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Pressing Ue sull’Italia per il Mes ma per governo “non ci sono condizioni”

Pressing Ue sull’Italia per il Mes ma per governo “non ci sono condizioni”Roma, 15 feb. (askanews) – Per il governo italiano “non ci sono ancora le condizioni” per approvare il Mes. La ratifica del Meccanismo europeo di stabilità era stata bocciata dalla Camera dei deputati il 21 dicembre 2023, con 72 voti a favore, 184 contrari e 44 astenuti. Tra questi ultimi c’erano i deputati di Forza Italia e Noi moderati, in disaccordo con i colleghi di maggioranza di Fratelli d’Italia e Lega. L’Italia è dunque rimasta l’unico Paese a non aver sottoscritto l’accordo, di fatto bloccandone l’operatività.


Il direttore generale dell’organismo internazionale Pierre Gramegna, all’Eurogruppo dello scorso 20 gennaio, ha di nuovo sottolineato che “l’ambiente geoeconomico si sta deteriorando” e “i rischi derivanti da una perturbazione economica stanno aumentando”, ribadendo che “la ratifica del trattato modificato del Mes sarebbe estremamente utile”. Del resto Giorgia Meloni aveva legato l’ok al nuovo Mes all’approvazione del Patto di stabilità e crescita, in quella che ha sempre definito una “logica a pacchetto”. Dunque anche se la sua idea è sempre quella che consegnò ai microfoni di Bruno Vespa (“Finché io conto qualcosa l’Italia non accederà al Mes lo posso firmare con il sangue”), non ci dovrebbero essere più ostacoli al via libera. E invece no. “Non ci sono ancora quelle condizioni” per l’approvazione, dice il ministro per gli Affari europei Tommaso Foti rispondendo a una domanda di Europa Building-Askanews. Più che di merito, però, le “condizioni” che mancano sembrano quelle politiche: la Lega (da sempre contraria allo strumento) con i Patriots in Europa è sempre più schierata a destra e Matteo Salvini non perde occasione per creare motivi di frizione con Meloni.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

IA, per compiacere J.D. Vance l’Ue contraddice se stessa

IA, per compiacere J.D. Vance l’Ue contraddice se stessaRoma, 15 feb. (askanews) – La Commissione europea ha deciso a sorpresa, nella sua riunione di martedì 11 febbraio a Strasburgo, di ritirare la proposta di direttiva sulla responsabilità civile in caso di danni provocati dall’Intelligenza artificiale (indicata dall’acronimo Aild). La decisione è stata presa nel quadro del nuovo programma di lavoro per il 2025 della Commissione, che è stato presentato il giorno dopo, mercoledì 12 febbraio a Strasburgo, in conferenza stampa, sempre a Strasburgo, insieme a una comunicazione sul nuovo piano di ‘semplificazione’ delle normative comunitarie, per ridurre gli oneri burocratici delle imprese. Alla conferenza stampa hanno partecipato i due commissari forse più vicini alla presidente Ursula von der Leyen, Valdis Dombrovskis, responsabile per l’Economia, la Produttività, l’Attuazione e Semplificazione della normativa Ue, e Maros Sefcovic, responsabile per il Commercio, la Sicurezza economica e le Relazioni interistituzionali. Entrambi sono stati vicepresidenti esecutivi nella precedente Commissione.


La riunione del Collegio dei commissari, nel pomeriggio dell’11 febbraio a Strasburgo, è stata presieduta da von der Leyen, appena ritornata dall’incontro di poche ore prima con il vicepresidente americano James David Vance, a margine del summit internazionale di Parigi sull’Intelligenza artificiale (AI Action Summit), a cui avevano partecipato anche i vicepresidenti esecutivi Henna Virkkunen, responsabile per la Sovranità tecnologica, Sicurezza e Democrazia, e Stéphane Séjourné, responsabile per la Prosperità e la Strategia industriale. Significativamente, durante il summit di Parigi, Vance si era scagliato contro ‘l’eccesso di regolamentazione’ dell’Ue nei confronti del settore digitale e in particolare dell’Intelligenza artificiale. ‘Un’eccessiva regolamentazione potrebbe uccidere un settore trasformativo proprio mentre sta decollando’, aveva sottolineato il vicepresidente americano. Si può ragionevolmente ipotizzare che il ritiro della direttiva Aild sia stato un segnale di attenzione che von der Leyen e Virkkunen, in particolare, hanno voluto dare a Vance, in risposta al suo avvertimento. La proposta di direttiva sarebbe stata individuata, insomma, come una innocente vittima sacrificale per placare l’ira dell’Olimpo, tutto americano, del grande business dell’Intelligenza artificiale.


Una contraddizione salta subito agli occhi, ed è stata immediatamente messa in luce dal relatore per il Parlamento europeo della direttiva ‘sacrificata’, l’eurodeputato tedesco del Ppe Axel Voss: in questo caso, la normativa non era affatto un onere amministrativo supplementare, e magari inutile, destinato a complicare la vita delle imprese, ma, al contrario, mirava a unificare certe condizioni del mercato europeo nel settore. Siamo davanti a una pretesa ‘semplificazione’, insomma, operata con una flagrante ‘deregolamentazione’, che invece di rendere più agevole la vita delle imprese, le lascia sottoposte a 27 diverse regolamentazioni nazionali sulla responsabilità civile, rinunciando a un’armonizzazione minima europea, in contraddizione con la logica e le esigenze del mercato unico e della facilitazione dell’espansione transnazionale, soprattutto per le Pmi e le start-up.


La direttiva era stata proposta dalla Commissione il 28 settembre 2022, dopo una regolare valutazione d’impatto, dopo che il Parlamento europeo l’aveva sollecitata con una ‘risoluzione legislativa’ nel 2020, e dopo che la stessa Commissione aveva individuato in un proprio rapporto del 2020 le sfide per la sicurezza e la responsabilità civile dell’intelligenza artificiale e della robotica. Sebbene già dalla primavera scorsa fossero state espresse delle perplessità sull’adeguatezza della proposta di direttiva Aild, sia nel Parlamento europeo che da diversi Stati membri in Consiglio Ue, e nonostante il fatto che il lavoro legislativo fosse rimasto fermo in attesa dell’approvazione definitiva del regolamento generale dell’Ue sull’Intelligenza artificiale (AI Act), avvenuta il 21 maggio 2024, il dossier non sembrava affatto su un binario morto, ma era chiaro, semmai, che avrebbe richiesto degli adattamenti per tenere conto degli ultimi sviluppi, sia tecnologici che regolamentari. La stessa Commissione aveva modificato nel luglio scorso la proposta con una versione ‘aggiornata’ per tenere conto delle ultime modifiche del regolamento AI Act, e il Parlamento europeo aveva pubblicato a settembre delle raccomandazioni per allargare il campo di applicazione della direttiva.


Non si trattava affatto, insomma, di una proposta legislativa arenatasi e rimasta bloccata per anni nel processo decisionale per mancanza di consenso tra gli Stati membri, o perché non riconosciuta davvero necessaria, come accade in genere per i casi in cui la Commissione decide di ritirare le proprie proposte. Né la direttiva era stata bocciata in un voto del Parlamento europeo (come ad esempio è accaduto l’anno scorso per la normativa che intendeva dimezzare l’uso dei pesticidi nell’agricoltura dell’Ue). Le motivazioni del ritiro della direttiva che ha dato, in particolare, il commissario Sefcovic mercoledì scorso a Strasburgo, sono tutt’altro che convincenti. ‘Abbiamo esaminato come questo dossier sta procedendo nel processo co-legislativo. A volte vediamo che delle particolari proposte sono bloccate nel processo co-legislativo per lunghi anni’, ha detto il commissario. Su questa direttiva, ha continuato, ‘abbiamo seri dubbi che faranno progressi quest’anno. Quindi abbiamo valutato se dovremmo inventarci qualcosa di nuovo, se dovremmo affrontare la questione da un’angolazione diversa’. Ma alla fine, ha riferito il commissario, ‘abbiamo deciso di inserirlo nella lista delle proposte da ritirare, perché questa lista viene poi messa sul tavolo dei co-legislatori, e loro hanno la possibilità di dirci di no, di insistere sul fatto che una proposte debba essere mantenuta’. In questo caso, ha assicurato, ‘siamo pronti a lavorarci, e concludere in tempo. Quindi questo è un nostro invito ai co-legislatori a dirci se vogliono o no che continuiamo a lavorare su queste proposte per la responsabilità civile dell’IA’. Certo, appare quanto meno inappropriato fare riferimento a un processo co-legislativo ‘bloccato per lunghi anni’ quando la direttiva è stata proposta poco più di due anni fa, e aggiornata nel luglio scorso: si tratta di tempi del tutto normali per l’Ue. Inoltre, non sembra appropriato scaricare sul Parlamento europeo e sul Consiglio Ue la responsabilità di dire l’ultima parola su una decisione che comunque spetta alla Commissione, ‘guardiana dei Trattati Ue’ e detentrice del monopolio dell’iniziativa legislativa, in base a considerazioni di opportunità e all’esigenza di mantenere l’integrità delle proposte, quando vengono modificate dai co-legislatori in un senso che ne modifica gravemente l’efficacia e gli obiettivi. Un’altra strana motivazione è stata data venerdì 14 febbraio dal portavoce della Commissione Markus Lammert, responsabile per Affari interni, Democrazia, Giustizia e Stato di diritto. Rispondendo a una nostra domanda, Lammert ha detto: ‘Abbiamo osservato una certa riluttanza nei confronti di questa proposta di direttiva, per la quale le discussioni sono state sospese per un bel po’ di tempo. Inoltre, da quando la proposta originale è stata presentata nel 2022, sono state adottate altre normative che coprono determinati aspetti, come il regolamento sulla responsabilità civile dei prodotti e il regolamento AI Act. La Commissione valuterà se presentare un’altra proposta o se scegliere un altro tipo di approccio’. ‘L’inclusione di questo dossier nella lista delle proposte da ritirare – ha aggiunto il portavoce – esprime l’intenzione della Commissione in questo senso. Ma in linea con gli accordi istituzionali, sia il Parlamento europeo che il Consiglio Ue possono ora esprimere la loro opinione su tutte le proposte che intendiamo ritirare, e le terremo attentamente in considerazione prima di prendere la decisione finale’. Anche queste affermazioni contraddicono in modo evidente quanto la Commissione aveva sempre sostenuto finora che la direttiva sulla responsabilità civile dell’IA era necessaria proprio per coprire quegli aspetti che non rientrano nel campo di applicazione dell’AI Act e del regolamento sulla responsabilità civile dei prodotti. Ma la contraddizione più paradossale tra le motivazioni addotte per il ritiro della proposta di direttiva e le motivazioni indicate dalla stessa Commissione per sostenerne la necessità sta in una dichiarazione ufficiale di un altro commissario europeo, l’irlandese Michael McGrath, responsabile per la Democrazia e lo Stato di diritto, la Giustizia e la Tutela dei consumatori. Per una strana coincidenza, McGrath ha inviato una risposta scritta all’interrogazione parlamentare di due eurodeputati sulla direttiva Aild che è arrivata ed è stata pubblicata proprio martedì 11 febbraio, lo stesso giorno in cui la Commissione ha deciso il ritiro della direttiva, con le motivazioni che abbiamo visto. L’interrogazione, presentata il 26 novembre da due eurodeputati dello stesso gruppo Ppe di Axel Voss (contrarissimo al ritiro della direttiva, come abbiamo visto), il tedesco Andreas Schwab e la svedese Arba Kokalari, chiedeva innanzitutto se la Commissione ‘riconsidererà l’idea alla base della direttiva sulla responsabilità civile per quanto riguarda la necessità di promuovere la competitività e l’innovazione’; in secondo luogo, quali misure specifiche siano previste ‘per garantire che questa legislazione non abbia un impatto sproporzionato sulle Pmi e sulle start-up europee’; e infine come valuti la Commissione ‘il rischio di una regolamentazione eccessiva di un settore in espansione e di ulteriori ostacoli normativi per le aziende confrontate a una forte concorrenza internazionale’. Se la Commissione avesse avuto l’intenzione di ritirare la proposta di direttiva già da prima del summit di Parigi sull’IA e dell’incontro con Vance, non ci sarebbe stato nulla di più facile che rispondere ai due eurodeputati rassicurandoli sul fatto che sì, in effetti potrebbero esserci dei problemi, c’è il rischio di un impatto negativo su Pmi e start-up europee e di una regolamentazione eccessiva. Vediamo invece come ha risposto McGrath, l’11 febbraio: Innanzitutto, ‘la proposta di direttiva sulla responsabilità per intelligenza artificiale (IA) è stata concepita con un approccio lungimirante per modernizzare alcune norme sulla responsabilità civile basata sulla colpa, tenendo conto delle caratteristiche uniche dell’IA (opacità, complessità e autonomia) che la differenziano dal software tradizionale. La certezza del diritto in materia di responsabilità civile è importante per ridurre i rischi e incoraggiare le imprese, in particolare le Pmi e le start-up, a investire in AI. Le norme armonizzate sulla responsabilità civile basata sulla colpa – rileva McGrath – riducono al minimo la frammentazione, creando un ambiente prevedibile per l’innovazione e garantendo al contempo la responsabilità’. Da notare che quest’ultima argomentazione è esattamente quella sostenuta dal relatore della direttiva, Axel Voss In secondo luogo, il commissario sottolinea che ‘la direttiva proposta non crea alcun onere amministrativo per le imprese (nessun obbligo di segnalazione, registrazione, documentazione) e rafforza la certezza del diritto’. Niente a che vedere, dunque, con ‘l’eccesso di regolamentazione’ denunciato da Vance, e neanche con la logica della semplificazione burocratica invocata dalla Commissione. In terzo luogo, continua McGrath, ‘la direttiva proposta non crea ulteriori ostacoli per le aziende, poiché si basa su obblighi che le aziende devono già rispettare ai sensi della legislazione europea o nazionale’. Quanto alla complementarietà della proposta di direttiva che si vuole ritirare rispetto al campo d’applicazione dell’AI Act e della direttiva sulla responsabilità civile dei prodotti, il commissario spiega che il primo ‘riduce i rischi per la sicurezza e i diritti fondamentali’, mentre la seconda ‘stabilisce la responsabilità senza colpa dei produttori per i prodotti difettosi, a vantaggio dei consumatori’. La proposta di direttiva Aild, invece, ‘copre la responsabilità civile per i danni causati dall’IA, collegati alla colpa di qualsiasi persona’ giuridica. E’ evidente, qui, la contraddizione già sottolineata in precedenza con quanto affermato dal portavoce Markus Lammert. ‘L’adattamento della responsabilità per colpa alle specificità dell’intelligenza artificiale consente a qualsiasi tipo di vittima di incidenti causati da sistemi di intelligenza artificiale di presentare una richiesta di risarcimento danni con successo e di ottenere un risarcimento’, conclude McGrath. Questa soluzione, se la direttiva verrà ritirata – come vuole la Commissione per piegarsi alle richieste americane -, non sarà più possibile secondo una normativa armonizzata europea, ma solo secondo quanto prevedono, se lo prevedono, 27 normative nazionali, diverse per ogni paese. Un regalo avvelenato per le Pmi e le start-up che vogliano espandersi nel mercato unico europeo. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Corte penale internazionale sotto attacco, arriva lo “scudo” Ue

Corte penale internazionale sotto attacco, arriva lo “scudo” UeRoma, 7 feb. (askanews) – Le sanzioni Usa alla Corte penale internazionale sono state al centro del colloquio avvenuto a Bruxelles il 6 febbraio tra la giudice Tomoko Akane, presidente della Cpi, e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa.


Era lecito attendersi che nel corso dell’incontro venisse toccato anche il tema del contrasto tra il governo italiano e il Tribunale dell’Aia sul caso Al-Masri, ma fonti europee ufficialmente smentiscono, affermando che “l’incontro si è concentrato sulle potenziali sanzioni statunitensi e sul modo in cui potrebbero influenzare l’istituzione. Il presidente Costa e il giudice Akane hanno discusso delle possibili modalità con cui l’Ue potrebbe rafforzare il proprio sostegno a un’istituzione chiave del diritto internazionale” e Costa “ha riaffermato il sostegno dell’Unione europea alla Corte”. Il contrasto tra Italia e Cpi comunque non accenna a smorzarsi. Le spiegazioni date al Parlamento italiano mercoledì dai ministri dell’Interno Matteo Piantedosi e della Giustizia Carlo Nordio, infatti, non hanno diradato i dubbi sulla scarcerazione del generale della polizia giudiziaria libica, conosciuto anche come il “torturatore di Mitiga”, e anzi hanno creato ulteriori richieste di spiegazioni da parte delle opposizioni che vogliono che in Aula si presenti a riferire la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che al momento tace. In particolare Nordio, nel suo intervento, ha puntato il dito contro la Corte dell’Aia che avrebbe inviato un atto “radicalmente nullo” compiendo quindi un “pasticcio frettoloso”. La Corte “invece di indagare dovrebbe essere indagata”, ha rincarato la dose oggi il vice premier Matteo Salvini, riprendendo un pensiero già espresso ieri dal collega ministro degli Esteri Antonio Tajani.


A fronte di questo clima, le istituzioni europee hanno fatto muro a difesa della Cpi. Costa, in un post su X dopo l’incontro, aveva tenuto a sottolineare che la Corte “svolge un ruolo essenziale nel rendere giustizia alle vittime di alcuni dei crimini più orribili del mondo” e che “indipendenza e imparzialità sono caratteristiche cruciali” del lavoro dei giudici dell’Aia. Sul tema è intervenuta oggi anche la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, sottolineando che la Cpi “garantisce la responsabilità per i crimini internazionali e dà voce alle vittime in tutto il mondo” e “deve poter contrastare senza limiti l’impunità globale”. E “l’Europa sosterrà sempre la giustizia e il rispetto del diritto internazionale”. Il caso Al-Masri arriva intanto al Parlamento europeo. Su richiesta del Movimento 5 stelle (gruppo The Left) martedì 11 febbraio è infatti in programma un dibattito in plenaria, con dichiarazioni del Consiglio Ue e della Commissione, sul tema “Protezione del sistema di giustizia internazionale e delle sue istituzioni, in particolare la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia”. Durante il dibattito, ha annunciato l’europarlamentare del gruppo S&D Annalisa Corrado, membro della segreteria del Pd, “chiederemo ancora una volta chiarimenti sul caso Almasri: il Governo deve una spiegazione non solo al Paese, ma all’Europa intera”. I pentastellati Danilo Della Valle e Gaetano Pedullà porteranno in aula anche “il caso Netanyahu, il cui mandato di cattura internazionale va eseguito senza tentennamenti”.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Leader e gotha dell’IA riuniti a Parigi, Meloni dà forfait

Leader e gotha dell’IA riuniti a Parigi, Meloni dà forfaitRoma, 7 feb. (askanews) – Giorgia Meloni non sarà al summit sull’Intelligenza artificiale in programma il 10 e 11 febbraio a Parigi. Una scelta che sorprende, visto l’interesse della presidente del Consiglio per il tema. Basti ricordare che l’IA è stato uno dei punti al centro del programma del G7 a guida italiana, su cui è stato chiamato a parlare il “super ospite” Papa Francesco.


L’incontro di Parigi è l’ideale continuazione del meeting organizzato lo scorso anno a Bletchley Park dall’allora primo ministro britannico, e amico di Meloni, Rishi Sunak, a cui la presidente del Consiglio prese parte. Il parterre dell’evento nella capitale francese è di altissimo livello: co-organizzato dal presidente francese Emmanuel Macron, con cui il rapporto personale della premier non è mai decollato, e dal premier indiano Narendra Modi, vedrà la partecipazione di capi di Stato e di governo, tra cui il leader emiratino Mohamed Bin Zayed al Nahyan e il cancelliere tedesco Olaf Scholz; della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen; del vice presidente americano J.D. Vance; del vice premier cinese Zhang Guoqing e dei numeri uno delle aziende hi-tech impegnate sul tema. Tra questi ultimi ci saranno il presidente di Microsoft Brad Smith; Liang Wengfeng, fondatore della startup cinese DeepSeek al centro dell’attenzione in questi giorni; Demis Hassabis, Nobel per la chimica e capo del laboratorio di ricerca DeepMind AI di Google; Meredith Whittaker, presidente di Signal. E anche Elon Musk dovrebbe arrivare a Parigi.


A fronte di questo programma, secondo quanto si apprende da fonti a diretto contatto con il dossier, lo staff ha consigliato alla premier di partecipare, ma senza riuscire a convincerla. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

L’aereo di Giorgia Meloni sparisce dai (Flight)radar…

L’aereo di Giorgia Meloni sparisce dai (Flight)radar…Roma, 7 feb. (askanews) – Giorgia Meloni sparisce dai radar. O meglio da Flightradar. La popolare app – aperta e gratuita nel suo profilo base – traccia tutti i voli a livello mondiale e inserendo l’apposito codice del volo era possibile seguire anche l’Airbus della premier nei suoi spostamenti. Una “trasparenza” evidentemente non gradita, in particolare in caso di viaggi “segreti”. Come quello del 6 gennaio scorso da Donald Trump a Mar-a-Lago. Una missione non prevista e non annunciata, che era stata rivelata grazie a buone fonti giornalistiche e a un semplice controllo proprio su Flightradar.


Da quel momento, come verificato anche in occasione del ritiro informale di lunedì scorso a Bruxelles, l’aereo di Meloni non è più tracciato. Sono invece ancora regolarmente monitorati gli altri aerei governativi, anche militari. “E’ stato chiesto di oscurarlo”, conferma una fonte a conoscenza della vicenda. E’ del resto nota l’attenzione alla “privacy” della premier, a partire dalla decisione di spegnere la campanella che per prassi ultradecennale segnalava l’uscita da Palazzo Chigi dei premier. O il “fastidio” – riferito dagli spifferi della Presidenza del Consiglio – per il passaggio nel suo studio dei commessi incaricati di esporre sulla “prua d’Italia” le bandiere in occasione dei Consigli dei ministri. Ma tornando agli aerei, è curioso notare che un fatto simile accadde, nel 2022, anche all’amico della premier Elon Musk. In quel caso era stato un ventenne, Jack Sweeney, a far indispettire il miliardario. Il ragazzo, studente della University of Central Florida, tramite un bot di sua creazione tracciava le rotte del jet privato di Musk, pubblicandole sul suo account dell’allora Twitter (oggi X). Musk gli aveva offerto 5 mila dollari per smettere, lamentando “un rischio per la sicurezza”. Lo studente aveva rilanciato chiedendo una “internship” nella sua azienda o una Tesla Model 3. Musk a quel punto aveva fatto causa a Sweeney, il cui account era stato sospeso per aver violato le regole del social network in tema di manipolazione della piattaforma e condivisione di spam.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Auto ibride in Ue dopo 2035, possibile ma con e-fuel a zero emissioni?

Auto ibride in Ue dopo 2035, possibile ma con e-fuel a zero emissioni?Roma, 7 feb. (askanews) – Ha fatto molto rumore, nei giorni scorsi, un articolo pubblicato dal settimanale tedesco “Der Spiegel” secondo cui, durante il “dialogo strategico” in corso con le parti interessate sul futuro dell’industria automotive, ci sarebbe stata un’apertura da parte della Commissione europea verso una revisione dell’obiettivo zero emissioni per le auto nuove nel 2035, con la possibilità per l’industria di continuare a produrre veicoli ibridi anche dopo quella scadenza.


È una notizia da prendere con le pinze: innanzitutto, la fonte non è la Commissione, neanche come dichiarazione “off the record”. L’articolo dello Spiegel su questo è chiaro: “A quanto pare – scrive il settimanale tedesco – i lobbisti hanno successo. Per la prima volta, secondo quanto riferito dagli ambienti negoziali, i rappresentanti dell’Ue non hanno escluso la vendita di veicoli ibridi plug-in dopo il 2035”. Si tratta, dunque, di dichiarazioni rilasciate da lobbisti dell’automotive, che attribuiscono l’apertura ai rappresentanti della Commissione. I titoloni sull’Ue che finalmente “valuta”, “considera”, “apre”, “fa concessioni”, prospettando una modifica dell’obiettivo 2035, o addirittura una marcia indietro, non sono corretti. Da parte della Commissione, l’unica reazione finora è stata un rigoroso “no comment”. A una nostra domanda, la portavoce per Clima, Energia, e Trasporti, Anna-Kaisa Itkonen, ha risposto “Nessun commento all’articolo” dello Spiegel, “poiché il dialogo con l’industria automobilistica è in corso”. Non è una smentita, ma neanche una conferma.


Certo, risulta difficile, per chi ha seguito costantemente da Bruxelles il dibattito politico, spesso acceso, sulla transizione verde nell’automotive, credere che l’Esecutivo comunitario abbia all’improvviso cambiato posizione, dopo aver confermato innumerevoli volte e con fermezza l’obiettivo 2035. La tesi del ripensamento, se non proprio della retromarcia, sulla messa al bando dei motori a combustione entro dieci anni, si basa soprattutto su un punto (pag. 10) della recente comunicazione della Commissione sulla “Bussola della competitività”, che è citata dallo Spiegel, secondo cui è “esattamente la frase che l’industria si aspettava”. La Commissione scrive che “come parte del dialogo” con il settore automotive, “individueremo soluzioni immediate per salvaguardare la capacità di investimento dell’industria, esaminando possibili flessibilità per garantire che la nostra industria rimanga competitiva”. Nel documento, tuttavia, la frase si conclude con una “caveat”: queste soluzioni “flessibili” saranno trovate “senza abbassare l’ambizione complessiva degli obiettivi del 2025”.


E’ noto che l’industria automotive europea sta cercando delle soluzioni che possano scongiurare il pagamento delle multe per non aver rispettato gli obiettivi intermedi di riduzione delle emissioni di CO2 dalle auto, previsti per la fine di quest’anno (il 20% in meno rispetto al 2021). Ed è abbastanza chiaro che a questo, e non all’obiettivo 2035 si riferisce la frase riportata. Ma subito dopo, nel documento della Commissione, c’è un’altra affermazione: “Raggiungere l’obiettivo di neutralità climatica per le auto entro il 2035 – si legge – richiederà un approccio neutrale dal punto di vista tecnologico, in cui gli e-fuel (i carburanti sintetici, ndr) hanno un ruolo da svolgere attraverso una modifica mirata del regolamento, come parte della revisione prevista”.


In altre parole proprio il documento riportato dallo Spiegel non apre affatto a una revisione dell’obiettivo zero emissioni tra 10 anni, ma sottolinea l’intenzione della Commissione di applicare il principio della neutralità tecnologica, consentendo l’uso dei carburanti sintetici, e quindi un possibile futuro per la produzione di motori a combustione, a fianco ai motori elettrici. Questo, naturalmente, a condizione che sia rispettato il principio della neutralità climatica, ovvero dell’azzeramento delle emissioni nette dai veicoli, se e quando i carburanti sintetici saranno effettivamente in grado di assicurare questa condizione. Va precisato che in realtà nella legislazione in vigore l’obiettivo 2035 già ora non prevede affatto una messa al bando dei motori termici (come spesso si legge), ma solo l’azzeramento delle emissioni. La revisione del regolamento, prevista entro il 2026, potrebbe semplicemente precisare che i veicoli ibridi “plug-in” o “range extender” (con autonomia estesa), se alimentati con carburanti sintetici a zero emissioni nette, potranno continuare a essere prodotti e immessi sul mercato anche dopo il 2035. In ogni caso, tutto questo dovrebbe essere chiarito entro un mese, il 5 marzo, quando il commissario ai Trasporti, Apostolos Tzitzikostas, presenterà il nuovo “action plan” industriale per l’automotive. È chiaro comunque che da parte dell’Industria c’è un tentativo di spingere sull’ibrido: perché consente di ritardare la riconversione al “tutto elettrico” per alcuni anni, mantenendo in produzione almeno in parte i motori a combustione interna, e dando più tempo per riconvertirsi all’indotto (così importante per l’Italia), e più margine per un ritorno degli investimenti in questa specifica tecnologia. Inoltre, questo risponderebbe alle aspettative del mercato, e soprattutto dei consumatori a basso reddito; i quali, giustamente, non si fidano dell’auto elettrica, e non solo per i costi ancora proibitivi, ma anche perché finora è stata troppo lenta la diffusione delle infrastrutture di ricarica, troppo limitata l’autonomia delle batterie, e sono ancora troppo lunghi i tempi di ricarica. Si tratta, tuttavia, di una strategia temporanea: puntare per ora sull’ibrido, per far ripartire la domanda, in attesa di modelli elettrici meno cari, di una diffusione adeguata e capillare delle colonnine (che con gli investimenti pubblici necessari può essere completata in pochi anni), e del miglioramento tecnologico delle batterie, con una maggiore autonomia e minori tempi di ricarica. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Ue, voto Afd con Cdu-Csu mette a rischio il “cordone sanitario”?

Ue, voto Afd con Cdu-Csu mette a rischio il “cordone sanitario”?Roma, 1 feb. (askanews) – “Cuando se gana con la derecha, es la derecha la que gana”. Friedrich Merz ha forse dimenticato l’avvertimento che Radomiro Tomic, esponente di primo piano della Democrazia cristiana cilena, lanciò nell’aprile del 1973 al suo partito, qualche mese prima del colpo di Stato del generale Pinochet. Senza voler essere troppo drammatici, il “patto” che per la prima volta ha visto votare insieme Cdu-Csu e Afd in Germania è un segnale che spaventa l’Europa, una piccola ma significativa lacerazione del “cordone sanitario” che fino a oggi ha tenuto le destre estreme fuori dalle stanze decisionali. E che infatti fa gioire, tra gli altri, Viktor Orban e il generale Vannacci.


Mercoledì, a tre settimane dalle elezioni, il Bundestag ha approvato una mozione della Cdu-Csu per rafforzare i controlli alle frontiere e concedere maggiori poteri alla polizia, anche in violazione delle norme di Schengen. Un atto – che non impegna il governo ma fortemente simbolico – passato con i consensi determinati di Alternative Fur Deutschland, formazione di estrema destra che i sondaggi accreditano di oltre il 20%. In Europa Afd è collocato nel gruppo “Europa delle Nazioni Sovrane”, dopo essere stato espulso nel maggio dell’anno scorso dal gruppo di estrema destra “Identità e Democrazia”. Venerdì, invece, il Bundestag ha bocciato una proposta di legge che avrebbe introdotto una stretta sui migranti. Il testo, presentato da Cdu-Csu e sostenuto da Afd, non è passato per alcuni “franchi tiratori” centristi. La mossa di Merz è chiaramente elettorale: il tema dei “migranti” in Germania come altrove è considerato determinante per il voto. Ma la fuga in avanti del candidato cancelliere non è piaciuta a molti. Se è scontato che il gruppo dei Socialisti & Democratici abbia denunciato il “segnale pericoloso”, un “errore imperdonabile” frutto di un “meschino calcolo politico” di Merz, clamorosa è stata la pubblica sconfessione arrivata da Angela Merkel.


L’ex cancelliera, compagna di partito di Merz (che notoriamente è stata la mentore della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen) in un comunicato ha parlato di scelta “sbagliata” e pur dicendo di condividere la linea del leader Cdu ha espresso l’auspicio che “tutti i partiti democratici lavorino insieme al di là dei confini partitici, non tatticamente, ma onestamente, con toni moderati e sulla base del diritto europeo”. L’inedita maggioranza fa invece gioire i sovranisti. “Buongiorno Germania, benvenuta nel club!” ha scritto su X il primo ministro ungherese Viktor Orban, mentre per il generale leghista Roberto Vannacci “il mondo si sta raddrizzando”. Il Carroccio, con Anna Maria Cisint, ha fatto un passo ufficiale, con una interrogazione in cui chiede a von der Leyen se dopo la Germania (il suo Paese) pensi di far cadere anche in Europa il “grave e antidemocratico cordone sanitario che anche a livello Ue ha discriminato il gruppo dei Patrioti di cui fa parte la Lega e ha dato vita a un’alleanza contro natura con le sinistre”. I Fratelli d’Italia al momento mantengono una linea di equilibrio, auspicando una “evoluzione” di Afd. Intanto però hanno risposto positivamente all’appello di Jordan Bardella, presidente del Rassemblement national (Rn) francese, per “costruire ponti attraverso le divisioni partitiche”. Ovvero per creare una maggioranza di centrodestra dal Ppe ai Patrioti (e magari oltre), sul modello italiano. Forza Italia, che pochi giorni fa aveva lanciato un appello a sostenere la Cdu-Csu, “nel solco dei comuni valori del Partito popolare europeo”, sulla questione tace.


L’abolizione del “cordone sanitario” nel parlamento europeo è un obiettivo politico che unisce tutti i gruppi a destra del Ppe. Le rare volte in cui proprio il Ppe non ha rispettato il “cordone”, formando la cosiddetta “maggioranza Venezuela”, non bastano ancora a certificare la sua fine. Ma quello che sta indebolendo questo accordo non scritto tra le forze democratiche ed europeiste a Bruxelles e a Strasburgo è oggi l’ambiguità del Ppe. I popolari, riconoscendo la patente di destra “moderata” e non anti europea al gruppo Ecr, accettano la collaborazione con i conservatori su molti temi, ma non pongono loro la condizione di non fare accordi a loro volta sugli stessi temi con le destre estreme. E’ questa sua applicazione per così dire “asimmetrica” che sta indebolendo e svuotando di senso il cordone sanitario. Finora il Ppe ha sempre mantenuto la linea di condanna per Afd. Dopo le elezioni tedesche, risultati alla mano, probabilmente il quadro sarà più chiaro. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Auto, un nuovo piano d’azione industriale europeo

Auto, un nuovo piano d’azione industriale europeoRoma, 1 feb. (askanews) – L’annuncio di un possibile nuovo sistema armonizzato europeo di sussidi all’acquisto di veicoli elettrici, fatto dalla vicepresidente esecutiva della Commissione Teresa Ribera in una intervista al Financial Times dal Forum di Davos, il 23 gennaio, potrebbe far cambiare senso all’attuale controversia sulla crisi del settore dell’automotive e sulla sua elettrificazione a tappe forzate, prevista dal Green Deal con l’obiettivo delle auto nuove a zero emissioni entro il 2035. E in questa nuova direzione sembra andare il ‘dialogo strategico’ sul futuro dell’industria automotive europea che la Commissione ha avviato giovedì 30 gennaio a Bruxelles, e che sarà alla base di un ‘action plan’ industriale per il settore, che Ursula von der Leyen ha annunciato sarà pronto per il 5 marzo prossimo.


Finora, la controversia è stata focalizzata soprattutto sull’obiettivo normativo per il 2035, che tutte le forze politiche di centro-destra (incluso il Ppe, partito di von der Leyen) volevano rimettere in discussione. Ma la nuova Commissione non ha mai preso seriamente in considerazione la revisione di questo traguardo finale; così come, d’altra parte, una richiesta tanto radicale non è mai stato avanzata in modo esplicito neanche dall’industria dell’automotive e dall’organizzazione che la rappresenta nell’Ue, l’Acea. Anche perché non c’era una identità di vedute tra le diverse case automobilistiche, che comunque in gran parte si sono già impegnate nella conversione graduale all’elettrico. I costruttori europei chiedono invece da mesi che si trovi una soluzione per ritardare, ridurre o annullare le multe che dovranno pagare nel caso (molto probabile) in cui non riescano a rispettare gli obiettivi intermedi di riduzione delle emissioni di CO2 dalle auto, da conseguire già a partire dalla fine di quest’anno (il 20% in meno rispetto al 2021).


In una lettera inviata il 16 gennaio dall’Acea alla presidenza della Commissione e a quella del Parlamento europeo, questa richiesta è molto chiara: per il 2025 e gli anni immediatamente seguenti, si chiede di rivedere la tabella di marcia per la decarbonizzazione con ‘un percorso realistico’, che sia ‘guidato dal mercato e non dalle multe’; ma non viene mai messa in questione la fine del percorso, al 2035. Una posizione non diversa da quella espressa, il 10 gennaio, da Jean-Philippe Imparato, Chief Operating Officer per l’Europa del gruppo Stellantis, al ‘Motor Show’, di Bruxelles. ‘Il 2035 – aveva sottolineato Imparato parlando con alcuni giornalisti – non è un problema per me oggi. La questione per noi non è il 2035, ma sono i prossimi tre o cinque anni’.


Si è giunti così a una situazione piuttosto paradossale, in cui i rappresentanti politici del centro destra chiedono, a nome dell’industria, di cancellare l’obiettivo 2035, che è molto più di quanto chieda l’industria stessa. Come appare evidente dalle dichiarazioni di un importante esponente di Fratelli d’Italia, il co-presidente del gruppo dei Conservatori europei all’Europarlamento (Ecr), Nicola Procaccini, il 14 gennaio, a margine dell’elezione dell’ex premier polacco Mateusz Morawiecki come nuovo presidente del Partito europeo Ecr, al posto di Giorgia Meloni. Parlando ai giornalisti, Procaccini ha ribadito che bisogna tornare indietro sull’obiettivo 2035 per le auto a zero emissioni, nonostante quanto affermato pochi giorni prima da Imparato, e nonostante il fatto che tutta l’industria europea stia già lavorando per quell’obiettivo. ‘Ritengo – ha detto il co-presidente del gruppo Ecr – che ci sia una non comprensione di quanto detto da Stellantis, e in generale da tutte le case automobilistiche europee, o quantomeno quelle che hanno una presenza in Europa. Il bando dei motori termici al 2035, e in particolare le multe che dovranno scattare già da quest’anno, sono una iattura per tutti’. ‘Ma – ha continuato Procaccini – sgombriamo il campo da ogni dubbio: che ci sia una azienda che produce automobili in Europa che sia favorevole a quanto stabilito nella scorsa legislatura, relativamente al bando dei motori termici, è falso. Non ne esiste una. Questa è una vulgata che si continua a perpetrare a danno della verità’, ha assicurato. Le imprese dell’automotive, ha aggiunto, ‘noi le abbiamo incontrate, le abbiamo audite ufficialmente all’interno del Parlamento europeo, e tutte dicono la stessa cosa: per noi andrebbe rivista questa’ scadenza, ‘tutto andrebbe rivisto, a cominciare dalle multe, naturalmente’.


Curiosamente, la posizione dell’eurodeputato di Fdi sembra divergere, almeno in parte, anche da quella di un suo collega di partito, membro del governo Meloni: Adolfo Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, che mercoledì 29 gennaio ha incontrato a Bruxelles il commissario per la Mobilità sostenibile, Apostolos Tzitzikostas, il commissario per l’Azione per il clima, Wopke Hoekstra, e la vicepresidente esecutiva Teresa Ribera. Incontrando i giornalisti alla fine della giornata, Urso ha negato che il governo italiano sia contrario all’obiettivo del 2035. ‘Assolutamente: in tutti i nostri documenti – ha riferito – riaffermiamo il target del 2035’. Ma, ha aggiunto, ‘vogliamo raggiungerlo con le imprese europee, e quindi con il lavoro europeo in pieno vigore. Noi chiediamo – ha precisato – di rivedere in maniera complessiva, strutturale e strategica le modalità con cui raggiungere questo obiettivo. Per questo ho detto con estrema chiarezza che vogliamo rivedere i meccanismi infernali delle multe alle case automobilistiche’ che non rispetteranno i limiti alle emissioni. Ma questo, ha avvertito il ministro, ‘non è sufficiente: non basta rimuovere questo ostacolo infernale per rendere competitiva l’industria europea’; farlo ‘è necessario ma non sufficiente. Perciò – ha continuato – ho detto che noi siamo favorevoli a un piano di incentivi europeo omogeneo e duraturo nel tempo, per facilitare l’acquisto di auto ecologicamente sostenibili. Noi non vogliamo aggirare la questione: l’elefante è nella stanza già da molto tempo, non possiamo nasconderlo sotto il tappeto’. ‘Abbiamo bisogno di un piano complessivo, strutturale e strategico su tutti i fronti, per rendere sostenibile l’industria e il lavoro europeo rispetto alla grande sfida, titanica, della Cina e degli Stati Uniti’, ha concluso Urso, che queste cose le ha scritte da mesi in un ‘non paper’ sull’automotive, sostenuto da diversi altri Stati membri. Il nuovo Piano d’azione industriale europeo, che il 5 marzo sarà presentato dal commissario Tzitzikostas, dovrebbe rispondere almeno in parte alle aspettative di Urso e del suo ‘non paper’, e a quelle dell’Acea, con una nuova tabella di marcia, che, non si sa fino a che punto e con quanta ‘flessibilità’ (l’altra parola chiave, accanto a ‘competitività’ di questa nuova fase politica europea), rivedrà le scadenze e gli obblighi previsti in questi primi anni del percorso verso il 2035. L’aspettativa è che proponga anche qualche soluzione alternativa alle multe, o che ne mitighi l’impatto sull’industria (anche se i portavoce della Commissione hanno puntualizzato che la ‘flessibilità’ promessa da von der Leyen non significa necessariamente eliminare le sanzioni); comunque, nessuno si attende, realisticamente, che sia rimesso in discussione il traguardo finale di questo percorso, al 2035, come invece continuano a chiedere i gruppi europei del centro-destra. Ma soprattutto, come si diceva all’inizio, il piano conterrà probabilmente delle proposte di ‘stimolo della domanda’, con ‘il potenziamento e l’armonizzazione degli incentivi all’acquisto’ negli Stati membri, come suggerisce una ‘concept note’ che fa parte dei documenti preparatori del ‘dialogo strutturato’ pubblicati dalla Commissione. Nella sua intervista al ‘Financial Times’, Ribera osservava che ‘ha senso cercare di capire come facilitare le misure (ovvero gli incentivi, ndr) in una prospettiva paneuropea, invece di passare attraverso sussidi nazionali’, che rischierebbero di portare alla competizione di ‘un modello nazionale contro l’altro’; ma avvertiva anche che per definire la portata e le modalità degli incentivi ‘la discussione è ancora in corso’. Un altro segnale di rilievo è venuto da una dichiarazione recente, piuttosto sibillina, di Olaf Scholz all’agenzia Bloomberg, in cui il cancelliere tedesco si è detto ‘compiaciuto del fatto che la presidente della Commissione abbia ora accettato la mia proposta di incentivi all’acquisto armonizzati a livello europeo per le auto elettriche’. Infine, oltre agli incentivi all’acquisto, c’è da aspettarsi che il piano d’azione per l’auto contenga delle misure per accelerare la diffusione delle infrastrutture di ricarica, che in molti paesi membri sono ancora troppo poche. Lo aveva detto chiaro Imparato al Motor Show di Bruxelles: visto che stanno ormai scomparendo gli incentivi nazionali all’acquisto di auto elettriche (laddove c’erano, come in Germania e in Francia, ndr), il ‘messaggio inviato’ alle autorità nazionali ed europee, aveva osservato, è che almeno provvedano a completare la diffusione adeguata e capillare delle infrastrutture necessarie per le ricariche, con una ‘accelerazione in termini di regolamentazione’. I consumatori, aveva rilevato in sostanza il responsabile di Stellantis per l’Europa, non comprano auto elettriche non solo perché costano troppo, ma anche perché sanno che non ci sono abbastanza colonnine, e perché la ricarica dura due ore invece di una ventina di minuti. La ‘Concept Note’ del dialogo strutturato riconosce proprio questo: che, rispetto a quanto sarebbe necessario per il decollo della domanda di auto elettriche, ‘i consumatori si trovano ad affrontare ancora costi iniziali dei veicoli più elevati e una minore rapidità nella diffusione delle infrastrutture di ricarica’. In realtà una normativa Ue sulle infrastrutture, con obiettivi obbligatori, è già in vigore, e prevede che entro il 31 dicembre di quest’anno siano installate stazioni di ricarica con potenza di uscita minima di 400 kW, almeno ogni 60 chilometri sugli assi stradali più importanti (quelli della rete centrale transeuropea Rte-T), in ciascuna direzione di viaggio. Un’accelerazione della diffusione delle infrastrutture potrebbe venire da una revisione di questa normativa. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

La preoccupazione di Mattarella per la technoligarchy, appello a Ue (e Meloni)

La preoccupazione di Mattarella per la technoligarchy, appello a Ue (e Meloni)Roma, 25 gen. (askanews) – “I Paesi dell’Unione si dividono in due categorie: i Paesi piccoli e quelli che non hanno ancora compreso di essere piccoli anch’essi. Soltanto uniti potranno continuare ad assicurare ai loro cittadini, come avviene da oltre settant’anni, un futuro di pace e di diffuso benessere”. Due giorni dopo l’insediamento di Donald Trump, mentre il neo presidente firmava una pioggia di atti esecutivi, Sergio Mattarella ha lanciato da Messina un nuovo appello all’Europa.


Un invito a restare uniti inviato ai leader, a partire da Giorgia Meloni, il cui rapporto privilegiato con il tycoon spaventa molti partner continentali. La premier è stata l’unica leader europea presente al giuramento a Capitol Hill, confermandosi come quella più vicina alla nuova amministrazione Usa. Una posizione guardata con diffidenza, tra gli altri, da Emmanuel Macron, Pedro Sanchez, Donald Tusk. La presidente del Consiglio sa che il ruolo di “ponte” tra Washington e Bruxelles richiede di trovare un equilibrio complicato. Tanto che nel post di X che ha pubblicato subito dopo il giuramento, oltre a fare gli auguri a Trump ha voluto mandare un messaggio di rassicurazione all’Ue: “L’Italia sarà sempre impegnata nel consolidare il dialogo tra Stati Uniti ed Europa, quale pilastro essenziale per la stabilità e la crescita delle nostre comunità”. Quasi una excusatio non petita, che probabilmente ripeterà al summit del 3 febbraio a Bruxelles, il primo incontro dei 27 dopo l’insediamento del presidente americano. Chissà se le chiederanno, in quell’occasione, qualche spiegazione, se qualcuno solleverà preoccupazioni per la relazione con Trump e soprattutto con Elon Musk (il cui fratello è stato ricevuto il 24 gennaio a Palazzo Chigi), primo esponente di quella che in Usa è stata definita “technoligarchy” e che pesantemente è entrato nel dibattito politico europeo, in primo luogo con il sostegno al partito tedesco di estrema destra Afd. Proprio Mattarella era stato tra i primi a lanciare l’allarme per il potere che stanno assumendo le grandi compagnie tecnologiche. Recentemente, nel corso degli auguri natalizi alle alte cariche al Quirinale, aveva parlato degli “oligarchi di diversa estrazione” che agiscono “sempre più spesso come veri e propri contropoteri”. Molti dei quali – aggiungiamo – erano in prima fila al Campidoglio per l’Inauguration day.


A Messina, nella sua lectio, Mattarella ha ripercorso le tappe più significative della storia dell’integrazione europea, arrivando all’oggi, alla “sicurezza” che in tanti ambiti – per i prodotti alimentari, i farmaci, i voli, il contrasto alla criminalità – deriva proprio dalla legislazione comunitaria. “Questo, naturalmente – ha ammesso – non significa ignorare i limiti delle regole europee. Bisogna esserne consapevoli e impegnarsi nel rimuoverli e superarli, agendo con sempre maggiore efficacia per migliorare il funzionamento delle istituzioni dell’Unione”. Oggi in particolare, “il cambiamento climatico, la crisi energetica, la carenza di materie prime essenziali per lo sviluppo tecnologico, i movimenti migratori, la transizione digitale, la difesa, la cybersicurezza non sono problemi risolvibili autonomamente dagli Stati nazionali ma richiedono l’interazione tra parlamenti, esecutivi e amministrazioni nazionali, europee e, se possibile, sovranazionali”. Su questo devono essere fatti molti passi avanti, da un lato perché “nei singoli contesti nazionali si continua troppo spesso a considerare l’Unione europea come un soggetto estraneo agli Stati membri e non – quale effettivamente essa è – come il prodotto della loro interazione e cooperazione”, dall’altro la “limitata coscienza politica, che l’Unione ha di sé stessa, condiziona il suo operare concreto e la rende troppo spesso non adeguatamente risoluta – e quindi tempestiva – dinanzi alle grandi sfide che gli Stati e i popoli europei si trovano ad affrontare”. In un “tornante della storia” in cui a livello internazionale “prevalgono dinamiche fortemente conflittuali e perfino distruttive” deve emergere “l’importanza della comunanza di valori e di principi che rendono gli Stati europei naturalmente vicini e necessariamente solidali nell’affermare i valori di democrazia, dignità umana, libertà, equità sociale, pace”. Servono quindi “scelte coraggiose, superando concezioni miopi dell’identità e dell’interesse nazionale”.


Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Green Deal, l’avvertimento (giusto) del premier polacco Tusk

Green Deal, l’avvertimento (giusto) del premier polacco TuskRoma, 25 gen. (askanews) – Si può essere a fortemente a favore del Green Deal europeo, sempre più sotto attacco, e tuttavia prestare ascolto e attenzione a una richiesta di ritardare e rivederne una delle misure faro. Perché la sua attuazione, prevista dal 2027, rischia seriamente di provocare proteste sociali contro i governi democratici e contro lo stesso Green Deal, simili a quelle dei “gilets jaunes” in Francia, nel 2018, contro i rincari dei carburanti, ma ancora più radicali ed estese a tutti i paesi europei.


Stiamo parlando della nuova “borsa” europea per la compravendita dei permessi di emissione (Ets2), applicata ai carburanti stradali e ai sistemi di riscaldamento residenziali. E dell’avvertimento secondo cui questa misura, se applicata senza modifiche, “spazzerebbe via tutti i governi democratici in Europa”, lanciato dal premier polacco Donald Tusk (Ppe), nel suo discorso davanti alla plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo, il 22 gennaio, sul programma dell’attuale presidenza semestrale di turno del Consiglio Ue. Tusk, che l’Ue la conosce bene essendo stato presidente del Consiglio europeo dal 2014 al 2019, ha criticato più in generale alcuni effetti negativi del Green Deal sull’economia e la competitività. “Il Green Deal – ha affermato – non può essere una condanna per l’economia europea. Se saremo in bancarotta non convinceremo il mondo a fare alcun cambiamento. Dobbiamo rivedere la legislazione green in termini di oneri, per le aziende e per le persone comuni. L’approccio deve cambiare. Le sanzioni e gli obblighi non funzionano”. Quello che funziona, invece, secondo il premier polacco, sono “gli incentivi e le ricompense” per chi applica misure ambientali, “così come è stato deciso nella riforma della scorsa primavera della Politica agricola comune”.


Bisogna poi “risolvere il problema degli alti prezzi dell’energia – ha sottolineato – perché con questi prezzi saremo semplicemente perdenti nella concorrenza con il resto del mondo”. E a questo punto, un po’ a sorpresa, il premier polacco ha lanciato il suo avvertimento sul nuovo sistema Ets2 di compravendita delle quote di emissione (Ets sta per “Emission Trade System”) adottato nella scorsa legislatura europea, che per la prima volta coinvolgerà non solo gli impianti industriali, ma anche le famiglie, costringendole a pagare l’energia a prezzi ancora più alti per i carburanti fossili utilizzati nel il riscaldamento e per i trasporti su strada. “Oggi, mettendo un momento da parte il mio ruolo di rappresentante della presidenza di turno del Consiglio Ue, ma parlando come politico esperto, vorrei osservare che, se l’Ets2 entrasse in vigore, spazzerebbe via tutti i governi democratici in Europa. Valutate se ne valga la pena”, ha affermato Tusk.


Lo stesso giorno, la portavoce competente della Commissione, Anna-Kaisa Itkonen, ha risposto che “c’è una discussione in corso, sul nuovo sistema Ets e sulla sua revisione, ma certo non per abolirlo”. Recentemente la Repubblica ceca e la Slovacchia hanno chiesto di posticipare l’entrata in vigore dell’Ets2. La normativa in effetti prevede la possibilità di un rinvio di un anno, al 2028, ma solo nel caso in cui i prezzi del gas o del petrolio raggiungano e superino i picchi raggiunti durante la crisi energetica del 2022, in piena crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina e dalla manipolazione dei mercati messa in atto dalla Russia.


Una eventuale revisione minima della normativa potrebbe limitarsi ad abbassare, anche sensibilmente, le soglie dei prezzi che farebbero scattare il rinvio dell’entrata in vigore, mentre altre misure potrebbero essere prese separatamente per sostenere le famiglie e le imprese più vulnerabili, con fondi pubblici più consistenti di quelli già previsti oggi per la “povertà energetica”. “Non considerare la proposta di Repubblica Ceca e Slovacchia di posticipare l’entrata in vigore dell’Ets2, potrebbe avere conseguenze negative per le famiglie vulnerabili in Europa”, ha osservato recentemente in una nota una fonte “insospettabile”, l’eurodeputato del M5S (e del gruppo politico della Sinistra) Dario Tamburrano. Insospettabile perché si tratta di un ambientalista convinto, esperto di questioni energetiche, al suo secondo mandato come europarlamentare. “Quando nel 2021 l’impianto normativo dell’Ets2 è stato formulato – spiega Tamburrano -, i prezzi del gas erano molto più bassi; ma oggi, due anni prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, sono dell’80% più elevati” rispetto al 2021. “Chiaramente questo significa che quelle valutazioni erano totalmente inadeguate a prevedere l’impatto che il nuovo meccanismo avrà sulle bollette per il riscaldamento residenziale degli europei, che per il 10% oggi versa in una condizione di povertà energetica permanente”. Secondo l’eurodeputato, “i notevoli cambiamenti degli scenari energetici e della condizione sociale dei nostri cittadini e la contemporanea mancanza di reali sostegni economici e informativi alle famiglie per la transizione alle pompe di calore in molti Stati membri, obbligano a un ripensamento delle politiche energetiche e sociali europee attraverso correttivi e rinforzi al Piano sociale per il Clima”. “L’Ue non può permettersi l’autogol di aumentare i costi già alti dell’energia senza che vi siano meccanismi incentivanti adeguati ed accessibili rapidamente e direttamente”, è la conclusione di Tamburrano, simile a quella di Tusk. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese