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Sanità, survey Fadoi: il 46% dei medici pensa alla pensione anticipata

Sanità, survey Fadoi: il 46% dei medici pensa alla pensione anticipataRoma, 29 dic. (askanews) – Quasi la metà pensa di appendere in anticipo il camice bianco al chiodo, soprattutto per evitare presenti e futuri tagli alle loro pensioni, ma anche per i carichi di lavoro eccessivi. Ma a preoccupare è soprattutto quel terzo abbondante di loro che se tornasse indietro non sceglierebbe più di iscriversi a medicina e quel 12 e passa per cento che addirittura oggi pensa di cambiare proprio mestiere. Mentre l’idea di pagare meglio gli straordinari, come previsto dalla manovra è la ricetta idonea a tagliare le liste d’attesa per a mala pena un dottore su dieci.

A sondare l’umore dei nostri medici, sempre più tentati di dire addio al servizio pubblico, è la survey condotta da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su un campione rappresentativo di camici bianchi di tutte le regioni italiane. Medici d’esperienza, con alle spalle in oltre la metà dei casi molti anni di carriera, con appena il 30% del campione che lavora da meno di 10 anni nel Ssn. L’idea di tagliare in anticipo il traguardo della pensione sta passando per la testa del 46,15% di loro. Una percentuale così alta che se pure nel 10% dei casi si trasformasse in realtà significherebbe la fuoriuscita anticipata dai nostri ospedali di decine di migliaia di professionisti. A spingere il 57,14% dei medici al pensionamento anticipato è la paura di subire un taglio alla propria pensione, magari con misure retroattive come quelle introdotte nella manovra, anche se poi alleggerite con un successivo emendamento. Per il 30,95% la causa sarebbero gli eccessivi carichi di lavoro, mentre la bassa retribuzione motiva solo il 2,38% e la voglia di chiudere la carriera all’estero il 9,53%.

Anche chi non è in età di pensione nel 38,71% dei casi sta pensando di lasciare il servizio pubblico. Il 21,82 % per andare nel privato, il 4,55% all’estero, mentre un preoccupante 12,33% di scoraggiati pensa di cambiare del tutto attività. Uno scoramento che trova conferma nel 36,43% che alle condizioni attuali tornando indietro nel tempo non sceglierebbe più di fare il medico. Però le motivazioni di chi si sente ancora legato al servizio pubblico restano forti, con il 59,2% che motiva la sua scelta con la coscienza di voler garantire a tutti il diritto alla salute, seguito dal 17,46% che percepisce ancora come un valore la sicurezza del posto di lavoro, mentre per il 13,66% a non sciogliere il legame con il Ssn è il fatto che le esigenze assistenziali nel pubblico vengano prima delle ragioni economiche. Un altro 9,68% da invece come motivazione la qualità dei nostri ospedali, che resta ancora alta.

L’indagine punta poi ad analizzare le criticità nei reperti di medicina interna, quelli che in media assorbono circa il 50% di tutti i ricoveri ospedalieri. Per il 52,55% il problema numero uno resta la carenza di personale medico e infermieristico, soprattutto se rapportato alla intensità di cura medio-alta dei reparti di medicina interna, ancora classificati come reparti a bassa intensità di cura. La scarsa valorizzazione del medico di medicina interna nell’organizzazione del lavoro ospedaliero è invece segnalata dal 30,91%. La scarsa o mancata integrazione tra ospedale e servizi territoriali è indicata da un altro 9,27%, mentre per il 7,27% l’elemento di maggiore criticità è la carenza di posti letto nei reparti di medicina. Anche questa frutto della classificazione degli stessi reparti come “a bassa intensità di cura”. Quasi un plebiscito per l’utilizzo degli specializzandi a copertura dei vuoti in pianta organica con solo il 21,25% che pensa possano mettere a rischio la qualità dell’assistenza. Per il 56,36% è invece utile purché svolgano le loro attività affiancati da un tutor, mentre per il 22,39% servono, ma sarebbe utile semplificare la burocrazia che ancora vincola il loro utilizzo negli ospedali al parere delle Università.

Non convince infine la formula straordinari meglio pagati uguale meno liste di attesa, contenuta nella manovra economica, giudicata efficace solo dal 9,87% degli intervistati, mentre per il 41,18% serve assumere personale, per il 19,92% organizzare meglio le attività in modo da garantire un utilizzo più esteso sia delle apparecchiature diagnostiche che delle risorse umane. A parere del 27,70% andrebbe invece ridotta l’inappropriatezza prescrittiva, mentre appena l’1,33% ricorrerebbe al privato convenzionato per tagliare le liste di attesa. “L’indagine rivela, forse a sorpresa per chi non conosce a fondo la realtà medica, che per continuare a tenere legati i medici al servizio pubblico non sono tanto le più alte retribuzioni, che pur andrebbero almeno avvicinate a quelle europee, quanto piuttosto il miglioramento delle condizioni di lavoro e di carriera, oltre che la garanzia del rispetto dei diritti pensionistici acquisiti”, afferma il Presidente di Fadoi, Francesco Dentali. “Certo -prosegue- preoccupa quel 40% che pensa di lasciare il servizio pubblico, ma sono gli stessi medici nelle loro risposte a indicare la via della rinascita: un Ssn che torni a garantire a tutti il diritto alla salute, apponendo le esigenze assistenziali davanti a quelle economiche, indicate da oltre il 70% dei medici come elemento che ancora li lega al pubblico”. “Quanto una buona riorganizzazione possa incidere positivamente nel motivare i medici lo dimostrano le criticità emerse riguardo le medicine interne che assorbono una parte notevole di tutti i ricoveri”, sottolinea a sua volta il Presidente della Fondazione Fadoi, Dario Manfellotto. “Nei nostri reparti -prosegue- basterebbe superare una anacronistica e vetusta classificazione ministeriale, che con il codice 26 li definisce ancora a bassa intensità di cura, quando basta scorrere l’elenco delle cartelle cliniche per capire che i nostri sono pazienti complessi necessitano di alti livelli di assistenza”. “Un problema che sembra di natura burocratico-amministrativa ma che in realtà si traduce in una sotto-dotazione sia in termini di organico che di tecnologia”, conclude Manfellotto. Che chiede di “ridefinire gli standard di personale sanitario ancora vincolati a un vecchio decreto emesso da Donat Cattin”.

Malattie rare, UNIAMO: con FantaSanremo per fare più rumore possibile

Malattie rare, UNIAMO: con FantaSanremo per fare più rumore possibileRoma, 28 dic. (askanews) – In Italia febbraio è tradizionalmente il mese del Festival di Sanremo ma, per la comunità rara, è anche il mese dedicato alla sensibilizzazione sulle malattie rare. Il 29 febbraio, il giorno più raro del calendario, si celebra, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, la Giornata delle Malattie Rare. UNIAMO, la Federazione Italiana Malattie Rare, con la campagna #UNIAMOleforze svilupperà, come di consueto dal 2008, tante iniziative, toccando anche molte città italiane.

Per l’edizione 2024 del Rare Disease Day, la diciassettesima, UNIAMO ha deciso di raggiungere con la sua campagna di sensibilizzazione un pubblico più giovane, stringendo una partnership, con veste grafica rinnovata, con il FantaSanremo, il fantasy game basato sul Festival della canzone italiana che l’anno scorso ha coinvolto oltre un milione e mezzo di partecipanti. A partire da oggi sul sito fantasanremo.com si potrà comporre la propria squadra fatta da 5 artisti, acquistati con 100 baudi – la valuta del gioco -, e iscriverla alla Lega UNIAMO. “In Italia le persone con malattia rara sono oltre 2 milioni: 1 su 5 è minorenne. Per questo – ha dichiarato la Presidente UNIAMO, Annalisa Scopinaro – siamo particolarmente contenti di questa iniziativa che parla soprattutto ai giovani: l’obiettivo è fare più rumore possibile, ma in modo armonico, sulle malattie rare, informare sulle difficoltà che incontrano ogni giorno le persone con malattia rara e le loro famiglie, sradicare un po’ di pregiudizi e pietismo e, soprattutto, fare luce sulla nostra comunità. Perché nessuno si senta solo”.

Il tema della campagna di awareness del 2024 sarà l’equità, declinata quest’anno sulla presa in carico olistica: “Le malattie rare – ha continuato la Presidente Scopinaro – nella maggioranza dei casi causano disabilità; è necessario che gli strumenti dell’assistenza sanitaria e dell’assistenza sociale, della scuola e del lavoro si integrino verso la piena inclusione, partecipazione e sviluppo della persona con malattia rara. Come un’orchestra. La partnership con il FantaSanremo è nata proprio da questa riflessione”. L’hashtag della campagna #UNIAMOleforze vuole spronare tutti gli attori a coalizzare gli sforzi per ottimizzare il sistema, migliorare concretamente la vita delle persone con malattia rara e le loro famiglie e raggiungere l’equità, che non è dare a tutti in misura uguale ma a ciascuno in base alle necessità. Questo per i malati rari vuol dire: diagnosi precoci, prese in carico tempestive e globali, integrazione socio-sanitaria, accessibilità delle terapie e pari opportunità.

Torna “ChiacchieRARE”, format social Federazione italiana malattie rare

Torna “ChiacchieRARE”, format social Federazione italiana malattie rareRoma, 28 dic. (askanews) – Torna “ChiacchieRARE”, il format social di UNIAMO – Federazione italiana delle malattie rare, per favorire la conoscenza delle singole malattie rare.

