm, la premier avrebbe avuto una discussione (“accesa” secondo alcuni, “franca” secondo altri più diplomatici) con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Palazzo Chigi e il Mef, congiuntamente, hanno smentito che ci siano “contrasti” assicurando che i due lavorano in “piena sintonia e con la massima condivisione sui vari dossier aperti, inclusa la difesa europea”. La tensione, però, è palpabile e destinata a salire da qui a martedì, quando Meloni è attesa in Senato per le consuete comunicazioni in vista del Consiglio europeo. In queste ore sono in corso continue consultazioni per arrivare a una risoluzione unitaria che sia “digeribile” da tutti. Perché sia così, nel suo intervento, la premier dovrà fare esercizio di equilibrismo: volerà alto, viene spiegato, ribadirà la critica al nome scelto “ReArm”, confermerà che le maggiori spese in difesa non andranno a scapito di sanità e servizi, ripeterà il suo “no” all’eventuale invio di truppe europee in Ucraina, si soffermerà sulle divisioni delle opposizioni. E quelle certo non mancano. A partire dal Pd. A Strasburgo la delegazione Dem, la più grande del gruppo S&D, si è letteralmente spaccata in due e la segretaria Elly Schlein, è riuscita a limitare i danni solo grazie al ‘soccorso’ degli indipendenti, superando di un voto la pattuglia ‘riformista’ guidata dal presidente (suo sfidante alle primarie) Stefano Bonaccini. Contro la linea di Schlein hanno votato a favore lo stesso Bonaccini, Decaro, Giorgio Gori, Gualmini, Lupo, Maran, Moretti, Picierno, Tinagli e Topo. Si sono astenuti invece Benifei, Corrado, Laureti, Nardella, Ricci, Ruotolo, Strada, Tarquinio, Zan, Zingaretti e Lucia Annunziata. Il piano ‘Rearm Eu’ va cambiato perché “all’Europa serve la difesa comune, non la corsa al riarmo dei singoli Stati. La posizione del Pd è e resta questa”, ha dichiarato la segretaria dopo il voto, non senza irritazione. Schlein sa che questa è la prima vera crisi da quando guida il Pd e che intorno alla sua leadership si aprono giochi difficili da gestire. Mentre qualcuno inizia a pronunciare la parola “congresso”, è lei stessa a chiedere un “chiarimento politico”, consapevole che il rischio maggiore è quello di farsi logorare, dall’interno, ma anche dall’esterno, dagli alleati o presunti tali.


Tra questi, l’Alleanza Verdi e Sinistra è contraria all’aumento delle spese per la difesa, ma è soprattutto il Movimento 5 Stelle ad approfittare delle difficoltà Dem. Nel giorno del voto il leader Giuseppe Conte e i parlamentari hanno manifestato di fronte all’Europarlamento e l’ex premier non esita ad attaccare Schlein: “L’astensione è la cosa più incomprensibile. Non è ammissibile in un momento così cruciale. Abbiamo visto un Pd che si è diviso, un partito in grande difficoltà”. “Viviamo una situazione strana, a livello internazionale e nazionale – commenta un parlamentare di lungo corso che vuol restare anonimo -. Trump sta terremotando il mondo, ogni giorno ci sono novità che destabilizzano il quadro e in Italia ormai ogni partito gioca per sé. Poi in generale il centrodestra al momento opportuno riesce a compattarsi, la sinistra si disgrega e questa è un’assicurazione per Meloni. Ma è una situazione così fluida e in qualche modo inedita che può succedere di tutto”.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Ue, Commissione pronta a semplificazione per imprese ma burocratica su tutela consumatori

Ue, Commissione pronta a semplificazione per imprese ma burocratica su tutela consumatoriRoma, 14 mar. (askanews) – Questa Commissione europea appare molto determinata a facilitare la vita e la competitività delle imprese con una serie di misure di semplificazione burocratica e normativa della legislazione esistente, che a volte diventa vera e propria deregolamentazione, ma non sembra avere altrettanto a cuore gli interessi dei consumatori e la loro libertà di scelta informata, basata sulla trasparenza. E’ quanto sembra indicare una recente decisione di Bruxelles contro una norma italiana chiaramente intesa a tutelare, appunto, i consumatori e la trasparenza delle pratiche commerciali, che dimostra una sorprendente rigidità burocratica.


