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Mosca denuncia attacco con droni sul Cremlino, Kiev: una messinscena

Mosca denuncia attacco con droni sul Cremlino, Kiev: una messinscenaRoma, 3 mag. (askanews) – Due droni sul Cremlino, Putin assente, nessun danno. Ma la Russia punta il dito contro Kiev e “si riserva il diritto di rispondere all’attacco terroristico” che sarebbe avvenuto la notte scorsa e che secondo i vertici ucraini potrebbe essere una messinscena.

L’Ucraina ha provato a colpire la residenza del presidente russo al Cremlino con velivoli senza pilota, ha reso noto il Cremlino, precisando che a seguito di una reazione tempestiva con sistemi di guerra elettronica, due sono stati disabilitati. E malgrado sia seguita “la caduta e la dispersione di frammenti sul territorio” della residenza presidenziale nel centro di Mosca, “non ci sono state vittime o danni materiali”. Il portavoce del presidente russo, parlando alla stampa, ha detto che Putin non era al Cremlino al momento degli eventi denunciati come “un atto terroristico pianificato”.

“No, oggi lavora a Nuovo Ogarevo” cioè nella residenza presidenziale fuori Mosca, ha affermato Dmitri Peskov, secondo cui non verrà revocata la parata militare del Giorno della Vittoria sulla Piazza Rossa il 9 maggio. Sul canale Telegram che porta il nome di un quartiere di Mosca nelle immediate vicinanze del Cremlino è stato postato un breve video in cui si vede una colonna di fumo che si leva dal perimetro della cittadella del potere nel centro di Mosca. Nel testo pubblicato dal canale “Vicini di casa. Yakimanka-Zamoskvoreche” (I vicini di casa del quartiere akimanka-Zamoskvoreche”) si legge che “il rumore era simile al rimbombo di un tuono”. I residenti della celebre ‘Casa sul lungofiume’ (protagonista dell’omonimo romanzo dello scrittore sovietico Yuri Trifonov) hanno visto nel cielo delle scintille e gente con lampade lungo le mura del Cremlino dopo lo scoppio.

Altre immagini, che sembrano confermare il clamoroso attacco, sono state pubblicate da diversi siti e canali Telegram. E la domanda che si pongono tutti riguarda la reazione che il Cremlino “si riserva”. Non a caso alcuni media ufficiali, come l’agenzia Ria Novosti, fanno notare che il consigliere Sergey Nikiforov, in pratica addetto stampa del presidente ucraino, ha detto che Zelensky sarà in Finlandia solo oggi, ma poi non rientrerà in Ucraina. Commentando questa notizia, sui social media russi si ironizza sul fatto che ora per Zelensky sarà difficile rientrare in aereo in patria. Esponenti nazionalisti russi o filorussi, come il leader del movimento basato nella regione di Zaporizhzhia “Noi stiamo con la Russia”, Vladimir Rogov, sostengono che bisogna colpire tutti i palazzi del potere ucraini. A cominciare da quello della presidenza. “Per quanto riguarda i droni sul Cremlino, era tutto prevedibile. La Russia sta chiaramente preparando un attacco terroristico su larga scala. Ecco perché prima mantiene un grande gruppo presumibilmente sovversivo in Crimea. E poi mostra i ‘droni sul Cremlino’”, ha scritto Mikhaylo Podolyak, consigliere del presidente Volodymyr Zelensky. Insomma una messinscena per motivare una escalation nel momento in cui Kiev si appresta a lanciare la tanto annunciata controffensiva nel Sud-Est ucraino.

La Ria Novosti: sventato un attacco con droni al Cremlino, Putin illeso

La Ria Novosti: sventato un attacco con droni al Cremlino, Putin illesoRoma, 3 mag. (askanews) – L’Ucraina ha provato a colpire la residenza del presidente russo al Cremlino con velivoli senza pilota: lo ha sostenuto il Cremlino, citato dall’agenzia Ria Novosti, spiegando che Vladimir Putin è rimasto illeso.

A seguito una reazione tempestiva con sistemi di guerra elettronica, i droni che hanno tentato di colpire il Cremlino sono stati disabilitati, è stato spiegato e “in seguito alla caduta e dispersione di frammenti sul territorio” della residenza presidenziale nel centro di Mosca “non ci sono state vittime o danni materiali”. La Russia considera l’attacco alla residenza presidenziale come atto terroristico pianificato, ha aggiunto il Cremlino.

Guida all’incoronazione di Carlo III, tra tradizione e innovazione

Guida all’incoronazione di Carlo III, tra tradizione e innovazioneRoma, 3 mag. (askanews) – Con la morte della madre, la regina Elisabetta II, lo scorso 8 settembre, Carlo III è diventato immediatamente re. Nei giorni successivi è stato formalmente proclamato nuovo sovrano e ora, dopo mesi di meticolosa preparazione, la sua incoronazione è alle porte.

Erede al trono da 70 anni, Carlo sarà ufficialmente incoronato con una solenne cerimonia religiosa il 6 maggio. Migliaia di persone prenderanno posto nell’Abbazia di Westminster e nelle strade circostanti del centro di Londra per assistere a una sensazionale esibizione dello sfarzo britannico. Per non parlare dei miliardi di persone che seguiranno lo spettacolo in televisione ai quattro angoli del pianeta. “L’incoronazione”, come concordano gli esperti, è molto di più che porre la corona sulla testa del sovrano. È un incontro simbolico della monarchia, della Chiesa e dello Stato per un rituale religioso durante il quale il monarca si consacra a Dio e al Paese. Buckingham Palace ha affermato che “rifletterà il ruolo del monarca oggi e guarderà al futuro, pur essendo radicata in tradizioni e fasti di lunga data”.

La cerimonia inizierà alle 11 del 6 maggio. La durata non è stata ancora confermata. L’incoronazione di Carlo III dovrebbe essere più breve di quella della augusta madre settant’anni fa. Allora, la cerimonia – che fu il primo evento reale ad essere trasmesso live in televisione – si protrasse per oltre tre ore. In molti scommettono che sarà probabilmente più vicino alle due ore. Anche se le incoronazioni sono rimaste sostanzialmente le stesse per più di 1.000 anni e gli organizzatori anche oggi si appoggiano a quella struttura.

La cerimonia sarà officiata dall’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. Gli elementi centrali di cui si compone sono il riconoscimento, il giuramento, l’unzione, l’investitura, l’incoronazione e l’omaggio. Il riconoscimento avviene quando il sovrano si trova nel cuore dell’abbazia e si presenta al popolo. Dopo aver prestato giuramento – promettendo di governare secondo la legge, di esercitare la giustizia con misericordia e di mantenere la Chiesa d’Inghilterra – il monarca viene unto con l’olio santo dall’arcivescovo. Questo momento che è considerato la parte più sacra della cerimonia, non fu trasmesso in televisione nel 1953. In vista del grande giorno di Carlo III l’arcivescovo Welby ha spiegato perché neanche sabato vedremo l’unzione del re, spiegando nel programma di ricordo che il momento è “un simbolo dell’investitura da parte del popolo per un compito speciale per il quale è necessario l’aiuto di Dio”. La parte successiva è l’investitura vera e propria, quando il sovrano è vestito con i paramenti sacri dell’incoronazione ed è presentato con i simboli della monarchia: il globo, gli scettri e altri oggetti.

Verso la fine della cerimonia, la corona di Sant’Edoardo viene posta sulla testa del monarca prima che principi e pari del regno si dirigano verso il sovrano per rendergli omaggio. Questa volta, però, si pensa che solo il principe William si inginocchierà davanti al re. In questa incoronazione, i “pari” sono stati sostituiti dal pubblico che è stato invitato a giurare fedeltà a Carlo se lo desidera. La corona di Sant’Edoardo fu realizzata per Carlo II nel 1661 in seguito alla restaurazione della monarchia l’anno precedente. Si ritiene che la precedente corona medievale, che fu sciolta nel 1649, risalisse al re inglese dell’XI secolo, Edoardo il Confessore.

Non è una replica esatta del disegno precedente, ma segue l’originale con quattro croci, quattro gigli e due archi. Realizzata in oro massiccio, è adornata con 444 pietre preziose – tra cui rubini, ametiste, zaffiri e altre gemme – ed è dotata di un cappuccio di velluto viola e di una fascia di ermellino. Storicamente, doveva rimanere nell’abbazia di Westminster, quindi fu creata una seconda corona per il sovrano da poter indossare all’esterno del luogo di culto. Questa seconda corona è l’Imperial State Crown, che viene spesso utilizzata per occasioni cerimoniali come l’inaugurazione del Parlamento. È dotata di 2.868 diamanti, incluso il massiccio Cullinan II. È stata realizzata nel 1937 ed è quasi una replica della precedente Imperial State Crown della regina Vittoria.

Terminati gli elementi spirituali del servizio, re Carlo e Camilla si dirigeranno alla Cappella di Sant’Edoardo, un santuario di pietra nel cuore dell’abbazia, dove il sovrano indosserà la Corona di Stato Imperiale in preparazione del ritorno a Buckingham Palace.

Il re riutilizzerà diversi capi storici indossati dai precedenti monarchi durante le passate incoronazioni negli “interessi della sostenibilità e dell’efficienza”, secondo Buckingham Palace.

“Sua Maestà riutilizzerà i paramenti presenti nei servizi di incoronazione di re Giorgio IV nel 1821, re Giorgio V nel 1911, e Giorgio VI nel 1937 e della regina Elisabetta II nel 1953, tra cui il Colobium Sindonis, la Supertunica, il Mantello Imperiale, la Cintura e i Guanti”, precisava il palazzo.

Due saranno le processioni per le vie della capitale britannica il giorno dell’incoronazione. Una porterà il re all’Abbazia di Westminster e l’altra dopo il servizio sarà una parata più grande per fare ritorno a Buckingham Palace, dove il monarca e i membri della famiglia reale faranno un’apparizione sul balcone e assisteranno ad un sorvolo dell’aeronautica britannica.

Ushakovs: russi in Lettonia non c’entrano con aggressione Ucraina

Ushakovs: russi in Lettonia non c’entrano con aggressione UcrainaRiga, 3 mag. (askanews) – “Puoi scegliere strade diverse quando hai un bivio davanti”. Ne sa qualcosa l’eurodeputato lettone Nils Ushakovs, ex sindaco di Riga, esponente del partito social democratico Armonia (Saskana), il più grande partito politico a rappresentare la minoranza russa della Lettonia prima di perdere tutti i suoi seggi parlamentari nelle elezioni legislative lettoni del 2022, dopo aver condannato apertamente l’aggressione russa all’Ucraina. “I crimini a Bucha rimangono i crimini a Bucha. Punto”, dice. “Ma i russi in Lettonia, i russofoni in Lettonia – prosegue – non hanno niente a che fare con la guerra della Russia contro l’Ucraina e non hanno nulla a che fare con la responsabilità dei crimini e gli orrori che stanno accadendo lì. Ma certo, nelle circostanze in cui viviamo oggi, non si può sempre contare su un comportamento del tutto adeguato, da tutte le parti”, afferma in una video intervista ad askanews.

Dinnanzi alla guerra in Ucraina, la scelta compiuta da Saskana, della quale Ushakovs è uno degli motori principali, è stata in un certo senso inattesa, oltre che coraggiosa. Ma a guardare il risultato elettorale (4.86%, ovvero sotto la soglia di sbarramento del 5%), la rifareste?, gli chiede askanews. “Sì, certo” risponde sicuro Ushakovs. “E non si discute. C’è la guerra e tu, con la guerra in corso non determini la tua posizione? Impossibile, non scherziamo. Anche se nella parte occidentale dell’Unione Europea, a volte non tutti i politici lo capiscono: lo vediamo in Germania, per esempio, in Francia, e anche in Italia: la profondità della consapevolezza del problema beh, potrebbe essere considerata un po’ diversa. Ma in Lettonia (sul fronte orientale più avanzato della Nato e con 217 chilometri di confine con la Russia, ndr) non può essere così”. Come anche, non è possibile, concedersi seconde possibilità. “Non puoi fare esperimenti rischiando di raggiungere altri estremi. Non puoi incolpare i residenti di lingua russa a Riga per i crimini di Bucha, perché non hanno niente a che fare con questo. Ma i crimini a Bucha rimangono i crimini a Bucha. Punto”, aggiunge l’ex sindaco.

Ushakovs è anche uno dei due eurodeputati lettoni che, insieme con Ivars Ijabs, è parte dell’Intergruppo del Parlamento europeo sui diritti LGBT; ammette che “ora difendere i diritti umani e difendere le cose più giuste in russo è naturalmente più difficile di quanto non fosse due anni fa. Sfortunatamente, per una ragione ingiusta ma oggettiva: la lingua russa sarà meno popolare e avrà meno potere di influenza, proprio a causa della guerra. Sta già succedendo. Bisogna farsene una ragione. Ma è come nelle vecchie barzellette: che probabilità hai di incontrare un dinosauro? 50/50, o lo incontri o non lo incontri. La missione è importante e ha un significato a livello europeo che è più alto della nazionalità. Ma può non riuscire, e non saremmo né i primi, né gli ultimi”. Quale futuro attende i cittadini europei di lingua russa? “Nazioni diverse, in momenti diversi nel tempo, hanno vissuto un’esperienza in cui tutto è finito con il fatto che la stessa lingua è parlata da persone che possono appartenere a diverse identità statali, a diverse possibili identità politiche: appartenere alla stessa lingua non significa che le persone fanno parte di un popolo o di una comunità” dichiara Ushakovs e aggiunge: “Le persone che parlano francese, inglese e tedesco e spagnolo hanno già attraversato questo. Forse ora è arrivato il momento in cui la storia si è sviluppata per coloro che parlano russo: ci sarà anche l’opportunità di definire se stessi o come una persona che appartiene alla Russia, che si considera cittadino russo (e questo non significa essere di etnia russa poiché i russi per cittadinanza appartengono ai più disparati gruppi etnici) o ti consideri una persona che, da un lato parla russo, ma dall’altro parla una o più lingue europee e si considera appartenente all’identità politica europea”.

Lo scorso anno, in ottobre, in Lettonia si è votato per il Parlamento. Saskana non ha superato la soglia del 5% e per la prima volta non ha guadagnato nessun seggio. Molto si è scritto e dibattuto se il fallimento elettorale sia stata la scelta sulla guerra o ci sia altro. E ora lo spettro di elettori che parlano russo è conteso da quattro partiti. Ma cosa chiede l’elettorato a Saskana? “In primo luogo, qui dobbiamo sottolineare che stiamo parlando di cittadini di lingua russa della Lettonia, che hanno un passaporto europeo come tutti gli altri. Poi molto dipende dall’età, dalla geografia. C’è una differenza nell’autodeterminazione: parte dei russofoni si definiscono completamente lettoni, si considerano lettoni di lingua russa. C’è una parola del genere in russo che ti permette di differenziare i russi dai lettoni di lingua russa. Sfortunatamente non c’è in inglese e questo è in realtà un grosso problema: può sembrare ridicolo, ma quando la stessa parola è usata sia per la lingua, che per le sanzioni, e per una guerra di aggressione, può essere un problema”. E ora che la Finlandia è il 31esimo Paese Nato, sul fronte orientale è cambiato qualcosa? “Da un punto di vista militare probabilmente no perché, l’esercito della Finlandia non è cambiato, era potente per i loro standard, compresa l’artiglieria e l’esperienza e così via, e rimane così. Ma da un punto di vista simbolico, ovviamente, la differenza è enorme. E più ancora, in generale per integrazione, il Golfo di Finlandia è diventato un golfo interno, un lago della NATO (sul quale si affaccia anche la russa San Pietroburgo, ndr) e questo ha ovviamente un significato. Ma è positivo che i finlandesi abbiano aderito alla NATO, era tempo che lo facessero”.

(di Cristina Giuliano e Serena Sartini)

Studente spara in una scuola primaria a Belgrado: 9 morti e 7 feriti

Studente spara in una scuola primaria a Belgrado: 9 morti e 7 feritiRoma, 3 mag. (askanews) – Uno studente ha aperto il fuoco questa mattina in una scuola elementare di Belgrado, uccidendo nove persone e ferendone altre sette. Lo riferisce il ministero dell’Interno della Serbia. Secondo i media locali, lo studente – che è stato arrestato – avrebbe usato la pistola del padre. Tra le vittime figurano alcuni alunni. Al momento non sono chiari i motivi del gesto. La sparatoria è avvenuta nella scuola “Vladislav Ribnikar”, nel quartiere centrale di Vlacar della capitale serba.

Turchia, Anghelone: “Era Erdogan non è finita, c’è pericolo di instabilità”

Turchia, Anghelone: “Era Erdogan non è finita, c’è pericolo di instabilità”Roma, 3 mag. (askanews) – Attenzione a parlare della fine di un’era, gli elementi di novità e di rischio nella tornata elettorale turca del 14 maggio sono tanti, ma per il capo di stato Recep Tayyip Erdogan non è ancora la parola fine e gli scenari di uno scrutinio al ballottaggio all’ultima scheda potrebbero creare una forte instabilità nel Paese che condizionerebbe anche l’intero quadrante del Mediterraneo e gli interessi di Europa e Stati uniti nell’area. A fare il quadro della situazione a 10 giorni dalle elezioni presidenziali e politiche in Turchia è Francesco Anghelone, coordinatore dell’Osservatorio sul Mediterraneo dell’Istituto di studi politici “S.Pio V” che parlando ad askanews ha spiegato quali sono le differenze rispetto al 2018, data della vittoria schiacciante del leader turco.

“I sondaggi ci dicono che i due candidati sono molto vicini. Starei molto attento a dire che è finita l’era di Erdogan, ma abbiamo un dato nuovo rispetto agli ultimi 20 anni, si tratta di elezioni contese”, spiega parlando dell’attuale situazione che vede il capo di stato uscente leggermente sotto lo sfidante Kemal Kilicdaroglu, candidato della coalizione di opposizione. “Sia con il vecchio sistema elettorale con la candidatura a capo del governo sia con l’attuale, con l’elezione diretta del presidente che dà al capo di stato un potere assoluto, dal 2018, Erdogan non ha mai vissuto elezioni realmente contese. Basta pensare che nel 2018 vinse al primo turno con il 52%. Inoltre, per la prima volta le opposizioni si sono presentate con un candidato unico”, sottolinea Anghelone. Nonostante l’Alleanza nazionale sia eterogenea, “tema che è stato portato come elemento di debolezza della coalizione”, al suo interno si trovano figure come “Alì Babacan, che è stato ministro delle Finanze con il capo di Stato in carica, o Ahmet Davutoglu, ex ministro degli Esteri e premier, che da studioso con il suo volume sulla ‘profondità strategica turca’ è stato il teorico della ivoluzione della politica estera turca, definita neo-ottomana. Si tratta di due figure che hanno preso le distanze dall’Akp ma che sono state molto legate a Erdogan”, aggiunge l’esperto.

“L’altro elemento importante e di novità è il sostegno del partito dei curdi, l’Hdp, per Kilicdaroglu, non era scontato – prosegue – questi fattori messi uno a fianco all’altro rendono evidente come la stretta autoritaria che ha messo in campo Erdogan, con un’accelerazione dopo il tentato golpe del 2016, abbia veramente fratturato il Paese in due parti e abbia determinato uno scontento profondo, una lotta tra il bene e il male. E per la prima volta Erdogan rischia, perché affronta un fronte compatto in una congiuntura economica sfavorevole”. Per Anghelone, infatti, non bisogna sottovalutare neppure il forte malcontento interno che si focalizza sul crollo del potere di acquisto e sull’inflazione e sulla gestione del sisma: “Fino al 2013-14, Erdogan ha goduto di dati economici molto buoni, con il reddito pro capite in costante aumento, adesso la situazione è opposta, l’inflazione è vicina al 100%. Per quanto riguarda i devastanti terremoti di febbraio, ci sono vari elementi da considerare: da una parte una buona fetta dell’elettorato del capo di stato turco e del suo partito, l’Akp, si trova in quelle zone dove la situazione è caotica e non si sa nemmeno se si riuscirà a votare. Dall’altro, Erdogan paga soprattutto la cattiva gestione dei soccorsi e le falle dell’edilizia, uno dei motori della crescita economica. I governi Akp hanno spesso chiuso un occhio se non entrambi sul rispetto delle norme antisismiche che se applicate avrebbero forse evitato le decine di migliaia di morti”.

C’è poi un ulteriore elemento di novità, i circa sei milioni di neo-elettori che si recheranno per la prima volta alle urne: “E’ difficile dire se voteranno per gli altri candidati soltanto come reazione e voglia di cambiamento rispetto alla politica conservatrice degli ultimi 20 anni. Come è anche alta la percentuale di indecisi tra i giovani”, sottolinea Anghelone. Esaminate le novità rispetto alle passate elezioni, tenendo presente la possibilità di un ballottaggio con un margine di vittoria esiguo, “si aprono diversi scenari”, tra cui l’eventualità che “Erdogan ripeta quello che è stato fatto nel 2019 a Istanbul, richiedendo il conteggio delle schede e creando tensione forte e instabilità”. Una situazione pericolosa “dato il modo autoritario con cui governa la Turchia da anni, l’ondata di arresti dopo il 2016 che hanno colpito il settore dei media e degli accademici, la società civile e le ong”.

“Perdere il potere per Erdogan non sarebbe solo una sconfitta politica, i rischi sarebbero molti, anche per la sua famiglia, a causa dei poco indagati interessi economici costruiti in questi anni. Il capo di Stato turco potrebbe decidere di arroccarsi con un grave timore per questo comporterebbe per la tenuta delle istituzioni turche: in un Paese così spaccato gli esiti potrebbero essere disatrosi” sia all’interno che all’estero. “La vittoria di Erdogan con un margine risicato o con un Paese instabile sarebbe un elemento di debolezza anche per il quadrante del Mediterraneo orientale e per gli interessi di Europa, Stati uniti e Nato nell’area. Se prevalesse invece Kilicdaroglu, che ha dato un segnale chiaro di rottura nell’impostazione di potenza regionale autonoma per Ankara, la postura turca sarebbe diversa, più forte e cruciale per gli alleati occidentali in un contesto di nuova polarizzazione mondiale, con la Cina sempre più attiva in Africa e la Russia nel Sahel e in Libia”. (di Daniela Mogavero)

Biden ha scelto Jack Markell come nuovo ambasciatore a Roma

Biden ha scelto Jack Markell come nuovo ambasciatore a RomaRoma, 3 mag. (askanews) – Jack Alan Markell, consigliere e amico personale del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, è stato scelto dal presidente Usa come prossimo ambasciatore americano in Italia. Dell’imminente nomina si vociferava da giorni al Senato americano, anche perchè apre un giro di poltrone tra cui quella di ambasciatore presso l’Osce a Parigi, e il Corriere della Sera ha ottenuto la conferma, anche se i tempi precisi dell’arrivo del nuovo rappresentante Usa a Roma non sono ancora precisati.

Sessantatré anni, membro del Partito democratico, Markell è l’attuale ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, incarico che andrà all’ex senatore Sean Patrick Maloney, capo della campagna dei democratici per le elezioni dell’anno scorso. Markell è stato governatore del Delaware, lo stato di Biden, dal 2009 al 2017 ed ha anche lavorato come coordinatore della Casa Bianca per l’operazione Allies Refuge, con la quale il governo degli Stati Uniti ha portato a casa alcuni civili afgani a rischio, come interpreti e impiegati dell’ambasciata americana, dopo il ritiro militare dall’Afghanistan. Sposato con due figli, un Master in business administration all’Università di Chicago, Markell ha iniziato la sua carriera dirigenziale lavorando come banchiere alla First Chicago Corporation. Poi è diventato consulente alla McKinsey & Company, e quindi ha assunto la carica di vicepresidente senior della Fleet Call – poi Nextel Communications. Infine è stato manager a Comcast.

Da governatore del Delaware, ricorda la stampa americana, ha poruto contare sul sostegno di Beau Biden, il figlio maggiore del presidente, fino alla sua morte nel 2015. Beau Biden era il procuratore generale dello Stato e aveva espresso la sua intenzione di candidarsi alla carica di governatore nel 2016, proprio per prendere il posto di Markell. Se la scelta di Markell sarà confermata dal Congresos Usa, la sede diplomatica di Roma avrà di nuovo un ambasciatore dopo oltre due anni di assenza. Un vuoto che ha fatto sollevare interrogativi anche dall’altra parte dell’Atlantico, visto che la sede italiana è ambita, l’Italia è uno stretto alleato degli Usa e la congiuntura internazionale particolarmente tesa in Europa aumenta la necessità di diretti confronti nelle capitali, che certo possono essere svolti da un incaricato d’affari, ma con altro rilievo nei rapporti con il dipartimento di Stato e la stessa presidenza. A metà marzo, commentando la conferma di Eric Garcetti come ambasciatore in India, il sito di notizie Axios, scriveva di “un certo mistero dell’era Biden: l’ambasciata in Italia vacante” dopo oltre due anni dall’insediamento di Biden, malgrado la sede roma sia “tra le più ambite al Dipartimento di Stato”. Tuttavia la prassi statunitense nelle nomine degli ambasciatori è di pescare ampiamente fuori dai diplomatici di carriera, assegnando le ambasciate chiave a figure vicine ai presidenti o a donatori di peso.

Reporters senza frontiere: mai la libertà di stampa è stata minacciata in così tanti Paesi

Reporters senza frontiere: mai la libertà di stampa è stata minacciata in così tanti Paesi

Roma, 3 mag. (askanews) – La libertà dei media è in pessime condizioni in un numero record di Paesi, secondo l’ultimo rapporto di Reporters senza frontiere (Rsf), che avverte che la disinformazione, la propaganda e l’intelligenza artificiale rappresentano minacce crescenti per il giornalismo. L’Italia, è però riuscita a scalare la classifica nell’ultimo anno, attestandosi al 41esimo posto su 180, e guadagnando 17 posizioni rispetto al 2022.

Il World Press Freedom Index rivela una situazione scioccante, con 31 paesi considerati in una “situazione molto grave” e con un punteggio molto basso, senza precedenti, rispetto ai 21 di due anni fa. L’aumento dell’aggressività da parte di governi autocratici – e di alcuni che sono considerati democratici – unita a “massicce campagne di disinformazione o propaganda” ha fatto peggiorare la situazione, secondo l’elenco, pubblicato da Rsf.

“C’è più rosso sulla mappa di RSF quest’anno che mai, poiché i leader autoritari diventano sempre più audaci nei loro tentativi di mettere a tacere la stampa”, ha detto al Guardian il segretario generale di Rsf, Christophe Deloire. “La comunità internazionale deve prendere coscienza della realtà e agire insieme, in modo deciso e rapido, per invertire questa tendenza pericolosa”. Oggi ricorre il 30mo anniversario della prima Giornata mondiale della libertà di stampa, istituita per ricordare ai governi il loro dovere di sostenere la libertà di espressione. Tuttavia, l’ambiente per il giornalismo oggi è considerato “cattivo” in sette paesi su 10 e soddisfacente solo in tre su 10, secondo Rsf. L’Onu afferma che l’85% delle persone vive in paesi in cui la libertà dei media è diminuita negli ultimi cinque anni.

L’indagine valuta lo stato dei media in 180 paesi e territori, esaminando la capacità dei giornalisti di pubblicare notizie di interesse pubblico senza interferenze e senza minacce alla propria incolumità.

Il rapporto mostra che i rapidi progressi tecnologici stanno consentendo ai governi e agli attori politici di distorcere la realtà. “La differenza tra vero e falso, reale e artificiale, fatti e artifici si sta offuscando, mettendo a repentaglio il diritto all’informazione”, afferma il rapporto. “La capacità senza precedenti di manomettere i contenuti viene utilizzata per indebolire coloro che incarnano il giornalismo di qualità e indebolire il giornalismo stesso”. L’intelligenza artificiale sta “provocando ulteriore scompiglio nel mondo dei media”, si aggiunge, con strumenti di intelligenza artificiale “che digeriscono i contenuti e li rigurgitano sotto forma di sintesi che violano i principi di rigore e affidabilità”. Allo stesso tempo, i governi stanno combattendo sempre più una guerra di propaganda. La Russia, che era già precipitata in classifica lo scorso anno dopo l’invasione dell’Ucraina, è scesa di altre nove posizioni, mentre i media statali ripetono servilmente la linea del Cremlino mentre i media dell’opposizione sono costretti all’esilio.

Tagikistan, India e Turchia, sono passati dalla “situazione problematica” alla categoria più bassa. L’India ha registrato un calo particolarmente netto, sprofondando di 11 posizioni, fino alla 161esima, dopo le acquisizioni dei media da parte di oligarchi vicini a Narendra Modi. In Turchia, l’amministrazione del presidente Recep Tayyip Erdo?an ha intensificato la persecuzione dei giornalisti in vista delle elezioni del 14 maggio, ha affermato Rsf. La Turchia imprigiona più giornalisti di qualsiasi altra democrazia.

Alcuni dei maggiori cali dell’indice del 2023 si sono verificati in Africa. Fino a poco tempo fa modello regionale, il Senegal è sceso di 31 posizioni, principalmente a causa delle accuse penali mosse contro due giornalisti, Pape Alé Niang e Pape Ndiaye. La Tunisia ha perso 27 posizioni a causa del crescente autoritarismo del presidente Kais Saied. Il Medio Oriente è la regione più pericolosa del mondo per i giornalisti. Ma le Americhe non hanno più nessun paese colorato di verde, che significa “buono”, sulla mappa della libertà di stampa. Gli Stati Uniti sono scesi di tre posizioni al 45esimo posto. La regione Asia-Pacifico è trascinata al ribasso da regimi ostili ai giornalisti, come il Myanmar (173esimo) e l’Afghanistan (152esimo).

I paesi nordici sono invece da tempo in testa alla classifica Rsf dei Paesi più virtuosi e la Norvegia è rimasta al primo posto nell’indice sulla libertà di stampa per il settimo anno consecutivo. Ma al secondo posto si è classificato un paese non nordico: l’Irlanda. I Paesi Bassi sono tornati tra i primi 10, salendo di 22 posizioni, dopo l’omicidio del 2021 del reporter di cronaca nera Peter R de Vries . Il Regno Unito si trova al 26esimo posto.

Rapporto Rsf: mai libertà di stampa minacciata in così tanti Paesi

Rapporto Rsf: mai libertà di stampa minacciata in così tanti PaesiRoma, 3 mag. (askanews) – La libertà dei media è in pessime condizioni in un numero record di Paesi, secondo l’ultimo rapporto di Reporters senza frontiere (Rsf), che avverte che la disinformazione, la propaganda e l’intelligenza artificiale rappresentano minacce crescenti per il giornalismo. L’Italia, è però riuscita a scalare la classifica nell’ultimo anno, attestandosi al 41esimo posto su 180, e guadagnando 17 posizioni rispetto al 2022.

Il World Press Freedom Index rivela una situazione scioccante, con 31 paesi considerati in una “situazione molto grave” e con un punteggio molto basso, senza precedenti, rispetto ai 21 di due anni fa. L’aumento dell’aggressività da parte di governi autocratici – e di alcuni che sono considerati democratici – unita a “massicce campagne di disinformazione o propaganda” ha fatto peggiorare la situazione, secondo l’elenco, pubblicato da Rsf. “C’è più rosso sulla mappa di RSF quest’anno che mai, poiché i leader autoritari diventano sempre più audaci nei loro tentativi di mettere a tacere la stampa”, ha detto al Guardian il segretario generale di Rsf, Christophe Deloire. “La comunità internazionale deve prendere coscienza della realtà e agire insieme, in modo deciso e rapido, per invertire questa tendenza pericolosa”.

Oggi ricorre il 30mo anniversario della prima Giornata mondiale della libertà di stampa, istituita per ricordare ai governi il loro dovere di sostenere la libertà di espressione. Tuttavia, l’ambiente per il giornalismo oggi è considerato “cattivo” in sette paesi su 10 e soddisfacente solo in tre su 10, secondo Rsf. L’Onu afferma che l’85% delle persone vive in paesi in cui la libertà dei media è diminuita negli ultimi cinque anni. L’indagine valuta lo stato dei media in 180 paesi e territori, esaminando la capacità dei giornalisti di pubblicare notizie di interesse pubblico senza interferenze e senza minacce alla propria incolumità.

Il rapporto mostra che i rapidi progressi tecnologici stanno consentendo ai governi e agli attori politici di distorcere la realtà. “La differenza tra vero e falso, reale e artificiale, fatti e artifici si sta offuscando, mettendo a repentaglio il diritto all’informazione”, afferma il rapporto. “La capacità senza precedenti di manomettere i contenuti viene utilizzata per indebolire coloro che incarnano il giornalismo di qualità e indebolire il giornalismo stesso”. L’intelligenza artificiale sta “provocando ulteriore scompiglio nel mondo dei media”, si aggiunge, con strumenti di intelligenza artificiale “che digeriscono i contenuti e li rigurgitano sotto forma di sintesi che violano i principi di rigore e affidabilità”. Allo stesso tempo, i governi stanno combattendo sempre più una guerra di propaganda. La Russia, che era già precipitata in classifica lo scorso anno dopo l’invasione dell’Ucraina, è scesa di altre nove posizioni, mentre i media statali ripetono servilmente la linea del Cremlino mentre i media dell’opposizione sono costretti all’esilio.

Tagikistan, India e Turchia, sono passati dalla “situazione problematica” alla categoria più bassa. L’India ha registrato un calo particolarmente netto, sprofondando di 11 posizioni, fino alla 161esima, dopo le acquisizioni dei media da parte di oligarchi vicini a Narendra Modi. In Turchia, l’amministrazione del presidente Recep Tayyip Erdo?an ha intensificato la persecuzione dei giornalisti in vista delle elezioni del 14 maggio, ha affermato Rsf. La Turchia imprigiona più giornalisti di qualsiasi altra democrazia. Alcuni dei maggiori cali dell’indice del 2023 si sono verificati in Africa. Fino a poco tempo fa modello regionale, il Senegal è sceso di 31 posizioni, principalmente a causa delle accuse penali mosse contro due giornalisti, Pape Alé Niang e Pape Ndiaye. La Tunisia ha perso 27 posizioni a causa del crescente autoritarismo del presidente Kais Saied.

Il Medio Oriente è la regione più pericolosa del mondo per i giornalisti. Ma le Americhe non hanno più nessun paese colorato di verde, che significa “buono”, sulla mappa della libertà di stampa. Gli Stati Uniti sono scesi di tre posizioni al 45esimo posto. La regione Asia-Pacifico è trascinata al ribasso da regimi ostili ai giornalisti, come il Myanmar (173esimo) e l’Afghanistan (152esimo).

I paesi nordici sono invece da tempo in testa alla classifica Rsf dei Paesi più virtuosi e la Norvegia è rimasta al primo posto nell’indice sulla libertà di stampa per il settimo anno consecutivo. Ma al secondo posto si è classificato un paese non nordico: l’Irlanda. I Paesi Bassi sono tornati tra i primi 10, salendo di 22 posizioni, dopo l’omicidio del 2021 del reporter di cronaca nera Peter R de Vries. Il Regno Unito si trova al 26esimo posto.

Chi tra i leader non è stato invitato all’incoronazione di Carlo (a parte Putin)

Chi tra i leader non è stato invitato all’incoronazione di Carlo (a parte Putin)Roma, 2 mag. (askanews) – Vladimir Putin, il presidente della Russia, non è stato invitato a partecipare all’incoronazione di re Carlo di questo fine settimana. Lo ha riportato l’agenzia di stampa Reuters. Come Putin, non figurano nella lista degli invitati i leader di Bielorussia, Iran, Myanmar, Afghanistan e Venezuela. Kim Jong Un, leader della Corea del Nord, non è stato invitato, ma è stato offerto un posto a un alto diplomatico. Sono stati tutti invitati i capi di stato dei Paesi con cui il Regno Unito intrattiene piene relazioni diplomatiche, così come i leader dei territori e dei regni d’oltremare.