“Un format di approfondimento sulle singole malattie rare che ha l’obiettivo di aumentare il numero di diagnosi corrette, migliorare la conoscenza delle patologie, fornendo ai pazienti e alla classe medica ulteriore materiale consultabile da parte di tutti, grazie al coinvolgimento di esperti clinici, rappresentanti delle associazioni di riferimento delle singole patologie e testimonianze dei malati rari”, spiega la presidente di UNIAMO, Annalisa Scopinaro. La prima puntata oggi, giovedì 28 dicembre, sarà dedicata al PTLD, disturbo linfoproliferativa per trapianto. La prima puntata sarà dedicata al PTLD, disturbo linfoproliferativa per trapianto.

Partecipano Annalisa Scopinaro, presidente Uniamo e la dott.ssa Patrizia Comoli, Ospedale S.Matteo di Pavia. Con la testimonianza di Paula dalla Spagna. La puntata della durata di circa 30 minuti sarà visibile sui canali social (Instagram, Facebook e YouTube), di UNIAMO.

Influenza, sensibile aumento dei casi: 15 ogni mille assistiti

Influenza, sensibile aumento dei casi: 15 ogni mille assistitiMilano, 22 dic. (askanews) – Sensibile aumento del numero di casi di sindromi simil-influenzali in Italia. Secondo quanto emerge dai bollettini della sorveglianza RespiVirNet (pubblicati oggi), nella 50esima settimana del 2023, infatti, l’incidenza è pari a 15 casi per mille assistiti, contro gli 11,94 casi ogni mille registrati nella settimana precedente).

“Era previsto che nei mesi invernali la circolazione di Sars CoV-2 così come dei virus respiratori in generale sarebbe aumentata – commenta Anna Teresa Palamara, che dirige il dipartimento Malattie Infettive dell’Iss -. E questo conferma l’importanza della vaccinazione di anziani, persone con malattie croniche o comunque fragili, i più esposti a conseguenze gravi di malattia. Raccomandiamo prudenza quando si incontrano persone anziane o con fragilità nei luoghi chiusi. Chi ha sintomi respiratori, come raffreddore e tosse, è opportuno non esponga gli altri al contagio”. L’incidenza è in aumento in tutte le fasce di età, soprattutto nei bambini al di sotto dei cinque anni in cui l’incidenza è pari a 38,0 casi per mille assistiti (contro i 25,8 nella settimana precedente). La scorsa stagione in questa stessa settimana l’incidenza di Ili nei bambini sotto i cinque anni era pari a 46,5 casi mille assistiti.

Tutte le Regioni/Ppaa, tra quelle che hanno attivato la sorveglianza, registrano un livello di incidenza delle sindromi simil-influenzali sopra la soglia basale, tranne la Basilicata. In sei Regioni/Pppa è stata raggiunta la soglia di intensità “alta” dell’incidenza e in una la soglia “molto alta”. Sorveglianza virologica Durante la quinta settimana di sorveglianza virologica, la percentuale dei campioni risultati positivi all’influenza sul totale dei campioni analizzati risulta pari al 22%, in deciso aumento rispetto alla settimana precedente (14%). Tra i virus influenzali, quelli di tipo A risultano prevalenti (98,5%) rispetto ai virus di tipo B. Tra i campioni analizzati, 191 (12,5%) sono risultati positivi per SARS-CoV-2, 131 (8,5%) per RSV e i rimanenti 190 sono risultati positivi per altri virus respiratori, di cui: 112 Rhinovirus, 36 Adenovirus, 20 Coronavirus umani diversi da SARS-CoV-2, 11 virus Parainfluenzali, 9 Metapneumovirus e 2 Bocavirus.

Malattie rare, UNIAMO lancia una survey per pazienti e caregiver

Malattie rare, UNIAMO lancia una survey per pazienti e caregiverRoma, 22 dic. (askanews) – Due milioni di persone colpite in Italia. Fino a 4,5 anni in media per una diagnosi. Tra le 6.000 e le 8.000 diverse patologie, finora conosciute, e solo nel 20% dei casi l’origine è ambientale, infettiva o allergica. Ecco alcuni numeri che descrivono la realtà delle malattie rare nel nostro Paese. Un grande problema sociosanitario, che coinvolge direttamente il 5% dell’intera popolazione e indirettamente milioni di altre persone.

Per conoscere meglio questo complesso mondo UNIAMO (Federazione Italiana Malattie Rare) lancia un questionario, validato scientificamente, focalizzato in particolare sull’impatto che le malattie rare hanno sulle donne. Il primo questionario è rivolto ai pazienti, mentre il secondo è riservato ai caregiver. Rientra nell’ambito del progetto “Women in Rare”, promosso da Alexion, Astra Zeneca Rare Disease in collaborazione con UNIAMO, EngageMinds Hub, Fondazione Onda e ALTEMS. “Women in Rare è un progetto generativo volto ad indagare in modo approfondito su aspetti che non sempre sono al centro dell’attenzione nel dibattito pubblico sulle malattie rare – sottolinea Annalisa Scopinaro, Presidente di UNIAMO – Il loro impatto è importante e influenza quasi sempre negativamente la vita di tutti i giorni delle donne. Perciò intendiamo indagare in modo approfondito sulle ripercussioni in ambito lavorativo, sulle ricadute economiche e finanziarie e tutte le complessità medico-sanitarie”.

“Women in Rare”, avviato nella scorsa primavera, vede al centro le donne, nel doppio ruolo di pazienti affette da malattie rare e di caregiver che si prendono cura di persone colpite da questo tipo di patologie. Il progetto prevede di sensibilizzare le Istituzioni e anche la popolazione attraverso eventi pubblici, campagne social e pubblicazioni. “Women in Rare” è coordinato da un Comitato Scientifico che vede la partecipazione di qualificati specialisti e di rappresentanti delle associazioni pazienti. “È quasi sempre la donna, in qualità di madre o di moglie, a dover farsi carico a 360 gradi delle conseguenze legate alla malattia – prosegue Scopinaro -. Molte patologie rare inoltre colpiscono prevalentemente le donne. Per questo è necessario che maturi un approccio medico-assistenziale maggiormente orientato al genere femminile e alle sue peculiarità. Queste vanno dalla conciliazione della vita lavorativa con la responsabilità di caregiver alla percezione di sé, fino ai temi legati alla fertilità. In Italia esiste una rete nazionale, di assoluta eccellenza, di Centri di Riferimento per la prevenzione, la diagnosi e il trattamento delle malattie rare che lavora in sinergia con le altre reti europee. Tuttavia c’è ancora molta strada da percorrere. Vi è la tendenza a sottovalutare le malattie rare e soprattutto l’impatto che presentano sulla singola persona che ne è direttamente o indirettamente colpita. Da questa constatazione è nato “Women in Rare”, un progetto a cui teniamo particolarmente e che stiamo supportando con forza”.

“Con il lancio della survey diamo seguito a un percorso, fondato sull’attenzione e sull’ascolto, che siamo convinti potrà migliorare la consapevolezza di tutti sui tanti e complessi problemi legati alle malattie rare e che riguardano la condizione delle donne – dichiara Anna Chiara Rossi, VP& General Manager Italy presso Alexion, AstraZeneca Rare Disease -. I risultati potranno fornirci un quadro ancora più chiaro dei bisogni, dei dubbi, dei timori e delle aspirazioni di chi soffre, direttamente o indirettamente, a causa di queste patologie. In questo modo insieme ai nostri partner di progetto, confermiamo il nostro impegno a individuare azioni che possano migliorare le condizioni e le aspettative di vita dei pazienti e dei loro familiari. Come Alexion, Astra Zeneca Rare Disease intendiamo porci come interlocutore con le Istituzioni e i rappresentanti dei pazienti, anche attraverso iniziative di sensibilizzazione come Women in Rare”.

Terme di Saturnia assegna bonus extra di 500 euro ai dipendenti

Terme di Saturnia assegna bonus extra di 500 euro ai dipendentiRoma, 21 dic. (askanews) – Un’operazione di valorizzazione delle risorse umane è stata messa in campo da Terme di Saturnia, che ha destinato una parte del proprio utile annuale proprio al welfare dei dipendenti e delle loro famiglie. Dopo un turn-around durato 4 anni, che ha portato il fatturato dell’azienda da 15 a 25 milioni di euro annui, il complesso termale ha deciso di coinvolgere tutti i collaboratori in un processo premiante, stanziando il 3% dell’utile in loro favore, tramite l’assegnazione di un bonus indistinto del valore di 500 euro per ciascuno, in aggiunta ai meccanismi di compensazione variabile già in essere e legati ai risultati delle varie aree di business.

Terme di Saturnia, guidata dal General Manager Antonello Del Regno, è la flagship del Gruppo Terme Italia, e dimostra una volta di più di aver avviato una fase di ulteriore coinvolgimento delle risorse umane nello sviluppo aziendale, attraverso politiche attive di formazione, incentivazione e miglioramento della logistica per i collaboratori. Per l’attribuzione del bonus, assegnato in modo da consentire ai collaboratori di conciliare il regime fiscale di esenzione consentito dalla Legge, la Società si è avvalsa di una innovativa piattaforma welfare digitale, che consentirà loro di usufruire di beni e servizi utili, presenti a livello locale, regionale e internazionale, utilizzabili in modo efficiente e sicuramente gratificante. Un modo concreto per dimostrare l’appartenenza e la credibilità del progetto Terme di Saturnia, un luogo antico di benessere, sempre più proiettato verso il futuro. La realtà di Terme di Saturnia, stabilmente tra le prime aziende della Toscana e della provincia di Grosseto, dà lavoro a circa 200 persone e sta avviando un processo di sviluppo in Italia e all’estero, all’interno della holding Terme Italia. Il brand di Terme di Saturnia cresce costantemente facendo leva sulle sue caratteristiche straordinarie e sulla tradizione consolidata: la Società ha oltre 100 anni di storia ed è Marchio Storico Nazionale, e a novembre 2024 aprirà a Milano il complesso termale “Scuderie De Montel”, dopo una colossale attività di riqualificazione dello storico edificio adiacente allo stadio di San Siro.

Colesterolo cattivo, un nuovo prodotto apre nuove prospettive

Colesterolo cattivo, un nuovo prodotto apre nuove prospettiveMilano, 21 dic. (askanews) – Un nuovo prodotto che agisce sul metabolismo del colesterolo può rivelarsi uno strumento utile per attuare, in combinazione con la dieta e l’attività fisica, un intervento di prevenzione primaria in persone che presentano un aumento lieve o moderato dei livelli di colesterolo.

È quanto ha dimostrato lo studio PaLiMERiCa, presentato al recente congresso della Società Italiana di Cardiologia, un trial clinico monocentrico randomizzato, condotto presso il policlinico San Matteo di Pavia, in cui è stato impiegato un nuovo prodotto a base di berberina, fitosteroli, polifenoli, trigonella, cioè fieno greco, ed estratto di carciofo. Dallo studio emerge un significativo controllo da parte del prodotto non solo sui livelli di colesterolo totale e LDL, ma anche nel migliorare i trigliceridi e il profilo glucidico.

Primo autore dello studio PaLiMERiCa il professor Giuseppe Derosa, dell’Università di Pavia – Fondazione IRCSS Policlinico San Matteo, Responsabile dell’area Diabete della Società Italiana di Nutraceutica: “Lo studio, della durata di tre mesi, è stato condotto in 36 soggetti che presentavano un colesterolo LDL compreso fra 115 e 190 mg/dl e un’iperglicemia a digiuno con valori compresi fra 100 e 125 mg/dl. Dopo una fase di reclutamento di due settimane in cui i partecipanti seguivano solo raccomandazioni dietetiche e di attività fisica, è stato fatto un primo prelievo basale, seguito da un nuovo prelievo dopo uno, due e tre mesi per verificare il profilo lipidico, la glicemia e l’insulinemia”. I 36 soggetti sono stati suddivisi in maniera randomizzata in due gruppi uguali in cui era prevista l’assunzione rispettivamente di una capsula o di due capsule al giorno del nuovo prodotto. “In breve, dopo tre mesi abbiamo osservato un’azione di riduzione sul colesterolo totale, sul colesterolo LDL e sui trigliceridi. Inoltre, questo prodotto, che sfrutta più meccanismi d’azione, ha mostrato un effetto anche sul profilo glucidico – afferma Derosa -. Per quanto riguarda il colesterolo LDL la riduzione è stata di 22,1 mg per decilitro, pari a una diminuzione percentuale del 14% nei soggetti che assumevano una capsula al giorno e di 40 mg/dl, corrispondente a una diminuzione del 25%, nel gruppo che assumeva due capsule”.

Nei soggetti coinvolti nello studio si è osservato anche un significativo controllo di trigliceridi, glicemia e insulinemia. “La maggior parte dei partecipanti allo studio sono tornati a valori di glicemia nella norma – conferma il ricercatore -. Anche per quanto riguarda la tollerabilità tutti i parametri di sicurezza monitorati non si sono assolutamente modificati nei soggetti che hanno anche mostrato un’ottima compliance”.

Questi risultati indicano la possibilità di rendere più efficace un intervento di prevenzione primaria anche grazie alla disponibilità di soluzioni, in grado di migliorare il profilo metabolico di soggetti con livelli appena oltre i limiti di normalità dei lipidi, a partire dal colesterolo LDL, e della glicemia. Si tratta di persone sane, in cui non è indicato il ricorso a un farmaco, ma in cui è comunque utile perseguire prima possibile una normalizzazione dei valori fuori target in quanto è noto che un’esposizione prolungata a livelli elevati di colesterolo ha un impatto negativo in termini di rischio di eventi cardiovascolari, come ictus e infarti. È noto, per esempio, che una riduzione di 40 mg/dl dei livelli di colesterolo LDL si traduce in una riduzione del 20 per cento del rischio cardiovascolare. Un maggior ricorso alla prevenzione primaria in questa popolazione potrebbe avere un impatto rilevante in termini numerici. “Gli eventi cardiovascolari in Italia sono intorno ai 230-240.000 all’anno, 140.000 dei quali sono infarti del miocardio – ricorda il professor Pasquale Perrone Filardi, Direttore della Scuola di specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Università “Federico II” di Napoli e Presidente della Società Italiana di Cardiologia -. Si tratta di eventi coronarici dovuti in gran parte al mancato controllo dei fattori di rischio cardiovascolare che in realtà sono in gran parte modificabili. Questo significa che politiche di prevenzione, in gran parte primaria, potrebbero contribuire a ridurre un grandissimo numero di eventi”. Come favorire un più largo ricorso alla prevenzione primaria? “Ciascuno dovrebbe verificare il proprio livello di rischio, cosa che si può fare anche tramite delle app, come per esempio quella della Società Italiana di Cardiologia – spiega il Presidente SIC -. Una volta effettuata una stima del livello di rischio è opportuno consultare il proprio medico e verificare di quanto ci si discosta dal livello ideale del colesterolo e a quali strumenti ricorrere per portarsi in una “zona” di maggiore prevenzione. Si tratta di interventi sullo stile di vita a cui si può pensare di aggiungere un nutraceutico che trova indicazione nelle persone a rischio basso, ma anche in quella a rischio moderato”. Il lavoro di ricerca permette di ampliare sempre di più le opzioni disponibili per la popolazione, al fine di applicare una prevenzione primaria che allontani il rischio di sviluppare cronicità come l’ipercolesterolemia. “Dompé – afferma Davide Polimeni, Chief Business Unit Officer, Primary & Specialty Care, Dompé – ha nel suo DNA l’approccio scientifico e ha deciso di declinarlo anche sui prodotti che agiscono nell’ambito della prevenzione” perché desideriamo offrire soluzioni valide e supportate da dati scientifici anche nell’ambito della prevenzione primaria, un’area nella quale affianchiamo quotidianamente la comunità scientifica, i farmacisti e la popolazione. Una ricerca che ha anche il valore dell’italianità che ci rende orgogliosi. Siamo lieti di potere avere un ruolo con un nuovo prodotto che sia affidabile e con risultati così incoraggianti come quelli che abbiamo avuto modo di vedere.”

Venezia ufficializza l’impegno nella lotta a diabete e obesità

Venezia ufficializza l’impegno nella lotta a diabete e obesitàMilano, 15 dic. (askanews) – Con quasi 50mila persone con diabete nella città metropolitana e circa 15mila nella sola area urbana, secondo le stime più recenti, Venezia entra nel programma internazionale Cities Changing Diabetes, l’iniziativa promossa dallo Steno Diabetes Center di Copenaghen, in partnership con l’University College London (UCL), la rete Globale C40, EAT, GEAH, DALBERG e BLOX-UB e con il supporto non condizionato di Novo Nordisk, che vuole guidare il cambiamento attraverso partenariati locali per promuovere la salute come priorità nelle agende cittadine e co-creare iniziative che mirino a migliorare la salute dei cittadini per far fronte alla crescente diffusione di malattie croniche non trasmissibili, come diabete e obesità. L’annuncio è stato dato oggi nel corso della conferenza stampa organizzata a Palazzo Ca’ Farsetti da Health City Institute, Fesdi – Federazione delle Società Scientifiche di Diabetologia e Comune di Venezia, e ha visto la partecipazione di Istituzioni nazionali, amministrazioni locali, esperti, mondo accademico e scientifico e terzo settore.

“Il numero delle persone che vivono nelle città è in continuo aumento da diversi anni e, secondo le stime, questo numero è destinato a crescere ulteriormente”, ha ricordato Andrea Lenzi, Presidente di Health City Institute, di Comitato nazionale per la biosicurezza, le biotecnologie e le scienze per la vita della Presidenza del Consiglio dei ministri, che ha proseguito: “Parallelamente, riscontriamo una crescita di alcune malattie, come diabete e obesità, la cui diffusione è considerata ormai l’epidemia della società del benessere. L’aumento di queste malattie croniche non trasmissibili, e non solo, è infatti fortemente legato ai profondi cambiamenti di stile di vita che comporta la vita nelle città, come lavori sedentari, scarsa attività fisica, alimentazione scorretta, tanto che si parla oggi apertamente di ‘urban diabetes’, diabete urbano”. “Venezia si appresta ad affrontare una sfida particolare: il 5,7 per cento della popolazione ha ricevuto una diagnosi di diabete di tipo due, in linea con i trend epidemiologici nazionali. Il tasso di mortalità per diabete è inferiore alla media per entrambi i sessi (55,4 in Veneto rispetto al 65,1 in Italia). Ma i tassi di ospedalizzazione per complicanze e mancato controllo dei livelli glicemici sono superiori alla media nazionale”, ha spiegato Angelo Avogaro, Presidente Fesdi-Federazione delle società di diabetologia e Presidente del Comitato promotore Venezia Cities Changing Diabete, che ha detto ancora: “Abbiamo scoperto che le città sono un “fattore di rischio” per lo sviluppo di diabete, dobbiamo quindi concentrarci nel progettare ambienti che favoriscano l’investimento in prevenzione. Tenendo conto che circa metà della popolazione mondiale vive nelle città, gli ambienti urbani devono essere ripensati come luoghi dove ‘coltivare’ la salute e non solo trovare le migliori cure quando il danno è fatto”.

“I contesti urbani sono ormai caratterizzati da una sempre più alta prevalenza di diabete e obesità, complici stili di vita errati, disuguaglianze sociali e sanitarie. Per questo, è essenziale diffondere la cultura della prevenzione, ma allo stesso tempo è necessario che anche le città si modifichino o adattino al fine di favorire l’adozione di sani e corretti stili di vita. Ad esempio, sostenendo la creazione di aree verdi e percorsi ciclo-pedonali, per città sempre più a misura d’uomo. Sul tema del “diabete-urbano”, partiamo oggi da Venezia per promuovere messaggi in grado di raggiungere le periferie delle grandi città e le aree del Paese in cui si registrano i più alti tassi di prevalenza della malattia e delle sue complicanze e tutelare una sanità equa su tutto il territorio nazionale”, ha aggiunto Riccardo Candido, Vicepresidente Fesdi. Nell’occasione il professor Avogaro ha avanzato la proposta di candidare Venezia a Centro di rilevanza internazionale per lo studio e la ricerca delle correlazioni tra malattie non trasmissibili, urbanizzazione e determinanti della salute, attraverso una partnership pubblico-privato che coinvolga il Comune di Venezia, le Università, le Società Scientifiche, l’ULSS, ANCI, Health City Institute, la Fondazione Venezia Capitale Mondiale della sostenibilità e Novo Nordisk. Secondo l’esperto, l’iniziativa andrebbe collegata possibilmente alla ristrutturazione e rilancio dell’ex Ospedale Mare del Lido della città, che mira a diventare, entro il 2027, un hub tecnologico che si concentrerà sullo sviluppo, l’implementazione e la promozione di applicazioni innovative e di intelligenza artificiale per il settore medico.

Obesità, peso in eccesso ruba almeno sei anni di vita

Obesità, peso in eccesso ruba almeno sei anni di vitaRoma, 15 dic. (askanews) – “Fat but fit”, cioè “grasso ma in salute”, è un mito da sfatare: non è vero che chi è obeso e non soffre di diabete di tipo 2, ipertensione o colesterolo alto è protetto dalle malattie cardiache. Anzi, ha più rischi di svilupparle. I chili in eccesso sono fra le cause dirette dello scompenso cardiaco nei casi in cui il cuore non è in grado di riempirsi correttamente (con frazione di eiezione conservata), che riguardano circa la metà dei casi di insufficienza cardiaca e si accompagnano all’obesità nell’80% dei pazienti. Il ‘paradosso dell’obesità’ nasce anche da errori di diagnosi perché non è obeso soltanto chi ha l’indice di massa corporea superiore a 30, ma anche chi ha un accumulo di grasso addominale: il girovita non deve andare oltre 88 cm, nelle donne, o 102 cm negli uomini, e c’è un nuovo indicatore da tenere d’occhio, il rapporto girovita/altezza che deve essere minore di 0.5. Si stima che entro il 2035 metà della popolazione mondiale sarà in sovrappeso od obesa raggiungendo i 3,36 miliardi. L’obesità è una malattia che provoca importanti patologie cardiovascolari. Sono almeno 400.000 gli italiani con obesità e scompenso cardiaco, due patologie legate a doppio filo ed entrambe in continua crescita nel nostro Paese, dove gli obesi sono circa 6 milioni e i pazienti con insufficienza cardiaca oltre 1 milione. I chili di troppo sono spesso il primo passo sulla strada che porta allo scompenso e si stima che fino all’80% dei pazienti con scompenso cardiaco e frazione di eiezione preservata, pari alla metà dei casi, sia anche obeso. La combinazione è molto pericolosa, perché può aumentare fino all’85% il rischio di eventi cardiovascolari fatali, ‘rubando’ almeno 6 anni di aspettativa di vita. Lo ricordano gli esperti in occasione dell’84° Congresso Nazionale della Società Italiana di Cardiologia (SIC), a Roma fino al 17 dicembre, sottolineando che l’aspettativa di vita e quella di salute dei pazienti obesi sono più basse rispetto a chi è normopeso. Il paradosso è nato perché l’indice di massa corporea non è l’indicatore più adeguato della reale obesità che si misura meglio con un metro: il girovita deve essere meno di 88 cm nelle donne e 102 cm negli uomini, ma soprattutto deve misurare meno di metà dell’altezza, per la salute del cuore e non solo. Il 2023 è stato però l’anno della svolta per le terapie: è ora possibile trattare i pazienti con scompenso cardiaco con un farmaco specifico anti-obesità, la semaglutide, ottenendo un miglioramento dei sintomi e della funzionalità oltre che una riduzione significativa del peso corporeo. “Scompenso cardiaco e obesità sono due epidemie in rapidissima crescita: l’insufficienza cardiaca oggi colpisce oltre un milione di italiani e si stima un incremento del 30% dei casi entro il 2030 – osserva Pasquale Perrone Filardi, presidente SIC e direttore della scuola di specializzazione in malattie dell’apparato cardiovascolare dell’Università Federico II di Napoli – l’aumento dei casi è trainato in parte dall’incremento dell’aspettativa di vita, perché la prevalenza della patologia raddoppia a ogni decade di età e dopo gli 80 anni lo scompenso colpisce il 20% della popolazione. Tuttavia l’insufficienza cardiaca ha anche l’obesità fra le sue cause principali perché i chili in eccesso comportano, fra le altre cose, un incremento dell’infiammazione generale, un maggiore stress su metabolismo e sistema cardiovascolare e un aumento del grasso viscerale anche a livello cardiaco”. “È proprio il grasso viscerale e addominale il più pericoloso e quello che dovrebbe essere realmente misurato: la semplice valutazione dell’indice di massa corporea e quindi del rapporto fra peso e altezza non basta – aggiunge Ciro Indolfi, past-president della Società Italiana di Cardiologia e ordinario di cardiologia all’Università degli Studi “Magna Grecia” di Catanzaro -. È necessario valutare la distribuzione del grasso e non soltanto l’indice di massa corporea così ogni possibile vantaggio di sopravvivenza per gli obesi sparisce. L’obesità infatti fa male al cuore: la probabilità di avere un infarto, un ictus o un evento cardiovascolare fatale aumenta dal 67 all’85% rispetto a chi è normopeso, tanto che i chili in eccesso ‘rubano’ fino a 6 anni di vita, secondo un recente studio pubblicato su Jama”. “La buona notizia è che il 2023 è stato un anno di svolta perché l’obesità è diventata per la prima volta un target farmacologico per combattere lo scompenso cardiaco. Oggi, finalmente si può intervenire con una terapia mirata all’obesità. Lo studio SELECT pubblicato di recente sul New England Journal of Medicine, condotto su oltre 17.000 pazienti in sovrappeso od obesi con malattia cardiovascolare ischemica, ma non diabetici, dimostra che il trattamento con semaglutide sottocute una volta alla settimana riduce del 20% il rischio di mortalità cardiovascolare, infarto e ictus rispetto ai pazienti in trattamento con placebo. Questa è una evidenza destinata a impattare significativamente sul contrasto del rischio cardiovascolare. Il farmaco ha mostrato anche ottimi risultati sull’insufficienza cardiaca a frazione di eiezione preservata, – sottolinea Perrone Filardi – dove ha dimostrato di migliorare la qualità di vita e la capacità di esercizio dei pazienti”.

Da stimolazione magnetica nuove speranze per il Parkinson

Da stimolazione magnetica nuove speranze per il ParkinsonRoma, 15 dic. (askanews) – Offrire nuove indicazioni per gli studi preclinici sulla terapia della Malattia di Parkinson. Nasce con questo obiettivo lo studio intitolato “Le risposte degli astrociti influenzano gli effetti locali della stimolazione magnetica in animali parkinsoniani” condotto dalle Università San Raffaele Roma, Cattolica del Sacro Cuore di Roma, La Sapienza di Roma e la Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma IRCCS, e finanziato dalla Marlene e Paolo Fresco Foundation, Fresco Parkinson Institute Italian Onlus e Fresco Parkinson Institute New York University Langone Health. Il coordinamento della ricerca è stato affidato alla prof.ssa Veronica Ghiglieri, che, in collaborazione con le prof.sse Micaela Liberti, Francesca Apollonio e Maria Teresa Viscomi, ha condotto uno studio pionieristico rivelando un effetto, fino ad oggi sconosciuto, della stimolazione magnetica transcranica – o Transcranial Magnetic Stimulation, TMS – su una specifica popolazione cellulare del Sistema Nervoso Centrale in un modello sperimentale di Malattia di Parkinson. La TMS, tecnica di stimolazione non invasiva, è impiegata nella ricerca clinica per modulare l’attività cerebrale, contribuendo al miglioramento del controllo del movimento volontario in alcune sottopopolazioni di pazienti, sebbene non si conoscano i meccanismi cellulari e molecolari attraverso cui esercita questi effetti benefici. I risultati, recentemente pubblicati sulla rivista scientifica Movement Disorders, i cui primi autori sono le dott.sse Giuseppina Natale e Micol Colella, indicano che la TMS agisce stimolando gli astrociti nel nucleo striato, riducendo l’eccitotossicità da glutammato e migliorando i sintomi motori della malattia. In particolare, è emerso che il trasportatore astrocitario del glutammato è uno dei “target” molecolari chiave di questi effetti positivi. “Nello studio di malattie complesse come quella del Parkinson è fondamentale l’approccio multidisciplinare – ha sottolineato Veronica Ghiglieri – e il successo della nostra analisi è frutto principalmente della filiera istituzionale che si è costituita tra realtà accademiche e centri di eccellenza nella ricerca. Questa scoperta potrebbe aprire la strada a piani terapeutici personalizzati, offrendo speranze ai pazienti affetti da Malattia di Parkinson. Il lavoro, supportato dalla Fresco Parkinson Institute Italia Onlus e dalla Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, promette di fornire indicazioni per lo sviluppo di strumenti per studi preclinici sempre più accurati e potenzialmente rivoluzionari nella terapia della Malattia di Parkinson”.