Il 12 marzo scorso, la Commissione ha inviato una notifica di messa in mora all’Italia, prima tappa della procedura di infrazione comunitaria, accusandola di aver violato le regole del mercato unico per avere “introdotto l’obbligo di apporre sui prodotti di consumo un’indicazione specifica che informi che la quantità del prodotto è stata ridotta mentre la confezione è rimasta invariata, il che ha portato a un aumento del prezzo unitario”, come spiega una nota dell’Esecutivo comunitario. L’infrazione riguarda in particolare gli articoli da 34 a 36 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, che vietano le restrizioni alle importazioni ed esportazioni tra gli Stati membri e le misure equivalenti. “Sebbene la Commissione riconosca l’importanza di informare i consumatori di questo tipo di modifiche, richiedere che tali informazioni siano visualizzate direttamente su ciascun prodotto interessato non sembra proporzionato. I requisiti nazionali di etichettatura costituiscono un importante ostacolo al mercato interno e compromettono seriamente la libera circolazione delle merci”, spiega ancora la Commissione, ritenendo che “le autorità italiane non abbiano fornito prove sufficienti in merito alla proporzionalità della misura, in quanto sono disponibili altre opzioni meno restrittive (ad esempio, l’esposizione delle stesse informazioni vicino ai prodotti interessati)” negli scaffali dei negozi e supermercati, come avviene in Francia.


Secondo l’Esecutivo comunitario, inoltre, l’Italia avrebbe violato anche la direttiva Ue 2015/1535 sulla trasparenza del mercato unico, “poiché la misura è stata adottata durante il periodo di attesa successivo alla notifica da parte dell’Italia del disegno di legge e senza considerare il parere dettagliato emesso dalla Commissione”. Questo periodo di attesa (“standstill period”) è previsto dalla procedura di notifica “Tris”, che mira a prevenire l’avvio delle procedure d’infrazione, attraverso un dialogo preliminare tra la Commissione e lo Stato membro interessato. La misura italiana in questione fa parte del “Disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2023”, articolo 21, intitolato “Misure di contrasto alle prassi commerciali di riporzionamento dei prodotti preconfezionati”. L’articolo stabilisce: “I produttori che mettono in vendita, anche per il tramite dei distributori operanti in Italia, un prodotto di consumo che, pur mantenendo inalterato il precedente confezionamento, ha subito una riduzione della quantità nominale e un correlato aumento del prezzo per unità di misura, informano il consumatore dell’avvenuta riduzione della quantità e dell’aumento del prezzo in termini percentuali, tramite l’apposizione nella confezione di vendita di una specifica etichetta con apposita evidenziazione grafica”. Inoltre, si precisa che l’obbligo di informazione “si applica per un periodo di sei mesi a decorrere dalla data in cui il prodotto è esposto nella sua quantità ridotta”.


Come spiega il Ministero delle Imprese e del Made in Italy nella sua notifica alla Commissione del 7 ottobre 2024, la misura italiana è stata adottata “al fine di regolamentare il fenomeno della cosiddetta ‘Shrinkflation’, ovvero la pratica dei produttori di ridurre la quantità di prodotto all’interno della confezione, mantenendo sostanzialmente invariato il prezzo o addirittura aumentandolo, con la conseguenza di disorientare i consumatori che si trovano di fronte a un aumento di prezzo in modo non trasparente”. Sono motivazioni che appaiono tutt’altro che peregrine e infondate, ma a Bruxelles non sono bastate. L’Italia ha ora due mesi per rispondere alla Commissione, che in caso di risposta insoddisfacente potrebbe inviare un “parere motivato”, secondo passo nella procedura di infrazione, che prelude al ricorso in Corte europea di giustizia, se anche in questo caso l’Esecutivo comunitario giudicasse inadeguate le contro argomentazioni del governo.


