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Meloni lunedì da Trump, unica leader europea presente

Meloni lunedì da Trump, unica leader europea presenteRoma, 18 gen. (askanews) – Chissà se Giorgia Meloni è una fan di Nanni Moretti (pensiamo di no), ma sicuramente il tira e molla sulla sua partecipazione all’Inauguration Day è sembrato molto simile al “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” di “Ecce Bombo”. Alla fine, dopo giorni di dubbio sulla possibilità di andare o meno a Washington lunedì, la conferma è arrivata con un “a quanto si apprende” diffuso solo venerdì 17 alle 23.08.


Facciamo un passo indietro. Alla conferenza stampa di inizio anno, il 9 gennaio, la premier aveva confermato di essere stata invitata da Trump durante l’incontro di pochi giorni prima a Mar-a-Lago. “Mi fa piacere esserci, lo sto valutando sulla compatibilità di agenda. Se riesco volentieri partecipo”, aveva spiegato nell’incontro con i giornalisti. La presidente del Consiglio, secondo alcune indiscrezioni, avrebbe anche accarezzato l’idea di poter essere la prima leader ricevuta in bilaterale da Trump alla Casa Bianca (il 21), rompendo una “tradizione” che vuole questo incontro riservato al primo ministro britannico, che però non è stato neppure invitato. Dal 9 gennaio la posizione è rimasta fino all’ultimo di dubbio. “Siamo 50-50”, il mantra ripetuto da Palazzo Chigi negli ultimi giorni, fino al messaggio notturno di venerdì. Meloni sarà dunque l’unica leader europea presente, dopo il forfait di Viktor Orban. Insieme a lei, tra gli ospiti, ci sarà il presidente argentino Javier Milei, promotore della cosiddetta “Internazionale sovranista”, mentre l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro non potrà essere presente perché gli è stato ritirato il passaporto, dato che è sotto indagine per il suo presunto ruolo nel tentato colpo di Stato del gennaio 2023. Non dovrebbero mancare Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen, e Santiago Abascal, numero uno del partito populista spagnolo Vox.


Proprio il “parterre” sembra il principale motivo che ha indotto Meloni a lasciare in sospeso la visita fino all’ultimo momento. Se, come sembra, la sua ambizione è quella di proporsi come “ponte” tra la nuova amministrazione americana e l’Unione europea, la sua presenza a Washington potrebbe essere vista con fastidio a Bruxelles e nelle cancellerie europee, in particolare in Francia e Germania, dove Elon Musk è attivissimo nel sostegno al partito di estrema destra Afd. Evidentemente, però, alla fine ha pesato di più la volontà di rafforzare e mostrare il rapporto privilegiato con il tycoon. Si vedrà alla lunga se il calcolo è stato giusto. Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Il modello Albania funziona… nel ciclismo

Il modello Albania funziona… nel ciclismoRoma, 18 gen. (askanews) – Il “modello Albania” funziona… per il momento solo nel ciclismo. A tre mesi dall’inaugurazione delle strutture per migranti di Shengjin e Gjader, la collaborazione tra Roma e Tirana si allarga al Giro d’Italia. La corsa rosa, infatti, quest’anno partirà – per la prima volta – proprio dal Paese delle Aquile, in cui si svilupperanno ben tre tappe, a Durazzo, Tirana e Valona. Non è la prima volta che il Giro parte dall’estero, ma tre tappe in terra straniera sono molte, e peraltro importanti: si tratta di una cronometro, nella capitale, e due frazioni di montagna. Poi il trasferimento in Puglia per ripartire alla volta di Roma, dove i ciclisti arriveranno.


Felice, alla presentazione a Roma, il premier albanese e grande amico di Giorgia Meloni Edi Rama: “Fino a qualche anno fa noi eravamo chiusi come la Corea del Nord, l’unico modo per aprirsi al resto del mondo era la radio italiana e seguivamo il Giro d’Italia con Gimondi e Merckx e facevamo il tifo senza vedere le immagini e immaginavamo di poter andare un giorno dall’altra parte del mare. Lo sport ci ha sempre aiutato a sperare e sapevamo che dall’altra parte del mare c’era vita. Vedere oggi l’Albania qui è qualcosa di meraviglioso, sono onorato e grato”. Da parte sua il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha sottolineato l’importanza della “diplomazia dello sport” partendo “da un Paese amico e con questo diamo un forte sostegno ai Balcani occidentali che vogliamo entrino presto nella comunità europea. Aprire all’Albania vuol dire che siamo pronti ad accoglierli in Europa”. E i centri per migranti? Secondo Meloni sono pienamente operativi, ma restano vuoti sostanzialmente per una mancanza di “clienti”. “A me pare che le sentenze della Cassazione diano ragione al governo. La Cassazione dice che spetta al governo stabilire quali siano i Paesi sicuri e che conseguentemente il giudice non possa sistematicamente disapplicare il trattenimento dei migranti che arrivano, ma può invece motivare” casi specifici, ha detto nella conferenza stampa di inizio anno. Dunque, ha aggiunto, “per quello che ci riguarda i centri in Albania sono pronti per essere operativi. Abbiamo un dispositivo pronto a partire in qualsiasi momento; fortunatamente lo scorso anno gli sbarchi sono diminuiti del 60% e negli ultimi giorni si sono quasi azzerati. Però i centri sono pronti ad essere attivati”.


Intanto un altro campo su cui Italia e Albania collaborano è quello dell’energia. Ad Abu Dhabi, a margine della Sustainability Week, il governo italiano, quello albanese e gli Emirati Arabi Uniti hanno firmato un accordo (ancora tutto da implementare per essere concreto) per lo sviluppo di energie rinnovabili in Albania e la loro esportazione verso l’Italia tramite un cavo elettrico sottomarino. Un accordo da un miliardo, “con un grande potenziale”, secondo il ministro Gilberto Pichetto Fratin. A Meloni, che proprio ad Abu Dhabi ha spento 48 candeline in compagnia dello staff e della figlia Ginevra, Rama ha donato un foulard disegnato da lui stesso ed è stato protagonista di un siparietto che ha coinvolto – loro malgrado – i giornalisti, nell’unica occasione di contatto con la premier, che però non ha voluto rilasciare dichiarazioni. “Pensano che tu ce l’abbia con loro”, ha detto il primo ministro albanese alla presidente del Consiglio. “Ma come – la replica – abbiamo passato pochi giorni fa tre ore insieme…”. Poi con i cronisti Rama ha rincarato la dose: “Meloni adora la stampa italiana, lo dice sempre: io sono una donna fortunatissima, con questi giornalisti è fantastico, sono perspicaci. Lo dice con piena ammirazione”. Sarà… Di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Europa indietro tutta, la nuova linea dei Conservatori

Europa indietro tutta, la nuova linea dei ConservatoriRoma, 18 gen. (askanews) – Se finora era stata soprattutto Giorgia Meloni a rappresentare, con un certo successo, la nuova linea della destra moderata, e moderatamente europeista, dell’Ecr, con il cambio alla guida del partito europeo dei Conservatori e l’elezione dell’ex premier polacco Mateusz Moraviecki al posto della stessa Meloni alla sua presidenza le cose cambiano: c’è un evidente spostamento della linea politica dell’Ecr verso la destra estremista anti-europea.


Subito dopo la sua elezione, Morawiecki si è espresso in modo chiarissimo contro l’idea di rimuovere il diritto di veto che oggi blocca spesso le decisioni di politica estera europea, rendendo l’Ue incapace di prendere posizione e di agire sulla scena internazionale, e rendendo difficile, quando non impossibile, realizzare quella ‘autonomia geostrategica’ europea che pure era finora promossa e auspicata dallo stesso Ecr, o almeno dalla sua componente italiana, Fdi, e da Giorgia Meloni. Non solo: l’ex premier polacco ha sparato a zero contro la Commissione europea di Ursula von der Leyen, con cui Meloni rivendica, non a torto, di aver costruito un rapporto privilegiato (anche approfittando del vuoto lasciato in questi ultimi tempi dall’estrema debolezza dell’asse franco-tedesco, a causa dei problemi politici interni dei due paesi). Per Morawiecki, la Commissione ha semplicemente ‘usurpato’ i poteri degli Stati nazionali. Addirittura, ha aggiunto, è proprio questa, e non il diritto di veto degli Stati membri, la ragione della debolezza dell’Europa sulla scena mondiale: ‘Non saremo rilevanti se non elimineremo la burocrazia e la centralizzazione del potere a Bruxelles da parte della Commissione europea. Questo è il principale ostacolo affinché l’Europa torni a essere grande’. Una dichiarazione, pronunciata in inglese, (‘for Europe to be great again’)’, che parafrasa non casualmente l’America ‘great again’ di Donald Trump.


Innanzitutto, nel passaggio da Meloni a Morawiecki c’è un cambiamento di prospettiva notevole, a causa della situazione nazionale retrostante. Il nuovo presidente polacco dell’Ecr è espressione del Partito del diritto e della libertà (Pis), che in Polonia sta conducendo una battaglia durissima contro l’attuale premier del Ppe, Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo, che ha sconfitto l’estrema destra alle ultime elezioni. Il Pis, dopo anni di potere incontrastato e di contrapposizione a Bruxelles da posizioni molto simili a quelle dell’Ungheria di Viktor Orban (salvo che nella posizione riguardo alla Russia), ha dovuto cedere la guida del governo a Tusk. Per Morawiecki, il Ppe è innanzitutto il nemico in casa, che spera di sconfiggere alla prima occasione. Per Meloni, il Ppe a livello nazionale è rappresentato da Forza Italia, il fedele alleato di governo, con cui va d’amore e d’accordo, anche per controbilanciare le pretese dell’altro alleato, la Lega, sempre più radicalizzato a destra e su posizioni anti europee. Questa situazione negli equilibri di potere nazionali è uno dei fattori più importanti della ‘moderazione’ e del pragmatismo mostrati da Meloni e dal suo Fdi sulle questioni europee, dove qualunque accento ideologicamente e radicalmente contrario all’Ue comporterebbe inevitabilmente uno scontro interno con Forza Italia, e imbarazzerebbe quest’ultima di fronte agli europei nel Ppe.


Ma c’è anche un altro elemento, non meno importante, che finora aveva stupito non pochi osservatori internazionali, di sincera evoluzione su posizioni più europeiste da parte di Fdi, riguardo al ruolo dell’Europa nel mondo. E’ l’applicazione logica e conseguente del principio di sussidiarietà, spesso evocato da Meloni e dai politici di Fdi, secondo cui gli Stati devono occuparsi delle questioni nazionali più vicine al loro livello di potere, mentre l’Ue dovrebbe avere tutto il margine necessario per agire laddove le ‘nazioni’ non possono farlo adeguatamente: in politica estera, nella sicurezza e difesa comune, nel commercio estero, nella cosiddetta ‘autonomia geostrategica’, che significa il controllo degli approvvigionamenti delle materie prime e delle catene del valore, e in sostanza in una vera e propria politica industriale europea che rafforzi la competitività delle imprese e ne riduca le dipendenze dai paesi terzi ‘non sicuri’, e che freni la ‘desertificazione industriale’ in atto in diversi comparti. Meloni e Fdi, ci era sembrato di capire, non vogliono che l’Europa, gigante economico come mercato, resti un nano politico a livello mondiale; anche perché in questo modo finisce, e sta finendo, per perdere rapidamente posizioni anche sul piano economico e di mercato. Forse avevamo capito male. Forse il nuovo ‘europeismo moderato’ di Fdi e di Giorgia Meloni era pura tattica, e non una nuova strategia politica. Questo sembra dire, in modo abbastanza chiaro, il ‘manifesto’ politico di Morawiecki, esposto alla stampa subito dopo la sua elezione alla presidenza dell’Ecr, martedì 14 gennaio; e lo hanno confermato anche i due politici più importanti di Fdi al Parlamento europeo, Carlo Fidanza, capodelegazione degli eurodeputati italiani (eletto anche vicepresidente del Partito europeo), e Nicola Procaccini, co-presidente del gruppo.


‘Non c’è differenza tra noi riguardo al diritto di veto in politica estera’, ha puntualizzato Fidanza durante la conferenza stampa di Morawiecki. Quindi se si presume questo – ha ribadito -, ‘non c’è differenza. Noi siamo d’accordo su questo punto’. Analoga, anche se più elaborata, è stata la risposta di Procaccini. ‘Come si fa – gli abbiamo chiesto – ad avere l’autonomia geostrategica e la potenza geopolitica dell’Europa se si mantiene il diritto di veto nella politica estera? Abbiamo visto che l’Europa rimane un nano politico quando c’è l’Ungheria che si oppone, per esempio, alle decisioni riguardanti le sanzioni contro la Russia’. ‘Per quanto riguarda il discorso del diritto di veto – ha risposto Procaccini -, intanto mi piacerebbe fare un riferimento storico su quante volte è stato posto il diritto di veto; o meglio, quante volte non si sia superato il diritto di veto. Non mi risulta che sia mai accaduto; mi risulta naturalmente che il fatto che una nazione possa porre il proprio veto su una decisione comune abbia favorito una discussione, certamente più lunga di quella che probabilmente ci sarebbe stata senza il veto. C’è stata una maggiore trattativa per arrivare a un compromesso certamente più difficile, più complicato, ma si è sempre raggiunto un compromesso’. ‘Ora – ha affermato il co-presidente del gruppo Ecr al Parlamento europeo, con una sua personale interpretazione della storia dell’integrazione comunitaria -, qui ci sono due modelli: uno è il modello originale dell’Unione europea, che è un modello confederale; e nel modello confederale il diritto di veto è garantito a tutti gli stati nazionali. Dall’altra parte, c’è un modello federalista, rispettabile, legittimo, che chiaramente non prevede il diritto di veto. Ma lasciatemi ribadire una volta ancora che non è il modello originale dell’Unione europea. L’Unione europea nasce come sistema confederale, e noi sosteniamo l’idea originale di Unione europea’. Non è chiaro a quali fonti storiche si riferisca Procaccini, per affermare che il ‘modello originale’ dell’integrazione europea sia quello confederale e non quello federalista. Com’è noto, alle origini dell’integrazione europea, dopo la seconda guerra mondiale, i due ‘modelli’ che si confrontarono furono quello federalista e quello funzionalista. Quest’ultimo ebbe la meglio, soprattutto dopo la bocciatura da parte del Parlamento francese della ratifica del Trattato (di carattere federale) sulla Comunità europea di difesa (Ced), nell’agosto del 1954. Ma i ‘funzionalisti’ come Jean Monnet e Robert Schuman (a cui si deve la fondazione della Ceca, la prima Comunità europea, quella del carbone e dell’acciaio) non erano contrari all’Europa federale: semplicemente, consideravano che era un traguardo finale, da raggiungere cominciando con la messa in comune ‘funzionale’ delle risorse economiche. Sapevamo che uno degli obiettivi politici più importanti di tutta la destra europea, e anche di una buona parte del Ppe (che il suo presidente, Manfred Weber, definisce ora chiaramente di centro-destra e non più di centro come è stato per decenni), è quello di fare marcia indietro su almeno alcuni obiettivi importanti del Green Deal, il piano strategico di trasformazione e crescita economica che era stato il programma principale e più caratterizzante della prima Commissione von der Leyen, cinque anni fa. Ma qui sembra che la retromarcia perorata dall’Ecr (compresa, a questo punto, la sua componente italiana) riguardi molto di più: i Conservatori di Morawiecki chiedono di tornare indietro niente meno che sullo stesso processo d’integrazione europea, con una rinazionalizzazione delle competenze e dei poteri ‘usurpati’ dall’Ue, e in particolare dall’odiata Commissione. E per fare questo, chiamano il Ppe ad allearsi con loro e con l’estrema destra nel Parlamento europeo. ‘Se c’è un’opzione per costruire una coalizione con il Ppe e con i Patrioti per l’Europa (il gruppo di estrema destra, ndr) su alcune cose importanti per noi, possiamo farlo’, ha sottolineato Morawiecki. ‘Oggi l’Ecr è al centro’ nello scacchiere politico europeo. ‘Alla nostra destra ci sono i ‘Patrioti’ e altri (i Sovranisti dell’Esn, ndr); alla nostra sinistra c’è il Ppe’. Insomma, ha concluso il presidente dell’Ecr, ‘il Ppe è ora a sinistra del centro. Questo è fattuale. Ma noi possiamo collaborare con tutti per il bene dell’Europa e per il bene degli stati membri dell’Europa’. Di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Le pagelle europee del 2024, a Giorgia 4 a Meloni 8: media 6

Le pagelle europee del 2024, a Giorgia 4 a Meloni 8: media 6Roma, 27 dic. (askanews) – Per la presidente del Consiglio italiana il voto tiene conto di due diverse persone. Da un lato c’è Giorgia, l’esponente politico che pensa di essere ancora all’opposizione, che urla fino a perdere la voce dal palco di Atreju e che pensa di essere accerchiata da nemici che tramano in ogni modo per farla cadere. Dall’altro c’è Meloni, la leader conservatrice moderata che dall’iniziale scetticismo ha saputo conquistare il rispetto e anche la stima di molti colleghi a livello europeo e mondiale.


Giorgia è rinchiusa nel suo ufficio a Palazzo Chigi, con una cerchia sempre più ristretta di persone fidate, sostanzialmente familiari (di sangue o “acquisiti”), annuncia via social grandi risultati, miracoli economici, disoccupazione in calo ma poi in privato si infuria per la manovra che, anche quest’anno, il suo governo fatica a gestire o per i giudici che incredibilmente – secondo lei – bloccano il “modello” Albania. Le grandi riforme – autonomia e premierato – sembrano avviate verso un fallimento, il suo esecutivo sforna a ripetizione decreti, talvolta di dubbio valore, da far approvare a colpi di fiducia, proprio lei che tuonava contro il ricorso a uno strumento che mortifica il Parlamento. Ha il terrore dei “poteri forti” e del “deep state”, vede continui agguati della stampa italiana – che in realtà raramente si ricorda così benevola con un premier – non si fida dei suoi vice né dei suoi ministri (alcuni oggettivamente non adeguati) e l’unico che riteneva all’altezza, Raffaele Fitto, l’ha dovuto mandare in Europa. Pure nel suo partito, si mormora nei corridoi, si sono resi conto che qualcosa non va e anche se ancora nessuno esce allo scoperto cresce l’insofferenza per la guida delle Meloni (Giorgia&Arianna). Dopo due anni abbondanti a Palazzo Chigi, dovrebbe rendersi conto che ha una maggioranza ampia, un’opposizione divisa, una stampa benevola e ancora un vasto consenso. E cominciare a governare. Voto 4. Meloni si trova pienamente a suo agio in quelli che chiama i “tavoli che contano”. A Bruxelles era stata accolta con scetticismo, ma ha saputo ritagliarsi un ruolo importante. La nomina di Fitto come vice presidente esecutivo della Commissione – per lei che aveva votato contro il bis di Ursula von der Leyen – è stata sicuramente un risultato notevole, di cui deve ringraziare anche Antonio Tajani e il Ppe, che hanno “garantito” per l’ex ministro permettendo di superare il cosiddetto “cordone sanitario”. Altro risultato è stato convincere la presidente della Commissione a cambiare linea sui migranti. Che si sia o meno d’accordo con l’approccio di Meloni, sicuramente è riuscita a spostare a destra, su questo tema, l’asse dell’Unione europea. Sull’Ucraina ha preso da subito e mantenuto la linea della fermezza nel sostegno a Kiev, sfidando la contrarietà della Lega. Anche sull’automotive il pressing su von der Leyen per cambiare l’impostazione del green deal sembra che stia producendo un ripensamento. Adesso si sta giocando la carta Trump. Nel corso della campagna elettorale Usa ha evitato di esplicitare un sostegno diretto, ma con la foto di Notre Dame ha già superato gli ultras “Maga” Viktor Orban e Matteo Salvini e grazie anche al legame con Elon Musk si propone di essere il “ponte” tra Washington e Bruxelles. Voto 8.


C’è un momento in cui Giorgia e Meloni si incontrano: quando davanti a loro si trovano i giornalisti. Giorgia Meloni non tiene una conferenza stampa da mesi. L’ultima, obbligata, è stata quella al termine del G7 a giugno. La prossima dovrebbe essere quella che tradizionalmente sarebbe di fine anno, e per la quale non ha dato disponibilità fino al 9 gennaio. Per il resto, sia in Italia che all’estero, Bruxelles compresa, si limita, quando va bene, a dei punti stampa volanti, che sembrano darle la tranquillità psicologica di poter “scappare” in caso di bisogno. Cosa che, a dire il vero, raramente fa. Piuttosto quando qualche domanda è un po’ sgradita, o almeno percepita come tale, Giorgia prevale e allora arrivano la rispostaccia o la battuta sarcastica. Si diceva quando va bene perché seguirla è un po’ percorso a ostacoli e un po’ caccia al tesoro, tra agende incomplete o continuamente modificate, programmi “privati” nelle missioni, contatti frettolosi. Malus per Giorgia Meloni e i rapporto con la stampa: – 1 Voto totale: 5


di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Le pagelle europee del 2024, von der Leyen 4: opportunista senza visione

Le pagelle europee del 2024, von der Leyen 4: opportunista senza visioneRoma, 27 dic. (askanews) – Ce l’ha fatta, è stata rieletta presidente delle Commissione per altri cinque anni, e ha avuto anche la fiducia del Parlamento europeo per tutti i suoi commissari, nonostante qualche mal di pancia e diversi rospi ingoiati da parte del centro sinistra (Liberali, Socialisti e Democratici, Verdi). Ma il percorso di Ursula von der Leyen verso il secondo mandato è stato tutt’altro che glorioso: non leadership, ma opportunismo politico, non visione europea ma attaccamento al potere, a qualunque costo. Anche quello di rinnegare sé stessa, per come era stata nel suo primo mandato, fino ad accettare ora la prospettiva di fare retromarcia, di smontare una parte della legislazione già adottata del suo Green Deal. E di lasciarsi dettare dai governi di destra e di centrodestra, ormai largamente maggioritari nel Consiglio, la linea su una gestione sempre più da “Fortezza Europa” dell’immigrazione irregolare e dell’asilo; un’area che, andrebbe ricordato e sottolineato, secondo i Trattati Ue è di competenza delle politiche comunitarie, non nazionali.


Perché la priorità oggi è un’altra: non quella di attuare un programma politico da lei proposto e sottoscritto poi dalla coalizione (in realtà inesistente) dei partiti europei che l’hanno eletta, ma di agire come mera esecutrice del programma e delle nuove politiche del Ppe, sempre più impegnato a rincorrere la destra, per non rischiare di perdere voti. Sulle politiche migratorie, oltretutto, von der Leyen rischia di mettere la Commissione in rotta di collisione con la Corte europea di Giustizia e con l’altra Corte europea, quella dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che potrebbero denunciare e bocciare come contrarie al diritto Ue e al diritto e alle convenzioni internazionali certe proposte annunciate sulla deportazione dei migranti irregolari o sulla criminalizzazione di chiunque li aiuti, invece che dei soli trafficanti.


Per chi aveva creduto in lei e nel suo Green Deal, come “nuova strategia di crescita” e cambiamento di paradigma per l’Europa, von der Leyen si è rivelata una grande delusione. Invece di rivendicare i successi di un programma di trasformazione economica che non aveva precedenti europei se non nel mercato unico del suo grande predecessore Jacques Delors, Ursula l’opportunista ha sostanzialmente avallato, con il suo silenzio, la tesi del Ppe e delle destre, secondo cui in realtà il “Patto verde” era un progetto del socialista olandese Frans Timmermans, il suo ex vicepresidente esecutivo. E tutti suoi, di Timmermans, sono quindi gli “eccessi ideologici” e gli obiettivi irrealistici delle “politiche green”, colpa sua sono le fughe in avanti, l’eccesso di regolamentazione imposto all’industria a scapito della sua competitività. Ecco così redento, scaricandolo su Timmermans, quello che poteva esser visto nel Ppe e tra i Conservatori (compreso Fdi) come un peccato originale di von der Leyen. Che ora è pronta a guidare la reazione conservatrice contro ciò che la sua stessa Commissione aveva voluto e realizzato nella scorsa legislatura, sotto la maligna influenza del suo vicepresidente esecutivo socialista. Von der Leyen, che avrebbe potuto essere ricordata come uno dei pochi grandi presidenti della Commissione, diminuisce sé stessa, rinuncia a un posto importante nella storia europea, perché sa che sarebbe incompatibile con il suo ruolo attuale, con la conservazione del suo potere.


Che poi in realtà è soprattutto il potere del suo team di consiglieri, di cui si fida ciecamente. Questo “inner circle”, guidato dal suo capo di gabinetto Bjoern Seibert, informa e indirizza ogni azione di von der Leyen, lasciandole il ruolo di brava e convincente attrice che recita sul palcoscenico una parte scritta da altri, dietro le quinte. Seibert ha centralizzato il controllo e verticalizzato il potere dentro la Commissione in modo sistematico, con un’idea tutta tedesca di dominazione assoluta: niente gli sfugge, nessuna iniziativa può essere presa, nessuna promozione è possibile senza il suo via libera. Anche la distribuzione di portafogli ai commissari risponde a questa logica, con l’attuazione del principio “divide et impera”: le competenze più importanti non sono mai in mano a una sola persona, ma frammentate, in modo che alla fine, in caso di controversia, prevalga la presidenza, cioé von der Leyen, cioè Seibert. E in tutto questo viene a mancare sempre di più la vera forza della “funzione pubblica europea”: la motivazione integrazionista che aveva caratterizzato la Commissione in passato; oggi è diventata in gran parte un’amministrazione pubblica come qualunque altra, soggetta a un management di tipo anglosassone (nonostante la Brexit) in cui quello che conta sono le performance, l’abilità e le carriere personali dei funzionari, non gli obiettivi europei. “Nella Commissione, ormai di Europa non parla più nessuno”, ci diceva recentemente una funzionaria delusa.


Paradossalmente, insomma, la “presidenzializzazione” perseguita dalla Commissione von der Leyen comporta una mancanza di spessore politico reale da parte della presidente, a cui corrisponde un potere oscuro ma pesantissimo dietro di lei. Con l’inizio del nuovo mandato, si preannuncia una Commissione intergovernativa invece che comunitaria, al servizio degli Stati membri, di alcune lobby economiche e di una determinata parte politica (il Ppe) invece che dell’interesse comune europeo. Una Commissione che rincorre invece di guidare, che rischia di far tornare indietro il disegno europeo. Per tutto questo, la pagella di Ursula von der Leyen è ben al di sotto della sufficienza, anche se si può ancora sperare che non si realizzino tutte le premesse negative. Voto: 4. di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Le pagelle europee del 2024, Gentiloni voto 8: mancherà all’Ue

Le pagelle europee del 2024, Gentiloni voto 8: mancherà all’UeRoma, 27 dic. (askanews) – Paolo Gentiloni ha portato a termine il suo mandato di commissario all’Economia insistendo ad ogni suo intervento pubblico sulla necessità di ricorrere ancora al debito comune europeo per gli obiettivi comuni strategici, come è stato già fatto per il sostegno Ue alla cassa integrazione durante il Covid (programma Sure), per il Pnrr (programma “NextGenerationEU”) e recentemente per un prestito all’Ucraina.


Ostinatamente, ha continuato a indicare una strada che i tabù ideologici dei paesi “frugali”, soprattutto Germania e Olanda, continuavano a escludere a priori, come se non fosse economicamente praticabile. E lo ha fatto anche contro la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che ha semplicemente ignorato, come se non esistesse, questa ipotesi, anche quando l’ha prospettata Mario Draghi nel suo Rapporto sulla competitività europea. Come commissario all’Economia, Gentiloni è stato sempre brillante, competente, solido, chiaro nelle sue dichiarazioni, correttissimo nei suoi rapporti con la stampa. Attento a far prevalere sempre gli obiettivi, le finalità delle politiche economiche e finanziarie, e soprattutto la necessità di salvaguardare e incoraggiare gli investimenti pubblici e privati, rispetto all’applicazione pedissequa di regole europee che erano state forgiate nella temperie dell’austerità, come risposta sbagliata della “Europa tedesca” alla crisi economica e finanziaria 2008-2014, e in particolare alla crisi del debito sovrano nell’Eurozona del 2011.


Quando c’è stata l’occasione di cambiarle, quelle regole, dopo la sospensione del Patto di stabilità a seguito del Covid, Gentiloni si è impegnato al massimo per cercare soluzioni migliori, più flessibilità, parametri più realistici e applicabili, tempi di aggiustamento finanziario più lunghi, più incentivazione degli investimenti e delle riforme strutturali. La riforma del Patto di stabilità che aveva presentato è stata attaccata dai “frugali”, e con particolare ferocia dal ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, poi cacciato dal governo dal suo cancelliere Olaf Scholz. E non hanno aiutato la reazione inaspettatamente debole a questi attacchi da parte della Francia e della Spagna, né l’arrendevolezza dell’Italia. Ma alla fine, nonostante i peggioramenti e le “clausole di salvaguardia” aggiuntive, nella riforma (entrata in vigore il 30 aprile scorso) è rimasto l’impianto originario, con la possibilità di spalmare su sette anni invece di quattro il percorso di aggiustamento di bilancio per i paesi in situazione di deficit o debito eccessivo, e con il nuovo indicatore della “spesa primaria netta” che ha sostituito i vecchi parametri difficilmente osservabili o applicabili come la “crescita potenziale”.


Gentiloni ora avrà incarichi internazionali, forse al momento opportuno tornerà in Italia per avere un ruolo di federatore politico della sinistra; e potrebbe ambire, un giorno, al Quirinale. Certo è che è stato uno dei migliori commissari europei espressi dall’Italia in settant’anni. Ci mancherà. Voto: 8


di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Le pagelle europee del 2024, per Draghi nuova delusione: voto 7-

Le pagelle europee del 2024, per Draghi nuova delusione: voto 7-Roma, 27 dic. (askanews) – E’ brillante e preparatissimo ma nella pratica da quando ha lasciato la Bce la sua è la storia di un desiderio non soddisfatto.


L’ultimo capitolo europeo di Draghi ci ha ricordato il gennaio del 2022 quando era in corsa per la Presidenza della Repubblica. Diciamocelo chiaramente. A Draghi di fare il presidente del Consiglio italiano importava veramente poco: la capacità di mediazione e di ascolto che il ruolo richiede non appare proprio nelle sue corde. Era però quello il necessario passaggio verso il Quirinale. Il patto con Sergio Mattarella – se c’è stato, ma non lo sappiamo – sembrava essere questo: ‘gestisci il Paese in un momento di emergenza e poi vieni al mio posto’. Draghi lo ha fatto, con lui l’Italia ha sicuramente riconquistato prestigio e autorevolezza a livello internazionale (la foto con Emmanuel Macron e Olaf Scholz a bordo del treno per Kiev ne fu la plastica rappresentazione) con un grande beneficio anche sulla stabilità finanziaria. Al momento dell’elezione del presidente della Repubblica, però, Draghi ha mostrato tutti i suoi limiti come politico, a cominciare dall’autocandidatura del “nonno al servizio delle istituzioni”. Il cronista che in quei giorni passeggiava in Transatlantico scambiando due parole con i peones capiva subito che non sarebbe “mai” (il virgolettato è di uno di loro) stato eletto. Solo Draghi non se ne rendeva conto, non avendo pensato di attivare delle “antenne” in quel Parlamento che aveva sempre trattato con un distacco percepito come disgusto. Quando se ne è accorto, tardi, si è mosso molto ma abbastanza scompostamente, bruciandosi definitivamente. Rieletto Mattarella, si è capito che il suo periodo a Palazzo Chigi era finito, è andato avanti galleggiando per qualche mese ma quando si è presentato al Senato il 20 luglio 2022 per la fiducia ha pronunciato un discorso che suonava come: “Mandatemi a casa”. Così è stato.


Anche nel cambio di legislatura europea ci è parso di vedere l’ambizione di Draghi di avere un ruolo nell’Unione. Ursula von der Leyen gli aveva commissionato un Rapporto sulla competitività che l’ex banchiere ha scritto con la consueta competenza, con scrupolo, con grande capacità di ascolto degli attori economici e anche con una visione “politica” dell’Europa. Lo ha presentato con la stessa presidente della Commissione, poi è stato ospite in varie capitali (a Parigi il 13 novembre Macron lo ha accolto al Collège de France con tutti gli onori), ogni volta tenendo discorsi che sono suonati come gli interventi programmatici di un candidato leader. Se nel 2022 era effettivamente candidato alla presidenza della Repubblica, in questo caso partiva “di rincorsa” come la carta da giocare in caso di emergenza. L’emergenza sarebbe stata rappresentata da una clamorosa bocciatura di von der Leyen per il suo secondo mandato. A quel punto l’Europa in crisi politica, stretta da una parte da Putin e dall’altra da Trump, chi altri avrebbe potuto chiamare se non SuperMario? Ci sembra che abbia accarezzato questa prospettiva, ma stando attento, questa volta, ad evitare passi falsi. Soprattutto Macron sembrava contare su di lui piuttosto che su von der Leyen, anche per riconfermare la sua linea contraria al sistema dello “spitzenkandidat”, ovvero alla presidenza della Commissione attribuita automaticamente al “candidato guida” del partito europeo uscito vincente dalle elezioni. Ma poi Macron è entrato nel tunnel della crisi politica francese e la storia è andata in un altro modo, anche questa volta. Come consolazione, Draghi ha visto gran parte delle idee e conclusioni del suo Rapporto sul futuro della competitività dell’Ue copiate e incollate da von der Leyen nelle lettere di missione dei nuovi commissari europei. Voto: 7-


di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Migranti, Consiglio Ue pronto a direttiva che criminalizza chi li aiuta

Migranti, Consiglio Ue pronto a direttiva che criminalizza chi li aiutaRoma, 21 dic. (askanews) – Matteo Salvini è stato assolto nel processo di Palermo sulla vicenda Open Arms, ma la questione della criminalizzazione delle Ong e degli individui che “favoreggiano” i trafficanti e l’ingresso illegale dei migranti nei paesi dell’Ue resta di attualità, con una nuova proposta di direttiva “anti smuggling” sul tavolo dei co-legislatori comunitari.


Il 13 dicembre, il Consiglio Ue, sotto presidenza semestrale di turno ungherese ha approvato la sua posizione comune (“approccio generale”) sulla nuova direttiva contro il traffico di migranti, che stabilisce norme minime comuni relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in materia di favoreggiamento non solo dell’ingresso, ma anche del transito e del soggiorno illegali di cittadini di paesi terzi nel territorio di uno Stato membro. La direttiva contiene misure volte a prevenire e contrastare questi reati e prevede anche multe e pene detentive fino a tre anni per chi commette il reato di favoreggiamento del traffico, e fino a otto anni quando sono coinvolte organizzazioni criminali, o quando i migranti subiscono violenze o sono minori non accompagnati o persone vulnerabili. L’Ong Picum (Piattaforma per la cooperazione internazionale sui migranti irregolari) ha denunciato il testo uscito dai negoziati nel Consiglio, sostenendo che “lascerebbero la porta aperta alla criminalizzazione dei migranti e alla solidarietà nei loro confronti”. In particolare, il testo “non introduce una disposizione giuridicamente vincolante che esenterebbe dalla criminalizzazione gli atti di solidarietà con le persone in situazione irregolare”, quando il “favoreggiamento” dell’ingresso, del transito o del soggiorno illegali nel territorio di uno Stato membro è avvenuto senza che vi fosse un beneficio materiale o finanziario, effettivo o anche solo “promesso” per la persona responsabile, o quando abbia assunto la forma di una assistenza ai familiari stretti dei migranti o di un sostegno per soddisfare i loro bisogni umani di base (“clausola umanitaria”).


Invece di introdurre un articolo specifico, giuridicamente vincolante, che proibisca di criminalizzare questi atti umanitari di solidarietà verso i migranti, il testo varato dal Consiglio Ue, che ora dovrà essere concordato per la sua versione finale nei negoziati del “trilogo” con il Parlamento europeo e la Commissione, si limita a proporre su questo punto alcuni “considerando” non vincolanti, che sostanzialmente lasciano agli Stati membri la facoltà di adottare o di mantenere norme più rigorose nel proprio ordinamento nazionale, se lo desiderano. La direttiva prevede solo norme minime europee da recepire nelle legislazioni nazionali. Il “considerando” numero 6a afferma infatti: “Gli Stati membri dovrebbero garantire che aiutare intenzionalmente un cittadino di un paese terzo a entrare, transitare o soggiornare nel territorio di uno Stato membro in violazione del pertinente diritto dell’Unione o delle leggi dello Stato membro interessato (…) costituisca un reato almeno quando la persona che mette in atto la condotta richiede, riceve o accetta, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, o una promessa dello stesso, o mette in atto la condotta al fine di ottenere tale vantaggio. Tuttavia, poiché la presente direttiva è uno strumento di armonizzazione minima, gli Stati membri sono liberi di criminalizzare tale condotta quando non è stato fornito alcun vantaggio finanziario o altro vantaggio materiale”.


E il considerando 6, pur ribadendo che: “l’assistenza all’ingresso, al transito o al soggiorno illegali nell’Unione dovrebbe costituire un reato almeno quando vi è un collegamento con un vantaggio finanziario o materiale effettivo o promesso”, precisa poi che “ciò non pregiudica il modo in cui gli Stati membri trattano nel loro diritto nazionale le condotte di favoreggiamento per le quali un vantaggio finanziario o materiale effettivo o promesso non è un elemento costitutivo del reato”. Riguardo alla “clausola umanitaria”, nel considerando 7 si legge che “nessuna disposizione della presente direttiva dovrebbe essere intesa come richiesta di criminalizzare, da un lato, l’assistenza fornita ai familiari stretti e, dall’altro, l’assistenza umanitaria o il sostegno alle esigenze umane fondamentali forniti ai cittadini di paesi terzi in conformità al quadro giuridico nazionale e internazionale applicabile”. Ma di questo avvertimento, come abbiamo detto, non c’è traccia poi nell’articolato, e in particolare nell’articolo 3, che si limita a disporre le prescrizioni per la criminalizzazione del favoreggiamento del traffico, senza precisazioni ulteriori su quando non va applicata.


In una critica serrata alla direttiva, Picum avverte che in questo modo potrebbero essere criminalizzate anche le normali forniture di servizi dietro pagamento (come trasporto, anche in taxi, o locazione di immobili) ai migranti che non soggiornano legalmente in uno Stato membro (la direttiva si applica anche al favoreggiamento del transito e del soggiorno illegale nei paesi Ue, e non solo all’ingresso), o quando i migranti accettano di svolgere compiti assegnati loro dai trafficanti (come stare al timone di un barcone) in cambio di uno sconto sulla cifra da pagare per il loro viaggio verso l’Europa. Tutto questo comporta “una reale preoccupazione che gli Stati membri aumenteranno le procedure legali contro i migranti e le persone che li aiutano”, secondo l’Ong, che sottolinea come “la tendenza verso una maggiore criminalizzazione rischierebbe anche di colpire le vittime stesse del traffico” e i loro familiari. Alcuni Stati membri avrebbero preferito un testo più attento alla “clausola umanitaria”. Secondo quanto riporta l’Agence Europe del 13 dicembre, la Germania, pur non essendosi opposta, ha precisato che l’obiettivo di questa direttiva “non è quello di rendere l’aiuto umanitario un reato penale”, come ha affermato la Segretaria di Stato Angelika Schlunck. Molto più dura la Spagna, secondo cui il messaggio politico inviato “è preoccupante”. Il Ministro Félix Bolaños ha sottolineato che “la clausola umanitaria deve essere inclusa nel corpo del testo”, e non solo in un considerando. La palla ora è nel campo del Parlamento europeo, che deve ancora adottare la sua posizione, prima che comincino i negoziati del “trilogo” sulla legislazione. di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Ue-Mercosur, il concetto ambiguo degli “standard produttivi”

Ue-Mercosur, il concetto ambiguo degli “standard produttivi”Roma, 21 dic. (askanews) – Una delle più importanti rivendicazioni delle associazioni di categoria del settore agricolo europeo, nella loro durissima opposizione all’accordo commerciale Ue-Mercosur, riguarda un concetto a dir poco ambiguo, per il modo in cui viene interpretato. Si tratta degli “standard produttivi” applicati alle imprese agroalimentari dei paesi latino americani, che consentono l’uso di sostanze vietate nell’Ue, o la loro presenza residuale nei prodotti al di sopra delle soglie massime fissate dalla legislazione europea.


L’equazione è semplice: se i produttori del Mercosur sono meno esigenti e usano queste sostanze (antibiotici e ormoni di crescita negli allevamenti, Ogm e determinati pesticidi nelle coltivazioni), allora le ritroveremo nei loro prodotti importati nell’Ue. E i produttori europei, che invece non possono usarle, saranno svantaggiati sul loro proprio mercato nella concorrenza con i sudamericani. Inoltre, le organizzazioni agricole europee, e anche gli ambientalisti, una parte della Sinistra, i partiti di estrema destra e alcuni governi dei Ventisette, paventano l’impatto negativo “importato” sulla salute e sull’ambiente che l’Accordo determinerebbe, aprendo le porte del mercato unico ai prodotti dal Mercosur che non rispettano gli standard di qualità e di sicurezza alimentare dell’Ue.


In realtà, oggi l’Ue importa già diversi prodotti agroalimentari del Mercosur, ma in quantità ridotte a causa degli alti dazi che vengono applicati. L’Accordo prevede un aumento contenuto e contingentato delle importazioni, con dazi “preferenziali” più bassi, per una serie di prodotti “sensibili” (carne bovina e suina, pollame, zucchero, etanolo, riso, miele), che potrebbero provocare perturbazioni sui mercati degli Stati membri. Ma non c’è alcuna modifica, nell’Accordo, del sistema già esistente per quanto riguarda la presenza, nei prodotti importati, di residui delle sostanze proibite o sottoposte a limitazioni d’uso nell’Ue. Il sistema dei controlli all’importazione prevede già oggi che i prodotti che entrano nel mercato unico europeo siano sottoposti a verifiche e ispezioni nel paese d’origine, e che la loro provenienza sia rigorosamente tracciata, per accertare che la produzione avvenga in aziende e stabilimenti certificati che non usano sostanze chimiche, pesticidi, ormoni di crescita o antibiotici vietati nell’Ue. Ulteriori controlli sono poi regolarmente effettuati anche alle dogane, quando i prodotti arrivano sul mercato europeo.


Nei paesi del Mercosur, in effetti, possono esserci “standard produttivi” diversi a seconda che i prodotti siano destinati all’esportazione nell’Ue, al consumo interno o all’esportazione verso altri paesi. Come ci ha spiegato recentemente un funzionario della Commissione, “le nostre regole per l’importazione non cambiano. Riguardo a ormoni e pesticidi, ad esempio, abbiamo una legislazione molto robusta: noi fissiamo i nostri livelli nell’Ue, e questi si applicano anche alle importazioni. È vero che in Brasile vengono usati gli ormoni di crescita negli allevamenti. Ma la carne brasiliana esportata verso il nostro mercato deve rispettare le norme sanitarie dell’Ue, che vietano l’uso degli ormoni, e quindi deve essere senza ormoni. Per questo, in Brasile c’è un doppio sistema (‘split system’, ndr): ci sono aziende agricole che producono per l’Ue e che non possono usare gli ormoni”. “Per queste aziende – ha precisato ancora – ci sono dei controlli al momento della macellazione; e poi c’è il nostro servizio di ispezione: prima di autorizzare l’esportazione verso l’Ue da un allevamento brasiliano, i nostri ispettori vanno sul posto e controllano che i produttori rispettino le nostre regole”.


E’ proprio qui insomma, stando a quanto spiegano alla Commissione, che si rivela fuorviante il concetto secondo cui, siccome gli “standard produttivi” del Mercosur non sono identici o equivalenti a quelli dell’Ue, non si può garantire lo stesso livello di sicurezza per i consumatori. Per assicurare che tutti i prodotti che entrano nel mercato unico siano conformi alle normative europee, non è necessario applicarle all’intera produzione del paese esportatore, ma basta che quelle norme siano rispettate dai soli prodotti importati. E, a quanto afferma ancora la Commissione, non sarebbe comunque un accordo commerciale lo strumento appropriato per introdurre delle “clausole specchio” o “di reciprocità”, che comporterebbero per le controparti l’adozione delle stesse regole e degli stessi standard produttivi su tutto il loro territorio nazionale e per tutte le loro aziende. di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Settimana europea per Meloni, a Roma si fa un gran parlare

Settimana europea per Meloni, a Roma si fa un gran parlareRoma, 21 dic. (askanews) – Antonio Tajani con Elly Schlein, Matteo Renzi con Maurizio Landini. Sarà lo spirito del Natale, che rende tutti più buoni, ma a Roma si fa un gran parlare. Del resto lo ha ricordato il presidente della Repubblica nella tradizionale cerimonia per gli auguri alle alte cariche al Quirinale: la democrazia si alimenta di “relazioni” e non di “contrapposizioni”, il ruolo si esercita con dei “limiti” e “senza invasioni di campo”.


Scena 1 Martedì 17 dicembre, mattina, buvette della Camera dei deputati. Giorgia Meloni ha appena finito di pronunciare le sue comunicazioni in vista del Consiglio europeo e la seduta è sospesa per permetterle di consegnare il testo dell’intervento in Senato. Con la voce rauca per il comizio ad alti decibel di Atreju, ha appena rivendicato, ancora una volta, la “missione compiuta” (che fa un po’ George W. Bush sulla USS Lincoln dopo l’operazione in Iraq) per la nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo “con un portafoglio da mille miliardi”. Al bancone del bar di Montecitorio sorseggiano un caffè il ministro degli Esteri e la segretaria del Pd. Il luogo è paradossalmente perfetto per tenere i temi del colloquio riservati: tazzine che sbattono, avventori che chiacchierano, camerieri che si passano gli ordini. Dunque si può solo immaginare, in base a qualche frase captata, l’argomento principale di discussione: la Rai, su cui i partiti sono completamente “incartati” e non riesce a passare la nomina a presidente di Simona Agnes, sponsorizzata da Gianni Letta e dallo stesso leader di Forza Italia. “Intanto pensaci su…”, il saluto di Tajani alla leader democratica, prima di separarsi. Chissà su cosa…


Scena 2 Martedì 17 dicembre, pomeriggio, salone delle feste del Quirinale. Gli invitati sono arrivati, con molto anticipo, per la cerimonia degli auguri, tradizionalmente luogo di incontri e saluti. In prima fila è schierato tutto il governo, dietro via via gli altri. Il cerimoniale ha messo accanto Schlein e Giuseppe Conte (sai mai che l’atmosfera suggerisca di essere anche politicamente più vicini), il neo-ministro Tommaso Foti è uno dei più cercati e festeggiati per la nomina. In un angolo della sala parlottano a lungo Renzi e Landini, il creatore del Jobs Act e colui che vuole smontarlo per via referendaria. Discutono a lungo, prima di salutarsi. Chissà di cosa. Il cronista che incrocia l’ex premier prova a buttarla là con una battuta: “Compromesso storico?”. La risposta di Renzi è uno scherzoso ma fermo diniego (irripetibile qua).


di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli