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Antibiotici, nuovi test diagnostici contro i ‘supermicrobi’

Antibiotici, nuovi test diagnostici contro i ‘supermicrobi’Roma, 31 mag. (askanews) – Rapidi, precisi e affidabili. Grazie a test diagnostici innovativi è oggi possibile individuare, nel giro di poche ore, non solo gli agenti patogeni responsabili di un’infezione, ma anche a quali farmaci sono sensibili. Utilizzati in maniera appropriata, questi nuovi strumenti diagnostici potrebbero ridurre i decessi per infezioni resistenti agli antibiotici di ben il 30% permettendo di individuare in tempi rapidi il farmaco idoneo. Questo si tradurrebbe per il nostro Paese in circa 3.300 vite salvate ogni anno. Ne sono convinti gli esperti riuniti in occasione della presentazione del nuovo Polo di Ricerca & Sviluppo di bioMérieux, a Bagno a Ripoli in provincia di Firenze. Un investimento che apre uno spazio nuovo nella ricerca in Italia in questo ambito. L’Italia è infatti considerata “maglia nera” in Europa per antibiotico-resistenza con ben 11mila decessi registrati in un anno. Il nuovo hub di Bagno a Ripoli, su cui bioMérieux ha puntato 9 milioni di euro, ha l’obiettivo di individuare e mettere a punto nuove soluzioni diagnostiche in grado in grado di contrastare l’emergenza “supermicrobi”. Inoltre, la multinazionale della diagnostica prevede di portare nello stabilimento toscano la produzione di un sistema di diagnostica di ultima generazione basato sulla spettrometria di massa che consente di individuare rapidamente le specie microbiche presenti in un campione biologico.


“Nell’Unione Europea più di 670mila infezioni sono dovute a batteri resistenti agli antibiotici, mentre circa 33mila persone muoiono come diretta conseguenza di queste infezioni – sottolinea Maurizio Sanguinetti, direttore del Dipartimento Scienze di Laboratorio e infettivologiche, direttore della UOC Microbiologia, Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, ordinario di Microbiologia all’Università Cattolica -. L’Italia è il primo Paese europeo per numero di morti per l’antibiotico-resistenza, un terzo dei quali prevenibili grazie un approccio proattivo all’individuazione e al trattamento mirato di agenti patogeni resistenti”. Oggi, infatti, la sola prevenzione non basta più. “Siamo arrivati al punto che per contrastare l’avanzata dei cosiddetti ‘super-microbi’, batteri e funghi che hanno imparato a resistere a molti degli attuali trattamenti disponibili, abbiamo bisogno di ricorrere a strategie diagnostiche innovative ed all’avanguardia, che consentono di individuare in tempi rapidi farmaci in grado di sconfiggerli- evidenzia Pierangelo Clerici, presidente dell’Associazione Microbiologi Clinici Italiani (AMCLI) -. Secondo le nostre stime con questi nuovi test diagnositici si potranno ridurre i decessi di oltre il 30%”.


Il vantaggio non riguarda solo vite umane risparmiate, ma anche preziose risorse economiche che il Servizio Sanitario Nazionale potrebbe investire diversamente per migliorare la sua risposta ai bisogni di salute. “La antibiotico-resistenza e le infezioni correlate all’assistenza hanno un impatto enorme sul nostro sistema sanitario nazionale – spiega Gian Maria Rossolini professore ordinario di Microbiologia e Microbiologia Clinica all’Università degli Studi di Firenze e direttore della Unità Operativa di Microbiologia e Virologia dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria Careggi – si stima che ogni anno siano responsabili di 2,7 milioni di ricoveri per un costo diretto complessivo che ammonta a circa 2,4 miliardi di euro”.

Sclerosi Multipla: 140mila colpiti, emergenza sanitaria e sociale continua

Sclerosi Multipla: 140mila colpiti, emergenza sanitaria e sociale continuaRoma, 31 mag. (askanews) – Oggi, in occasione della Giornata Mondiale della Sclerosi Multipla, è stato presentato, presso la Sala della Regina della Camera dei Deputati, il Barometro della Sclerosi Multipla e Patologie Correlate 2024. Elaborato annualmente da AISM, il Barometro offre una fotografia aggiornata della sclerosi multipla e della emergenza sanitaria e sociale che rappresenta in Italia.


La sclerosi multipla (SM) è una grave malattia neurologica, che colpisce oltre 140 mila persone in Italia, con 3.600 nuove diagnosi all’anno: 6 nuovi casi ogni 100.000 persone, 12 in Sardegna. La prevalenza è intorno ai 227 casi per 100.000 abitanti nell’Italia continentale, con eccezione della Sardegna (stima di circa 420 casi per 100.000 abitanti). Si tratta soprattutto di donne, tre ogni uomo, diagnosticate in genere in età giovanile, tra i 20 e i 40 anni. AISM stima in circa 2.000 in Italia le persone con NMOSD – disturbi dello spettro della Neuromielite Ottica e della variante MOGAD, patologie rare molto simili alla sclerosi multipla che vengono seguite negli stessi Centri clinici. In Italia, il costo sociale di SM e NMOSD ammonta a circa 6,5 miliardi di euro l’anno. Il costo medio annuo per persona è di 45.800 e lo Stato si fa carico direttamente, attraverso servizi sanitari e sociali pubblici, di poco meno della metà (22.200 euro pari al 48%). Le famiglie si sobbarcano il 12% mentre il restante 40% è a carico della collettività, legato soprattutto alla perdita di produttività di pazienti e caregiver che smettono di lavorare, e quindi di generare ricchezza, a causa della patologia. I costi sociali aumentano all’aumentare della disabilità. dai 34.600 a persona per una disabilità lieve fino ad arrivare a 62.400 per una disabilità grave ma la quota sostenuta dallo Stato rimane invariata. A sostenere i costi aggiuntivi per la disabilità più severa sono infatti il sistema economico del Paese e le famiglie, che arrivano a spendere di tasca loro circa 14.000 euro annui nei casi gravi, in gran parte per assistenza a domicilio. Il Barometro 2024 presenta i dati dell’indagine realizzata quest’anno su 180 dei 237 Centri Clinici per la SM presenti in Italia e quelli raccolti nel 2023 su circa 1.500 persone con SM, insieme a quelli di fonte istituzionale. I Centri SM sono il punto di riferimento per oltre il 90% delle persone, il 70% delle quali riceve i farmaci modificanti il decorso, che riducono le ricadute e rallentano la progressione. Due terzi di loro riceve una terapia che può fare a casa, e riferisce che questa autonomia migliora la sua qualità di vita. Al restante 35% viene somministra la terapia al Centro clinico, e molti tra questi pazienti apprezzano la possibilità di confrontarsi con i clinici o con altri pazienti. SM e NMOSD generano però bisogni complessi, cui i servizi devono rispondere in modo tempestivo e coordinato. I problemi emergono soprattutto nei ritardi per accedere a Risonanze Magnetiche (36,2%) e visite di controllo (24,7%), e rimangono più spesso insoddisfatti i bisogni che richiedono servizi integrati: riabilitazione (46,9%), trattamento psicologico (45,2%), cure farmacologiche sintomatiche (39,3%) e assistenza domiciliare (19,6%) che le persone hanno indicato di non aver ricevuto, o di aver ricevuto in quantità insufficiente rispetto al bisogno. La crisi del personale che investe tutto il SSN non risparmia i servizi per la SM, secondo i dati 2024 ogni neurologo dedicato segue 558 pazienti e un infermiere 477, valori molto superiori a quelli indicati da AGENAS (1 neurologo ogni 300/400 pazienti). La telemedicina, sebbene abbia potenziato la risposta a distanza, non è ancora pienamente integrata nel sistema sanitario, e anche l’implementazione delle cure digitali si scontra con la mancanza di personale. La diffusione dei PDTA per la SM – Percorsi Diagnostico Terapeutici e Assistenziali – non solo a livello regionale (14 approvati in Italia più 4 in discussione) ma anche a livello territoriale (passano dal 25% del 2022 al 36,5% i Centri che ne hanno uno) segnala che il sistema delle cure, e i Centri SM in particolare, sono aperti a soluzioni innovative, che offrano cure integrate e centrate sulla persona e razionalizzino i loro percorsi di cura. Rimangono però ostacoli organizzativi, di nuovo la carenza di personale è il principale (indicato dall’80% circa dei Centri), ma anche la debolezza dei servizi territoriali e sociali (60% circa) e le complicazioni amministrative alla gestione e condivisione dei dati clinici (57%), rallentano la piena realizzazione dei PDTA. La partecipazione delle persone con SM nelle decisioni che le riguardano non è ancora piena e si ferma al 30% la quota che riferisce di essere molto coinvolto nei processi decisionali relativi alla propria assistenza sanitaria e ai servizi sociali. Promuovere un maggiore coinvolgimento è fondamentale per garantire che le loro esigenze siano adeguatamente soddisfatte. Anche l’accesso a politiche e benefici economici che richiedono valutazione della disabilità rimane per molti problematico: il 60% di chi vi si è sottoposto ritiene che la commissione conoscesse poco la SM, quasi il 70% che non ne considerasse i sintomi invisibili. Il Barometro sottolinea l’importanza fondamentale dei caregiver nel supporto quotidiano alle persone con SM. Soprattutto le persone con disabilità moderata (47,2%) e grave (78,6%) hanno bisogno di aiuto e assistenza in casa, ma oltre il 20% non riesce a riceverlo. Tra chi lo riceve, il 39,7% ha un caregiver familiare, e più in generale il 55% può contare solo sulle proprie risorse, e al tempo dedicato dal caregiver aggiunge quello di personale a pagamento, mentre si ferma al 17,1% la quota di chi riceve aiuto solo dai servizi pubblici. SM e NMOSD generano un rischio importante di esclusione e di discriminazione, che oltre il 75% indica di subire nella vita quotidiana. Il mondo del lavoro (35%) è indicato come il contesto in cui più spesso si realizza la discriminazione, ma anche la burocrazia e quindi il rapporto con i servizi pubblici (34,9%) e i servizi finanziari (20,7%) sono menzionati da quote elevate. Chi riceve la diagnosi durante il percorso di istruzione riporta impatti importanti, il 30% di chi era all’università ha perso anni, e il 18% ha lasciato gli studi. Lo svantaggio quindi si accumula nel tempo, e spesso le persone arrivano già vulnerabili nel mondo del lavoro. Tra chi oggi non lavora, quasi il 60% ha smesso di farlo a causa della SM, e oltre la metà di questi (34%) indica che il contesto di lavoro non si adattava alle sue necessità. L’accessibilità soprattutto degli spazi e dei trasporti pubblici rimane un problema molto frequente, e riguarda non solo il 95% di chi ha disabilità moderata o grave, ma anche il 45% delle persone con disabilità lieve. È uno dei segnali che nella società SM e NMOSD non sono conosciute: oltre il 90% ritiene che la popolazione generale la conosca poco o per nulla, e quote molto simili si esprimono in questo senso a proposito dei giornalisti, del personale di uffici pubblici e privati, e il 51% anche di quelli sanitari non specializzati. Lo confermano d’altra parte gli italiani stessi, secondo l’indagine DOXA 2023 il 64% ritiene di sapere cos’è la SM, ma rimangono diffuse convinzioni scorrette: il 62% ritiene erroneamente che tutte abbiano disabilità grave e il 41% è convinto che non possano lavorare.

Sanità digitale, XTE: dispositivo wearable e centrale operativa

Sanità digitale, XTE: dispositivo wearable e centrale operativaRoma, 30 mag. (askanews) – Un controllo continuo grazie ad una piattaforma di ultima generazione che permette di monitorare, attraverso un dispositivo wearable, i parametri fisiologici individuali in maniera costante e una centrale operativa di ascolto attiva 24 ore su 24, 7 giorni su 7 con medici e personale infermieristico a disposizione in grado di sorvegliare attivamente i pazienti, garantendo quindi controllo, assistenza e prevenzione a domicilio o nelle strutture sanitarie territoriali.


Il nuovo modello operativo XTE, interamente made in Italy, è stato presentato presso il Centro Congressi “La Nuvola” a Roma, nell’ambito del più importante evento europeo nel settore della sanità digitale, HIMSS (Healthcare Information and Management Systems Society), l’organizzazione leader mondiale impegnata a riformare l’ecosistema sanitario globale attraverso il potere dell’informazione e della tecnologia. Il modello di servizi offerti da XTE è basato su una piattaforma gestionale di ultimissima generazione, certificata come software medicale (SaMD), e un dispositivo medicale indossabile, anch’esso certificato (Med Ila) e validato dal Ministero della Salute.


“L’unicità innovativa del progetto, apprezzata molto dal Ministro della Salute Orazio Schillaci anche per la tecnologia completamente made in Italy, – ha dichiarato Riccardo Starace, Amministratore Delegato di Seven Holding, che controlla undici società impegnate in ambito sociosanitario e produttrice di XTE – consiste nella costante interazione tra pubblico e privato in grado di garantire un nuovo modello di approccio all’erogazione di assistenza personalizzata anche specialistica con sistemi tecnologici innovativi. L’integrazione di setting assistenziali diversi, centrale di ascolto, telemedicina, televisite, assistenza domiciliare e servizi poliambulatoriali, rivoluziona l’approccio dell’assistenza sanitaria. Abbiamo ancora una visione ospedale-centrica, per qualsiasi problema di salute siamo abituati a rivolgerci a strutture sanitarie, a medici di famiglia o alla rete dell’emergenza-urgenza, ma la digitalizzazione dei sistemi ci può aiutare in una valutazione del paziente a domicilio, riducendo il carico per il sistema ospedaliero e gli accessi non necessari dei pazienti cronici ai pronto soccorso”. “La disponibilità di una centrale di ascolto operativa h24 – prosegue Starace – garantirà, infatti, la presa in carico del paziente nella propria casa attraverso sistemi digitali di telemedicina e permetterà di seguire il percorso di prevenzione e cura attraverso il monitoraggio dei parametri di salute nonché la possibilità di prenotare check up annuali o pacchetti sanitari in strutture convenzionate sul territorio con anche il supporto delle farmacie territoriali”.


“Vorremmo metterci a disposizione del pubblico con un progetto pilota a supporto della sanità – ha annunciato ad askanews Starace a margine della presentazione – inserendo il nostro sistema nella rete dei medici di base, per far sì che possano fruire a titolo gratuito del servizio. Abbiamo una tecnologia innovativa, unica nel suo genere in Italia e all’estero, già utilizzabile e ci piacerebbe metterla a disposizione per testarla e capire se possiamo contribuire a diminuire gli accessi inopportuni ai pronto soccorso ed evitare l’ospedalizzazione dei malati cronici che in molti casi potrebbero essere seguiti a domicilio”. Il sistema oggi fa riferimento al privato ma Starace vede la “possibilità di un’interazione costruttiva tra pubblico e privato” anche in considerazione del fatto che il sistema sanitario pubblico ha tra i suoi obiettivi “lo sviluppo della telemedicina e il ricorso al digitale”. La Centrale Operativa è già in grado di valutare diversi parametri fisiologici (frequenza cardiaca, saturazione, temperatura, pressione, variabilità della frequenza cardiaca, idratazione, atti respiratori, cadute), importanti per capire lo stato di salute. Molti altri sono in fase di sviluppo e di validazione clinica e saranno disponibili sullo stesso dispositivo non appena ottenuta la certificazione medicale. Tutte le rilevazioni sono eseguite automaticamente, senza richiedere l’intervento di personale specializzato, né la partecipazione dell’utilizzatore, in maniera completamente non invasiva.


Le tecnologie XTE hanno superato anche il severo esame di qualificazione per l’utilizzo sulla Stazione Spaziale Internazionale (Iss), integrate nella tuta spaziale (SFS2) prodotta da SpaceWare e indossata dal Colonnello dell’Aeronautica Militare Walter Villadei durante la missione spaziale AX-3. II dispositivo ha monitorato i parametri di salute dell’astronauta, rilevando le sue condizioni durante la missione, partita il 17 gennaio scorso e durata 19 giorni. Alla base delle proposte di XTE c’è l’attività di Ricerca e Sviluppo realizzata da Advanced Processing, startup innovativa italiana, coordinata dal ricercatore e fisico Raffaele Ciavarella. “Contiamo di continuare a fare ricerca anche per sviluppi in ambito spaziale, – ha detto ancora Starace ad askanews – il nostro centro di ricerca non si pone limiti, abbiamo delle vere eccellenze a cominciare dal direttore del centro il prof. Raffaele Ciavarella. Quindi il nostro obiettivo è continuare a supportare la ricerca anche in questo ambito”.

Iss: in Italia fuma 1 adulto su 4. Allarme giovani: raddoppia policonsumo

Iss: in Italia fuma 1 adulto su 4. Allarme giovani: raddoppia policonsumoRoma, 30 mag. (askanews) – In Italia, la maggioranza degli adulti tra i 18 e i 69 anni non fuma (59%) o ha smesso di fumare (17%), ma un italiano su quattro è fumatore (24%). Questa percentuale cresce però tra i giovani, di cui il 30,2% usa almeno un prodotto tra sigaretta tradizionale, tabacco riscaldato o sigaretta elettronica. Sempre in questa fascia di età raddoppia il policonsumo, l’utilizzo contemporaneo di diversi prodotti. Lo evidenziano i risultati di due diverse indagini dell’Iss (per gli adulti la sorveglianza Passi del Centro Nazionale per la Prevenzione delle malattie e la Promozione della Salute (Cnapps), per i giovani l’indagine sul consumo di tabacco e nicotina negli studenti nell’anno scolastico 2023-2024 del Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità), resi noti in vista della giornata mondiale senza tabacco del 31 maggio, che registrano anche un calo netto del numero dei centri antifumo.


“Negli ultimi 15 anni la percentuale di fumatori si è ridotta, ma troppo lentamente. Erano il 30% nel 2008, adesso si attestano al 24% – evidenzia il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Rocco Bellantone -. Questo processo va accelerato puntando sulla prevenzione, che deve partire dalle scuole. Sono infatti proprio le scuole uno dei luoghi principali in cui costruire una socialità tra i bambini e ragazzi che punti a promuovere stili di vita sani, come l’abitudine a non fumare”. Circa uno studente italiano su tre tra i 14 e i 17 anni (30,2%) ha fatto uso di un prodotto a base di tabacco o nicotina negli ultimi trenta giorni, tra sigarette tradizionali, elettroniche e tabacco riscaldato. Tra le ragazze il consumo è in percentuale leggermente maggiore rispetto ai coetanei maschi. Quasi raddoppia rispetto all’ultima rilevazione 2022 in questa fascia d’età il policonsumo, cioè l’utilizzo contemporaneo di questi prodotti, che si attesta al 62,4%, rispetto a un precedente 38,7%. E’ quanto emerge da un’indagine sul consumo di tabacco e nicotina negli studenti nell’anno scolastico 2023-2024 del Centro nazionale Dipendenze e Doping dell’Istituto Superiore di Sanità su un campione rappresentativo di 6012 studenti. In maniera più marcata per la sigaretta tradizionale, ma anche per i dispositivi a tabacco riscaldato e l’e-cig, il consumo si concentra prevalentemente nel weekend e l’età del primo contatto con la nicotina si attesta tra i 13 anni e mezzo e i 14 e mezzo. Non appaiono esservi stretti controlli sull’età al momento dell’acquisto, tanto che la maggior parte dei ragazzi intervistati afferma di aver acquistato personalmente i prodotti al bar o dal tabaccaio. In circa un caso su tre i genitori sono a conoscenza del fatto che i ragazzi utilizzano un prodotto a base di tabacco o nicotina e sembrano tollerare maggiormente l’utilizzo dei nuovi prodotti rispetto alla sigaretta tradizionale (15,3% HTP; 16,5% e-cig; 9,9% sigaretta tradizionale) “Il marketing sempre più aggressivo nei confronti di questa fascia di età dei prodotti a base di nicotina, che passa da strumenti come il packaging e l’aspetto esteriore dei dispositivi sempre più ‘accattivante’ all’ideazione di sapori ‘fruttati’ più vicini al gusto dei giovani sta facendo sì che l’uso sia sempre più diffuso – sottolinea Simona Pichini, che dirige il Centro Nazionale Dipendenze e Doping dell’Iss -. Non a caso l’Oms ha scelto come slogan per la giornata di quest’anno ‘Proteggere i bambini dalle interferenze dell’industria del tabacco’. Non bisogna dimenticare che la nicotina è una sostanza che dà dipendenza, e che ci sono evidenze degli effetti negativi per la salute anche dall’uso di questo tipo di dispositivi”. La riduzione dei fumatori registrata negli ultimi 15 anni coinvolge tutte le fasce di età e sia uomini che donne, ma con modalità e ritmi diversi. La quota di fumatori si riduce sia fra gli uomini che fra le donne ma fra queste ultime la riduzione risulta più lenta e il risultato è che oggi le donne hanno in parte eroso il vantaggio che storicamente avevano sugli uomini. La riduzione dell’abitudine al fumo si riscontra in generale in tutte le fasce d’età, ma è sostenuta soprattutto dalle coorti più giovani; tuttavia se fra le coorti più giovani si riduce la quota di consumatori di sigarette tradizionali, va di contro aumentando la quota di consumatori, duali o esclusivi, di altri prodotti del fumo (fra e-cig e tabacco riscaldato). E’ il quadro che emerge dal campione di oltre 63mila adulti (18-69enni) raccolto nel biennio 2022-2023dalla sorveglianza Passi coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità, i cui dati vengono diffusi in occasione della giornata mondiale senza tabacco, che si celebra il 31 maggio. Il consumo medio giornaliero è di circa 12 sigarette, tuttavia 22 fumatori su 100 ne consumano più di un pacchetto. Il fumo di sigaretta è più frequente fra gli uomini rispetto alle donne (28% rispetto al 21%) e riguarda molto di più le persone con difficoltà economiche o bassa istruzione. La variabilità territoriale mostra in testa alla classifica delle Regioni con le più alte quote di fumatori alcune realtà del Centro-Sud, come Umbria e Campania. Inoltre, un terzo dei fumatori intervistati dichiara di aver tentato di smettere di fumare nei 12 mesi precedenti, restando almeno un giorno senza fumare. Ma nella stragrande maggioranza dei casi (quasi il 78%) il tentativo fallisce: solo una bassa quota (11%) raggiunge l’obiettivo e riferisce di aver smesso di fumare da più di 6 mesi. Nel biennio 2022-2023 a fronte di una quota di fumatori pari al 24%, il 20% riferisce un uso esclusivo di sigarette tradizionali e il 4% dichiara sia di fumare sigarette tradizionali che di utilizzare un dispositivo elettronico (fra e-cig e tabacco riscaldato). A questi si aggiunge una quota di persone (3%) che fa invece un uso esclusivo di dispositivi elettronici. Si evidenzia quindi, in base al monitoraggio Passi di tutti i dispositivi, una riduzione costante della quota di chi utilizza esclusivamente sigarette tradizionali (dal 25% del 2014 al 20% del 2023) a favore di un aumento di coloro che utilizzano sia sigarette tradizionali che dispositivi elettronici (dall’1,5% del 2014 al 4,4% del 2023); cui si aggiunge poi una quota, anche questa in lenta crescita di coloro che utilizzano solo dispositivi elettronici (dallo 0,4% del 2014 al 3,3% del 2023). “L’uso composito dei prodotti da fumo rappresenta una sfida complessa per la salute pubblica – spiega Giovanni Capelli, Direttore del CNaPPS -, perché non si può escludere che la combinazione di sigarette tradizionali e dispositivi elettronici, con e senza nicotina, si traduca in aumento del rischio per la salute, per l’esposizione ai prodotti della combustione del tabacco che comunque restano e si sommano ai rischi legati alla esposizione a livelli più alti di nicotina e ad una varietà di sostanze chimiche nocive contenute nei dispositivi elettronici”.

Cuore, +20% interventi mininvasivi, ma restano disparità regionali

Cuore, +20% interventi mininvasivi, ma restano disparità regionaliRoma, 30 mag. (askanews) – La Cardiologia interventistica si conferma il cardine del trattamento dell’infarto miocardico acuto in Italia, con una rete capillare sul territorio nazionale che garantisce più di 36 mila procedure di angioplastica primaria (“il palloncino” per riaprire le coronarie chiuse, responsabili dell’infarto acuto), raggiungendo da diversi anni gli standard di fabbisogno delineati dall’epidemiologia di questa malattia. Aumenta la diagnostica con i metodi di imaging più innovativi e con le tecniche per lo studio della funzionalità cardiovascolare, ma siamo ancora lontani dalla media dei Paesi Europei più avanzati. Crescono fino al 20% le procedure di cardiologia interventistica strutturale (interventi sulle valvole cardiache), ma restano ancora al di sotto del fabbisogno della popolazione e con differenze regionali ancora molto marcate. È un bilancio con molte luci ma che ha ancora qualche ombra quello del Report 2023 della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), l’unica realtà italiana dotata di un Registro dell’attività di 273 Laboratori di emodinamica e cardiologia interventistica del Paese. I dati sono stati presentati oggi a Roma durante il congresso GISE Think Heart 2024. Pur con oltre 300 mila coronarografie eseguite nel 2023, che in circa il 50% dei casi hanno portato all’esecuzione di un’angioplastica coronarica (156mila interventi lo scorso anno, tornando così quasi ai livelli pre-Covid), restano criticità nell’interventistica strutturale sulle valvole cardiache: le TAVI sono aumentate del 13%, ma solo un paziente candidabile su due viene sottoposto alla procedura e oltre 10 mila che ne avrebbero l’indicazione non la ricevono, con differenze regionali consistenti nella possibilità di accesso. Sono stati circa 1800 gli interventi di riparazione percutanea della valvola mitralica, in crescita del 20%, ma con un fabbisogno stimato di circa altri 6 mila. Anche il ricorso alla procedura di chiusura percutanea dell’auricola sinistra, importante per la prevenzione dell’ictus, è aumentato del 20% ma con circa 2300 interventi nel 2023 siamo lontani dal fabbisogno reale, considerando che sono più di 100 mila i pazienti potenzialmente candidabili.


“I dati raccolti dal Report GISE, derivanti dall’attività del 93% dei centri di tutto il Paese, consentono di scattare una fotografia molto accurata della cardiologia interventistica in Italia – osserva Francesco Saia, presidente Gise -. I risultati mostrano per esempio che l’88% dei centri offre il servizio 24 ore al giorno, 7 giorni su 7: un dato che conferma la distribuzione capillare sul territorio nazionale di un’infrastruttura essenziale per il trattamento tempestivo dell’infarto miocardico acuto e di altre cardiopatie acute, per le quali l’efficacia del trattamento è strettamente tempo-dipendente. Restano tuttavia alcune criticità, perché, per esempio, sebbene le tecnologie di imaging e di studio funzionale siano in crescita, solo il 20% delle procedure di angioplastica complessivamente è guidato da questi metodi, molto sottoutilizzati rispetto alla media di altri Paesi europei. I motivi sono soprattutto i vincoli economici per l’acquisizione degli strumenti necessari e l’assenza di codifica o tracciamento di queste tecniche, che, come GISE, vorremmo diffondere maggiormente in tutto il Paese”. “La cardiologia interventistica rappresenta una delle aree in cui il processo di innovazione tecnologica è più rapido. Per questo – osserva Marco Marchetti, responsabile Health Technology Assessment di AGENAS – un accesso veloce di tali dispositivi non può che essere legato ad un rigoroso e scientifico processo di valutazione HTA. In proposito, a partire dal gennaio 2026, inizieranno le attività di valutazione HTA a livello europeo (Joint Clinical Assessment) che vedono anche il nostro Paese impegnato”. Per migliorare ancora la qualità delle cure in Italia, per la prima volta il GISE propone di inserire nel Piano Nazionale Esiti un ‘cruscotto’ di indicatori di outcome che consenta di monitorare e soprattutto valutare le prestazioni di cardiologia interventistica: “Proponiamo per esempio di tenere conto non del singolo episodio di ricovero ma dell’intero flusso di cura, considerando tra gli altri elementi le complicanze o le riospedalizzazioni per recidiva dei sintomi – conclude Saia -. O, ancora, di inserire indicatori che valutino aspetti organizzativi e di processo per individuare le criticità con un impatto sugli esiti clinici, come le modalità di presa in carico e dimissioni secondo PDTA, e di utilizzare indicatori sull’impiego delle tecnologie per valutarne il contributo sugli esiti. Tutto ciò consentirà di andare sempre più verso una terapia di valore, centrata sul paziente e che faciliti l’introduzione di tecnologie innovative disincentivando l’utilizzo di quelle obsolete e non più adeguate agli standard di efficacia, sicurezza ed economicità”.

IVI: fumo ostacola gravidanza, ritardi anche di un anno per concepimento

IVI: fumo ostacola gravidanza, ritardi anche di un anno per concepimentoRoma, 30 mag. (askanews) – Il prossimo 31 maggio si celebra la Giornata Mondiale Senza Tabacco, iniziativa voluta dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) per riflettere sull’impatto nocivo che il fumo può avere sulla salute. IVI, istituto internazionale specializzato in riproduzione assistita, approfitta di questa giornata per invitare le donne che aspettano un bimbo e quelle che lo stanno cercando a spegnere subito la sigaretta e ad avere un corretto stile di vita per salvaguardare la propria fertilità.


“Nelle coppie alla ricerca di una gravidanza, consigliamo vivamente di smettere di fumare, sia per l’uomo che per la donna perché può ritardare fino a 12 mesi il concepimento di un bambino – dichiara Daniela Galliano, specialista in Ostetricia, Ginecologia e Medicina della Riproduzione, responsabile del centro PMA IVI di Roma – . La coppia che smette di fumare, già dopo 3/6 mesi di tempo può tranquillamente ritornare ai normali livelli di fertilità. Accendere una sigaretta significa ridurre anche la possibilità di successo della Procreazione Medicalmente Assistita, poiché può far diminuire il tasso di successo dei trattamenti fino al 34%. In particolare, nelle fumatrici si assiste alla diminuzione della riserva ovarica, minore risposta ovarica alla stimolazione, ridotto numero di ovociti recuperati e fecondati e tassi più bassi di gravidanza rispetto alle donne che non fumano”. Molti, quindi, gli effetti del consumo di nicotina sulla fertilità femminile: da problemi di ovulazione e danni a ovaie e a ovociti, fino a menopausa precoce e aumento del rischio di cancro. Inoltre, gli effetti del fumo sono molto pesanti anche sulla gravidanza e sul benessere del neonato: numerosi studi dimostrano come il fumo sia associato ad un aumento delle percentuali di aborti spontanei, nascite premature, rischio di gravidanza multipla, e basso peso del nascituro, che può andare incontro più facilmente al rischio di morbilità e mortalità correlate. La prassi di non fumare prima della gravidanza non dovrebbe coinvolgere soltanto le donne, ma anche gli uomini. “La funzionalità dell’apparato riproduttivo maschile – conclude Galliano – può subire importanti alterazioni in seguito all’esposizione alle sostanze chimiche contenute nelle sigarette, che sono in grado di superare la barriera emato-testicolare. In particolare, è stato evidenziato come il fumo possa determinare delle alterazioni del volume dell’eiaculato, della concentrazione, della motilità e della morfologia nemaspermica. La combustione del tabacco, infatti, genera composti chimici in grado di danneggiare il DNA spermatico. Il rapporto fra sigarette fumate e produzione di spermatozoi è inversamente proporzionale: maggiore è il numero delle sigarette, minore sarà il numero di spermatozoi prodotti. Secondo recenti stime nei fumatori accaniti il calo degli spermatozoi è pari al 22%. La decisione di non fumare prima della gravidanza, da questo punto di vista, può comportare un miglioramento sia dell’integrità seminale, sia contrastare un’altra problematica come la disfunzione erettile direttamente collegata con il tabagismo. Inoltre, non dobbiamo dimenticare il recente studio cinese che ha indagato i potenziali danni per le donne in gravidanza se il proprio compagno è un fumatore. Lo studio “Parental smoking and the risk of congenital heart defects in offspring: An updated meta-analysis of observational studies” ha infatti messo in luce come il nascituro possa soffrire di difetti cardiaci qualora il papà accenda una sigaretta accanto alla propria compagna durante la gravidanza”.


Il Ministero della Salute ha evidenziato come il fumo passivo possa avere un impatto addirittura intergenerazionale: per esempio, nipoti di donne che hanno fumato durante la gravidanza hanno maggiori probabilità di sviluppare l’asma. I bambini esposti al fumo passivo sono più a rischio di bronchiolite, polmonite e altre infezioni respiratorie. A rischio non solo i fumatori tradizionali ma anche i nuovi consumatori di sigarette elettroniche, convinti, erroneamente, che i vapers facciano meno male. Nonostante contengano una minore quantità di sostanze tossiche rispetto a quelle tradizionali, possono comunque influenzare lo stato della fertilità, interferendo con l’ovulazione, causando una diminuzione dell’attività ovulatoria e accelerando la perdita di ovociti, influenzati nella qualità. Inoltre, nel caso di donne incinte che continuano ad utilizzare le sigarette elettroniche, vi è un aumentato rischio di complicanze, come parto prematuro o basso peso alla nascita.

Giornata Sclerosi multipla, compie 10 anni il Centro del Bambino Gesù

Giornata Sclerosi multipla, compie 10 anni il Centro del Bambino GesùRoma, 30 mag. (askanews) – Alle soglie della Giornata mondiale dedicata, taglia il traguardo dei 10 anni di attività il Centro Sclerosi Multipla dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, attivo dal 2014 per la diagnosi, il trattamento e il follow-up di bambini e ragazzi sotto i 18 anni. Il Centro offre cure personalizzate per questa malattia neurodegenerativa, utilizzando le terapie più adatte ai pazienti pediatrici. La partecipazione a trial clinici internazionali – informa l’ospedale – consente, inoltre, l’accesso a nuove cure avanzate mentre è in corso la fase di approvazione per l’età pediatrica.


La sclerosi multipla (SM) è una malattia infiammatoria del sistema nervoso centrale caratterizzata dalla perdita di mielina (la sostanza bianca che riveste come una guaina le fibre nervose) in più aree del cervello e del midollo spinale, con la formazione di lesioni (placche) che possono evolvere da infiammatorie a croniche. La SM può manifestarsi con sintomi diversi a seconda delle regioni interessate, come difficoltà a camminare, problemi di equilibrio o deficit della vista. Sebbene possa insorgere a qualsiasi età, colpisce principalmente giovani adulti tra i 20 e i 40 anni. Nel 10% dei casi, la malattia si manifesta tra i 10 e i 18 anni, mentre è più raro l’esordio prima dei 10 anni. La sclerosi multipla in età pediatrica ha peculiarità cliniche, diagnostiche e terapeutiche che la differenziano dalla forma adulta, richiedendo un approccio specifico. Il sistema nervoso centrale e il sistema immunitario dei bambini sono in sviluppo, quindi l’uso dei farmaci deve tenere conto di questa particolarità. Nel bambino la SM generalmente non causa gravi disabilità permanenti, più comuni negli adulti. Un centro dedicato ai bambini aiuta anche a mitigare l’impatto psicologico che potrebbe derivare dal contatto con le disabilità dell’adulto.


Il Centro Sclerosi multipla del Bambino Gesù offre servizi di diagnosi e cura specifici per i pazienti sotto i 18 anni, comprese valutazioni psicologiche. Attualmente segue circa 50 pazienti in terapia con agenti modificanti il decorso della malattia, cioè farmaci in grado di rallentarne la progressione. Segue anche pazienti con malattie simili alla sclerosi multipla, tra cui circa 10 pazienti con neuromielite ottica, una malattia spesso legata a degli autoanticorpi. Sebbene i progressi della ricerca farmacologica sulla SM siano notevoli, i nuovi farmaci – prosegue l’Ospedale – sono raramente autorizzati per i minori di 18 anni, poiché gli studi iniziali coinvolgono solo popolazioni adulte. Il Bambino Gesù partecipa a diversi trial clinici, offrendo ai pazienti l’opportunità di accedere a cure avanzate non ancora approvate per i bambini. In particolare il Centro si sta occupando dei primi casi pediatrici al mondo trattati con un nuovo anticorpo monoclonale approvato negli ultimi anni per la terapia della SM dell’adulto. Secondo Massimiliano Valeriani, responsabile di Neurologia dello Sviluppo del Bambino Gesù: “Le aspettative dei pazienti con SM sono migliorate radicalmente negli ultimi anni grazie alle terapie modificanti il decorso della malattia. La ricerca farmacologica propone nuovi trattamenti con efficacia superiore a quelli attuali, fondamentali per garantire una vita qualitativamente elevata ai bambini e adolescenti”. Negli ultimi cinque anni, il Bambino Gesù ha prodotto diverse pubblicazioni scientifiche in questo campo di ricerca. É impegnato, in particolare “nello studio dei fattori prognosticamente sfavorevoli per identificare il miglior trattamento per i piccoli pazienti”.

La trasmissione di SARS-CoV-2 attraverso l’aria: lectio allo Spallanzani

La trasmissione di SARS-CoV-2 attraverso l’aria: lectio allo SpallanzaniRoma, 30 mag. (askanews) – All’interno del ciclo di incontri scientifici 2024 “Esplorazioni scientifiche” promosso dall’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” IRCCS, l’INMI ha ospitato la lectio “La trasmissione di SARS-CoV-2 attraverso l’aria: genesi ed implicazioni di un cambio di paradigma”. Relatore Giorgio Buonanno del Dipartimento di Ingegneria Civile e Meccanica (DICEM) dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale. Buonanno ha descritto “quella che è stata la gestione della pandemia da SARS-CoV-2 in Italia vista da un ingegnere” illustrando “i principi della trasmissione aerea degli agenti patogeni respiratori e le misure di protezione non farmacologiche ma ingegneristiche che si potevano, si possono e si dovrebbero adottare in maniera tale da proteggere le persone indipendentemente dal loro comportamento. Quello che ritengo fondamentale – ha aggiunto – è che serve un cambio di paradigma: la responsabilità degli ambienti pubblici non deve essere delle persone che entrano in un ambiente pubblico ma di chi deve gestire quell’ambiente. È fondamentale gestire la ventilazione di un dato ambiente per prevenire i contagi. Anche l’ingegneria – ha concluso – è salute pubblica e prevenzione”.


Per Enrico Girardi, Direttore scientifico dello Spallanzani e promotore dell’incontro, “questa rianalisi dei dati è stata possibile e fruttuosa perché ha messo insieme scienziati provenienti da campi diversi: esperti della biologia e delle dinamiche delle malattie da infezione ed esperti in problemi di inquinamento degli ambienti interni e di trattamento dell’aria indoor. Questi studi e questi risultati dimostrano l’importanza di mettere insieme competenze diverse ai fini di migliorare gli interventi di sanità pubblica e nel caso specifico la risposta alle infezioni trasmesse per via aerea. A fianco agli interventi che dovremmo mettere in campo per prevenire e mitigare gli effetti di una possibile nuova esplosione di diffusione di malattie da infezioni respiratorie come la vaccinazione, la diagnosi tempestiva e gli interventi terapeutici, gli interventi sulla qualità dell’aria degli ambienti interni si dimostrano interventi potenzialmente molto importanti. Quindi concordiamo sul fatto che, nell’ambito degli interventi per possibili future pandemie, sia richiesto un investimento per migliorare la qualità dell’aria soprattutto negli spazi chiusi pubblici: scuole, ristoranti, cinema, ambienti dove le persone stazionano per lungo tempo. Questi ambienti, se non si ha una qualità dell’aria buona, rischiano di diventare moltiplicatori del rischio di infezione”. A margine della presentazione, il Direttore generale, Angelo Aliquò, ha espresso l’auspicio di proseguire e intensificare il rapporto tra l’INMI Spallanzani, l’Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale e il professor Buonanno al fine anche di portare avanti uno studio comune.

Conferenza Facoltà Medicina: carenza medici, vogliamo risposte

Conferenza Facoltà Medicina: carenza medici, vogliamo risposteMilano, 29 mag. (askanews) – Il nostro Sistema Sanitario Nazionale ha un problema: la carenza di medici specialisti. Un problema che ancora non è stato risolto nonostante in questi anni i posti disponibili nei Corsi di Laurea in Medicina siano aumentati di oltre il 185% (passando dai 7 mila del periodo 2001 – 2010 ai circa 20 mila per anno del 2023-2024), e nonostante i contratti di formazione specialistica siano arrivati a più di 14 mila (cui si aggiungono anche i posti finanziati con fondi regionali e di altri enti pubblici e privati). Il nostro è un Sistema Sanitario virtuoso che, però, continua a essere sofferente. Lo sostengono la Conferenza permanente delle Facoltà e Scuole di Medicina e Chirurgia e l’Intercollegio di Area Medica con i Referenti delle Scuole di Specializzazione afferenti a quest’ultimo che, per la prima volta scendono in campo per lanciare un allarme: il recente decreto-legge PNRR-quater, che indebolisce e di fatto abbrevia il percorso di formazione specialistica, non può essere la soluzione perché il rischio è quello di formare medici non adeguatamente competenti per garantire cure di alta qualità ai pazienti.


“La Sanità italiana pubblica, nonostante le difficoltà degli ultimi anni, rimane un’eccellenza a livello mondiale. La base fondante di tutto ciò è un percorso formativo che, dalla laurea alla specializzazione, garantisce un’alta qualità dell’istruzione dei futuri medici – afferma il prof. Paolo Villari, Presidente della Conferenza permanente delle Facoltà e Scuole di Medicina e Chirurgia – Tuttavia, le recenti modifiche al percorso del medico in formazione specialistica che, va riconosciuto, nascono da necessità legate a condizioni emergenziali, destano non poca preoccupazione per l’effetto che potrebbero avere nel lungo periodo. A correre il rischio di non essere adeguatamente curati sono i pazienti che si troverebbero davanti medici in formazione, non ancora in possesso di tutte le competenze necessarie allo svolgimento dell’attività specialistica. Siamo molto preoccupati sia per la qualità della formazione che per le modalità con cui dovremmo mettere in pratica questa legge ed è per questo motivo che abbiamo inviato una richiesta ufficiale di chiarimenti ai Ministeri competenti e, per il loro tramite, al Governo, ribadendo la totale disponibilità a lavorare insieme per il mantenimento e il miglioramento continuo della formazione del medico specialista. Il nostro unico interesse è quello di rispondere alle necessità attuali del nostro Servizio Sanitario Nazionale e di continuare a garantire la qualità delle cure che tutto il mondo ci invidia”. Ma cosa dice di preciso il decreto-legge PNRR-quater, di recente convertito in legge? Questa nuova legge permette di consolidare la possibilità – da parte di Aziende Sanitarie pubbliche e private accreditate – di assumere medici in formazione specialistica con contratti a tempo determinato, già a partire dal II anno di specializzazione. A questo si aggiunge che, attraverso la nuova norma, la prova di fine anno necessaria per il passaggio all’anno di corso successivo verrà sostituita con l’ottenimento di una certificazione delle sole attività pratiche rilasciata da parte degli enti in cui lo specializzando è assunto.


Questo significa che – con la nuova legge – il medico in formazione specialistica potrebbe superare l’anno con una sola certificazione di attività pratiche e senza che il Consiglio della Scuola ne abbia verificato anche le conoscenze e le competenze teoriche. Il medico in formazione specialistica, inoltre, in qualità di dipendente a tempo determinato, dovrà rispettare una dinamica di turnazione che comporterà una riduzione del tempo da dedicare allo studio vero e proprio. E, infine, questo sistema porterà inevitabilmente a evidenti discriminazioni tra medici in formazione specialistica dipendenti a tempo determinato in enti sanitari e medici in formazione non dipendenti appartenenti a una stessa Scuola, in quanto valutati e verificati in modo non equo e disomogeneo e in quanto, al termine del percorso di specializzazione, i medici con contratto a tempo determinato verranno automaticamente assunti a tempo indeterminato, mentre chi avrà privilegiato la propria formazione si troverà a dover competere duramente una volta entrato nel mondo del lavoro. La carenza di medici specialisti in Italia è dovuta ad una errata programmazione nel passato dei posti disponibili nei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia e, principalmente, al limitato numero dei contratti di formazione specialistica rispetto al numero dei neolaureati. A questo si è cercato di porre rimedio, tuttavia, a oggi, sono più di 4.000 i posti che in media rimangono “vacanti”, con specialità meno scelte quali Medicina di Comunità e cure primarie, Microbiologia e virologia, Radioterapia. Medicina d’urgenza è la specializzazione più “bistrattata” con oltre il 70% dei contratti non assegnato. Ad acuire il problema, i circa 130.000 medici laureati in Italia andati a lavorare al di fuori del nostro Paese negli ultimi 20 anni. In questo contesto, il decreto-legge PNRR-quater, oltre a rischiare di compromettere la qualità formativa del percorso di specializzazione, non risolve problemi gravi come la fuga all’estero da parte dei medici italiani e la scarsa attrattività di alcune specializzazioni, considerate a rischio elevato di contenziosi medico-legali e con limitati sbocchi di attività privata.


Da qui la richiesta di chiarimenti sull’applicazione della legge da parte della Conferenza Permanente delle Facoltà e Scuole di Medicina e Chirurgia e dell’Intercollegio di Area Medica, che invitano anche a valutare alternative più inclusive che assicurino maggiori tutele e diritti – prima fra tutte il miglioramento delle condizioni contrattuali – riconoscendo piena dignità al ruolo, anche professionale, dei medici in formazione specialistica. Inoltre, rinnovano la loro totale disponibilità a collaborare per il miglioramento continuo della formazione del medico specialista e al suo adeguamento alle necessità attuali, anche attraverso il potenziamento ulteriore – peraltro già in atto da tempo – dell’integrazione tra le Università e le strutture, ospedaliere e territoriali, del Servizio Sanitario Nazionale.

UNIAMO: focus su medicina di genere con progetto “Donne, Salute e Rarità”

UNIAMO: focus su medicina di genere con progetto “Donne, Salute e Rarità”Roma, 29 mag. (askanews) – Negli ultimi tempi stiamo assistendo ad una sempre maggior specificità delle terapie e a un procedere verso una medicina personalizzata. Allo stesso tempo, però, abbiamo un quadro nel quale le donne sono penalizzate per una serie di fattori: dalla sottovalutazione dei sintomi da parte delle donne pazienti non culturalmente impostate per prendersi cura di sé, alla mancanza di tempo delle donne caregiver per poter pensare alla prevenzione e ai controlli periodici fino alla sottorappresentazione delle donne nelle sperimentazioni cliniche e al tempo spesso non sufficiente che i medici possono dedicare loro. Tenendo conto di queste premesse e dei principi espressi dalla Risoluzione ONU sui diritti delle persone con malattia rara, in cui si legge che “le donne e le ragazze con una malattia rara devono affrontare maggiori discriminazioni e barriere nell’accesso ai servizi sanitari”, UNIAMO ha lanciato a novembre 2023 il progetto “Donne, Salute e Rarità”.


Partiti con una conferenza stampa presso la Sala Capranichetta dell’Hotel Nazionale di Roma alla presenza, tra le altre, dell’On. Ilenia Malavasi, la Federazione ha realizzato altri tre incontri online con clinici esperti e testimonianze di donne che hanno raccontato la propria esperienza. Nel primo incontro si è cercato di far emergere la rilevanza della medicina narrativa nel vissuto delle donne e del ruolo della postura narrativa per arrivare a diagnosi precoci; nel secondo si sono accesi i riflettori su malattie rare che interessano principalmente le donne per far emergere il sommerso di non diagnosi e l’importanza della prevenzione e della cura di sé; nel terzo webinar si è invece approfondito il tema della gravidanza nelle malattie autoimmuni.


“La donna è la colonna portante della società, anche per la sua importanza cruciale nel tema sanità: è da lei che parte lo stimolo alla prevenzione, è lei che si occupa delle visite di controllo e in generale che, con il nascosto lavoro di caregiver, accompagna i membri della famiglia nel mondo della salute” – ha dichiarato Annalisa Scopinaro, Presidente di UNIAMO -. “È inoltre fondamentale individuare quelle patologie che colpiscono in misura percentualmente maggiore le donne per far emergere il sommerso di non diagnosi, dovuta a scarsa conoscenza e sottovalutazione dei sintomi, anche da parte delle stesse donne. C’è bisogno di un percorso diagnostico più veloce, aumentando anche la consapevolezza delle donne e sensibilizzandole su prevenzione e diagnosi precoce”. “In Chiesi Global Rare Diseases abbiamo sempre attribuito alla donna un ruolo centrale: nella società così come nella famiglia; nel suo essere cittadina, paziente o caregiver. Crediamo infatti che il ruolo della donna sia determinante nel mondo della Salute, motivo per cui senza alcuna esitazione abbiamo sostenuto il progetto Donne, Salute e Rarità, promosso da UNIAMO”, afferma Alessandra Vignoli, Head of Mediterranean Cluster, Chiesi Global Rare Diseases.


“L’obiettivo del Progetto è duplice. In primo luogo, il Progetto è servito ad analizzare come il nostro tessuto culturale e sociale abbia talvolta portato la donna a non prioritizzare la propria salute, ai danni della prevenzione – e quindi in molti casi di una diagnosi precoce. In secondo luogo il Progetto ha l’ambizione ancora più alta di riportare l’attenzione sulla medicina di genere e sulla necessità di prestare attenzione alla salute della donna in quanto colonna portante della società. Si tratta di obiettivi che possono generare un impatto sulla comunità in cui viviamo, sui pazienti e sulle persone, in pieno allineamento con l’approccio di Chiesi in qualità di Benefit Corporation”.