Sarebbe un pessimo segnale agli operatori commerciali, che verrebbero premiati per un comportamento volutamente ingannevole, e ai consumatori, a cui verrebbe impedito di vedere i loro diritti tutelati da una legge nazionale. Bisogna precisare che la Commissione ha piena discrezionalità nelle sue decisioni sul controllo dell’attuazione della legislazione comunitaria. In altre parole, non era affatto obbligata ad aprire questa procedura d’infrazione, e potrebbe benissimo scegliere di non portarla avanti, se considerasse con più flessibilità che la misura italiana non mira affatto a restringere od ostacolare le importazioni di prodotti provenienti da altri Stati membri, ma solo a evitare un aumento dei prezzi occulti. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Ue, sala conferenze stampa Italia inutilizzata, rischia “esproprio”?

Ue, sala conferenze stampa Italia inutilizzata, rischia “esproprio”?Roma, 8 mar. (askanews) – C’è una sala, nell’Europa Building, che resta sempre desolatamente vuota. E’ la sala dell’Italia, quella in cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni potrebbe tenere le sue conferenze stampa a margine dei summit europei. Uno spazio di ampie dimensioni, con sedie, tavoli e prese elettriche. Perfetto per lavorare, insomma. Ma fino a questo momento Meloni l’ha usata solo una volta: il 10 febbraio 2023. In quell’occasione tenne la conferenza nella sala all’indomani della chiusura dei lavori e non il giorno stesso. Provocando, si racconta, qualche malumore nei funzionari del Consiglio europeo che dovettero rientrare al lavoro per allestire la stanza.


Da allora la porta della sala è rimasta sempre chiusa. Al più la premier si ferma per un “doorstep” (ma questo non è accaduto negli ultimi due summit su tre) nel cosiddetto passaggio alla Lanterna, con giornalisti e operatori accalcati in quella che in gergo viene chiamata “tonnara”, senza possibilità di prendere appunti e con poche chance di porre domande. Il bello è che per ottenere quella sala il governo italiano (all’epoca presieduto da Giuseppe Conte) aveva lottato. Sono solo tre, infatti, le grandi sale per conferenze stampa disponibili nel palazzo. Prima erano assegnate ai “big” Francia, Germania e Regno Unito. Dopo la Brexit il governo italiano aveva chiesto per sé quello spazio, che è considerato anche un segno di “status”. Una volta ottenuto, era stato inizialmente utilizzato ben poco a causa del Covid. Mario Draghi, invece, usava la sala regolarmente, come del resto fanno ancora oggi nei rispettivi spazi il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz che ben di rado saltano un appuntamento con la stampa seduta e in grado di lavorare adeguatamente.


Visto lo stato di disuso della sala italiana, al Consiglio europeo qualcuno inizia a chiedersi se non sia possibile lasciarla libera, magari mettendola a disposizione di qualche altro Paese membro di primo piano (la Spagna?) che oggi deve utilizzare spazi ben più piccoli. Al momento, secondo quanto si apprende, una richiesta del genere non è stata ancora avanzata, ma se la situazione non cambiasse – è il mood che si percepisce nei corridoi dell’Europa Building (il palazzo del Consiglio, non la newsletter, ndr) – potrebbe arrivare il momento dell’”esproprio”. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Arriva il “vero” modello Ue dei centri di rimpatrio nei paesi terzi

Arriva il “vero” modello Ue dei centri di rimpatrio nei paesi terziRoma, 8 mar. (askanews) – Martedì 11 marzo, a Strasburgo, la Commissione europea presenterà la sua attesa proposta legislativa sul rimpatrio dei migranti irregolari a cui è stata rifiutata la domanda di asilo in uno Stato membro dell’Ue. Lo ha confermato il 5 marzo scorso a Bruxelles il Commissario per gli Affari interni e le Migrazioni, Magnus Brunner, durante la conferenza stampa al termine di una riunione del Consiglio Giustizia dell’Ue.


Brunner ha aggiunto, ed è qui la notizia, che la Commissione presenterà presto, sebbene non ancora martedì ma comunque prima di giugno, anche la lista europea dei “paesi di origine sicuri” e la revisione dei criteri per la definizione dei “paesi terzi sicuri”, affinché possano esservi inviati i migranti in attesa di rimpatrio. Questa revisione del concetto di “paese terzo sicuro”, con la proposta, “se del caso, di eventuali modifiche mirate”, è prevista dal nuovo regolamento Ue sulla procedura d’asilo, che fa parte Patto sull’immigrazione approvato nel maggio 2024 e che entrerà in vigore dal giugno 2026, con una precisa scadenza “entro il 12 giugno 2025”. A quanto riferiscono altre fonti comunitarie, la proposta potrebbe arrivare già durante il mese di marzo.


Non si sa ancora, invece, quando sarà presentata la nuova lista che elencherà uno per uno i “paesi terzi sicuri”, sulla base dei nuovi criteri. Al contrario degli altri due casi menzionati, per la pubblicazione di quest’ultima lista la legislazione Ue in vigore non prevede alcuna scadenza, hanno puntualizzato le fonti. Riguardo al testo legislativo sui rimpatri che sarà presentato martedì, è pressoché certo che si tratterà di una proposta di regolamento invece che di una proposta di direttiva. La differenza sta nel fatto che il regolamento è applicabile direttamente e immediatamente negli Stati membri, mentre la direttiva deve essere recepita nell’ordinamento giuridico nazionale di ogni paese Ue con una legge specifica che garantisca il rispetto degli obiettivi indicati.


La legislazione sui rimpatri attualmente in vigore è basata su una direttiva del 2008, che si era cercato di aggiornare e modificare in modo mirato con un’altra proposta di direttiva presentata dalla Commissione nel 2018, per rispondere ai numerosi problemi che si sono verificati riguardo alla sua attuazione poco efficace, sia a causa di lacune nel testo, sia perché gli Stati membri non sempre l’hanno recepita correttamente (Belgio, Germania, Spagna e Grecia sono state oggetto di procedure comunitarie d’infrazione per questo), oppure l’hanno applicata un modo incoerente e non coordinato. Questa considerazione vale, in particolare per quanto riguarda quali cittadini, di quali paesi terzi debbano essere rimpatriati, le modalità di rimpatrio, il riconoscimento reciproco delle decisioni sulle domande d’asilo prese da ciascuna giurisdizione nazionale (ciò che consente il fenomeno dei “movimento secondari” dei migranti all’interno dell’Ue, con il tentativo di ripresentare in altri paesi la domanda d’asilo già respinta nel paese di primo arrivo). Inoltre, i dati mostrano che solo un migrante su quattro (o in certi anni su cinque) di quelli a cui è stata respinta la domanda d’asilo sono poi effettivamente rimpatriati; gli altri, restano sul territorio dell’Ue, spesso in condizioni di illegalità e di estrema precarietà.


La proposta di modifica del 2018, che prevedeva una “rifusione” della direttiva rimpatri, è rimasta bloccata dal giugno 2019 nei negoziati legislativi in Parlamento europeo. Inoltre, il Patto sull’immigrazione e l’asilo adottato a maggio 2024, ha introdotto una nuova procedura di “rimpatrio alla frontiera”, applicabile ai cittadini di paesi terzi a cui è stata respinta la domanda di asilo, e l’obbligo per gli Stati membri di emettere una decisione “comune o congiunta” per il rigetto di una domanda di asilo e il rimpatrio. Il Consiglio europeo, nelle sue conclusioni dell’ottobre 2024, ha chiesto alla Commissione di sottoporre urgentemente una nuova proposta legislativa. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha risposto con l’annuncio del ritiro del testo del 2018, e della presentazione di un “nuovo approccio” sui rimpatri, previsto per il mese di marzo 2025. La nuova proposta di regolamento che sarà presentata l’11 marzo dovrebbe finalmente esplicitare le cosiddette “soluzioni innovative” di cui si parla ormai da un paio d’anni nel dibattito politico europeo sull’immigrazione, chiarendo il concetto e stabilendo la definizione dei “centri di rimpatri” (“return hubs”) in paesi terzi, nei quali poter inviare i migranti irregolari a cui è stata respinta la domanda di protezione internazionale. E c’è da aspettarsi che non mancheranno le polemiche su questa “esternalizzazione” della gestione dei migranti irregolari e sulla loro “deportazione” al di fuori dell’Ue. “Non è accettabile che oggi nei paesi Ue solo uno su cinque migranti irregolari che dovrebbero essere rimpatriati lo siano poi effettivamente. In termini generali – ha affermato Brunner – quando a delle persone che non hanno il diritto di rimanere si permette di restare nell’Ue, l’intero sistema dell’asilo viene minato. Bisogna agire secondo le regole, altrimenti – ha avvertito – si rischia anche di erodere il sostegno pubblico per una società aperta e tollerante”. Il commissario ha poi anticipato che il nuovo regolamento sui rimpatri imporrà tra l’altro, obblighi precisi di cooperazione con le autorità competenti ai migranti in attesa di rimpatrio, con “conseguenze” previste nel caso in cui non rispettino questi obblighi; vi saranno poi regole più rigorose per le persone che rappresentano rischi per la sicurezza, una semplificazione delle procedure per i rimpatri, e infine un rafforzamento del riconoscimento reciproco tra i paesi Ue delle decisioni prese riguardo alle domande d’asilo. Infine, una considerazione sul protocollo Italia-Albania. E’ chiaro che non si tratta affatto di un “modello” precursore per la nuova legislazione Ue, ma di un caso fondamentalmente diverso di esternalizzazione, riguardante l’elaborazione extraterritoriale delle domande di asilo. Nei centri in Albania dovevano essere trasferiti i migranti irregolari adulti salvati in mare, fuori dalle acque territoriali italiane, per esaminare le loro richieste di asilo. Tuttavia, a causa di ripetute contestazioni nei tribunali italiani, il Protocollo non è mai stato attuato davvero. A differenza dei centri istituiti dal Protocollo in Albania, gli “hub di rimpatrio” definiti e previsti dalla nuova proposta della Commissione dovrebbero ospitare cittadini di paesi terzi che hanno già subito una decisione di rigetto della richiesta d’asilo e sono quindi in attesa di rimpatrio. Ma nulla vieta, ovviamente, di modificare il Protocollo e adattarlo al nuovo “modello europeo” che sarà presentato l’11 marzo a Strasburgo. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Ucraina, Italia a vertice militare “volenterosi” (ma solo da osservatore)

Ucraina, Italia a vertice militare “volenterosi” (ma solo da osservatore)Roma, 8 mar. (askanews) – Non sganciarsi dal treno dei “volenterosi” organizzato da Emmanuel Macron e Keir Starmer ma senza al momento impegnarsi direttamente. E’ questa – secondo quanto si apprende – la posizione ‘attendista’ decisa dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in vista della riunione convocata a Parigi il prossimo 11 marzo. Ad annunciare l’incontro, a margine del Consiglio europeo straordinario del 6 marzo, è stato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.


Si tratta di una riunione a livello di vertici militari ma che segna un cambio di passo: dopo le dichiarazioni di principio dei leader, si entra nel vivo nell’organizzazione di una forza europea che potrebbe essere schierata ‘boots on the ground’ in Ucraina per garantire un eventuale cessate il fuoco. Si incontreranno, ha spiegato Zelensky, “i rappresentanti militari dei Paesi che sono pronti a compiere sforzi maggiori per garantire in modo affidabile la sicurezza nel quadro della fine della guerra”. Dunque non l’Italia che, come ha detto più volte la premier, è contraria all’invio di truppe di peace-keeping senza il cappello dell’Onu o quantomeno della Nato. “Sono molto perplessa, la considero una soluzione molto complessa e la meno efficace. Una pace giusta ha bisogno di garanzie di sicurezza certe che stanno sempre nell’alveo della Nato. E ho escluso che possano essere inviati soldati italiani”, ha ripetuto la presidente al summit di Bruxelles.


Del resto Meloni è consapevole che con il “no” annunciato (e sbandierato) della Lega, in Parlamento molto difficilmente potrebbe avere una maggioranza favorevole all’eventuale missione, anche nel caso di qualche ‘aiuto’ da parte di alcune forze di opposizione. Allo stesso tempo, tirarsi fuori completamente dall’iniziativa Macron-Starmer rischierebbe di isolare Roma nell’attuale scenario internazionale. Quindi meglio una soluzione all”italiana’: andiamo sì, ma per osservare. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli