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Artissima 2023, una fiera che cerca l’empatia del contemporaneo

Artissima 2023, una fiera che cerca l’empatia del contemporaneoTorino, 2 nov. (askanews) – Una fiera d’arte contemporanea che ragiona sul tema del prendersi cura: Artissima 2023, che a Torino apre la propria trentesima edizione, prova a offrire una prospettiva più consapevole su quello che è un evento principalmente commerciale, ma che da anni prova ad andare anche oltre. A introdurci nel modo in cui la fiera pensa se stessa è il direttore Luigi Fassi.

“Siamo partiti dall’ispirazione di un antropologo brasiliano contemporaneo – ha detto ad askanews – che invita ad utilizzare l’arte come grande fabulazione che possa nutrire il nostro immaginario e portarci a delle rivoluzioni nell’ambito sociale, politico e anche personale. Forse dobbiamo superare le crisi del nostro tempo anche attraverso il contributo che ci dà l’arte. Ecco perché nella condivisione del tema con le gallerie che partecipano, le abbiamo invitate a pensare anche in termini di cura, a riscoprire artisti, a portarli alla nostra attenzione, a presentare nuove opere, nuove committenze che sono qui per la prima volta visibili. Come se fosse un luogo felicemente teso, non è lo studio dell’artista, non è ancora il museo, è un luogo magmatico intermedio dove proprio il nostro immaginario è sollecitato al massimo, facciamo scoperte e abbiamo questo rapporto così empatico con l’arte”. In questo spazio intermedio si muove anche l’anima più intellettuale di Artissima, con le sezioni curate e i tanti direttori di musei coinvolti, che però trova modo pure di dialogare a tutto tondo con le gallerie, offrendo una piattaforma che consente tanto di dare spazio a messaggi politicamente forti, per esempio sul tema dei rifugiati, quanto di essere occasione commerciale rilevante. E lo fa con una energia che, complice anche la struttura dell’Oval, si percepisce fisicamente passando tra i vari stand.

“Abbiamo gallerie da 33 Paesi – ha aggiunto Fassi – abbiamo gallerie dal Sud America, dal Nord America, dal Medio Oriente, abbiamo gallerie da Israele, abbiamo gallerie fatte di persone e di artisti che sono qui per guardarsi negli occhi, parlare, parlare di idealità, che significa di idee sul nostro presente, per parlare del nostro futuro, di come imparare a vivere meglio e di farlo guardando all’arte e lasciandoci ispirare anche empaticamente, emotivamente, idealmente dall’arte. E questo mi sembra oggi in Italia qualcosa di straordinario”. Le gallerie presenti sono 181, 68 di esse propongono progetti monografici e curati, con grande attenzione anche alle emergenti. Lo spirito di Artissima poi si apre anche alla città, che vive la propria settimana dell’arte e vede inaugurazioni e mostre in tutta Torino.

A Bologna “Ad occhi aperti”, nuovo non-festival erede di Bilbolbul

A Bologna “Ad occhi aperti”, nuovo non-festival erede di BilbolbulRoma, 2 nov. (askanews) – Si chiama “Ad occhi aperti. Disegnare il contemporaneo” la nuova creatura di Hamelin, associazione che da più di vent’anni si occupa di educazione alla lettura, letteratura per l’infanzia, fumetto e illustrazione. Dopo l’annuncio, nel 2022, della conclusione di BilBOlbul, Festival Internazionale di Fumetto nato nel 2007, che nel corso di 15 edizioni ha aperto un’importante finestra sul fumetto contemporaneo portando a Bologna le proposte più interessanti del panorama italiano e internazionale, Hamelin è pronta a intraprendere un nuovo cammino tornando alle origini, quando BilBOlbul, prima ancora che festival, era un gruppo di studio e di ricerca sul fumetto. “Ad occhi aperti” segue queste tracce, avendo l’ambizione di essere uno spazio di conversazione intorno al disegno come processo: disegnare è un meccanismo che permette di guardare e provare e capire. Tutto il programma ruota intorno a un tema – QUI? Come abitare oggi? – e comprende mostre, laboratori, residenze, incontri, produzioni artistiche ed editoriali. Ogni elemento è un tassello di un’indagine che, attraverso le opere di un gruppo di fumettist* diversi per provenienza e stile, va alla ricerca delle storie e delle immagini che meglio esprimono il nostro rapporto con gli spazi che abitiamo. Un tema che, non a caso, riprende il titolo del celebre graphic novel di Richard McGuire tutto dedicato alla storia di un angolo del salotto della casa di famiglia. Ma il punto interrogativo aggiunto sta proprio a porre il dubbio: possiamo ancora avere un rapporto così radicato con la realtà dove viviamo? E come racconta il fumetto questo rapporto e le sue mutazioni?

“Ragionare sul modo in cui alcune espressioni del fumetto contemporaneo stanno rappresentando le mutazioni del modo di abitare è un’occasione fertile per porsi delle domande – dice Emilio Varrà di Hamelin. – Il fumetto è stato, fin dalle origini, uno specchio del nostro modo di abitare gli spazi, e oggi è chiamato ad assolvere questa funzione con forme congruenti alle radicali trasformazioni che stiamo vivendo: l’incertezza circa l’abitabilità del pianeta; la dialettica tra spazio reale e virtuale, dove il secondo si rivela in fin dei conti il più abitato nella quotidianità; l’esperienza ancora recente di una pandemia che ha provocato una frattura del rapporto tra interno ed esterno e ha mutato il modo di vivere la casa; la trasformazione in atto di tante città che si offrono al mercato della mobilità di massa. Come si pone il fumetto contemporaneo di fronte a queste trasformazioni? E ancora: quanto è presente l’abitare come tema delle storie a fumetti che leggiamo? E in che modo questo tema si esprime visivamente? Sono queste le domande alla base di questa edizione di Ad occhi aperti”. L’appuntamento è dal 23 al 26 novembre prossimi a Bologna, con un evento speciale in programma il 18 novembre con Manuele Fior e Sammy Stein. In quell’occasione inaugureranno le due mostre dedicate al tema dell’abitare. Da un lato, la collettiva Qui? Come abitare oggi? alla Sala Museale Elisabetta Possati del Quartiere Santo Stefano (via Santo Stefano 119), con le opere di 5 autori – Jérôme Dubois, Marijpol, Erik Svetoft, Lisa Mouchet e Sammy Stein – che hanno lavorato sulle diverse dimensioni dell’abitare e delle sue rappresentazioni, in un presente fortemente caratterizzato dall’incertezza collettiva sull’abitabilità del pianeta nel presente e nel futuro, dall’abitabilità della Rete, dall’esperienza di una pandemia che ha generato una frattura tra interno ed esterno, dalle mutazioni delle città. Artisti che mettono in scena uno squilibrio nuovo nel rapporto tra noi e lo spazio, che nasce nel momento in cui ci rendiamo conto che non ne abbiamo davvero il controllo, e che forse non siamo neppure coloro che possono avere più voce in capitolo su come si può leggere e prevedere il mondo fuori di noi.

Il lavori in mostra esibiscono un nuovo approccio nel raccontare storie e rappresentare spazi: quelli di Jérôme Dubois con rigore stilistico esplora la fascinazione per le rovine, portando la bellezza nei luoghi della catastrofe; le storie di Marijpol indagano il rapporto tra i corpi disegnati e gli sfondi su cui si muovono; gli universi narrativi dello svedese Erik Svetoft sono specchi distorti delle ingiustizie e delle storture del nostro mondo; Lisa Mouchet si muove al confine tra fumetto e illustrazione nel rappresentare architetture, interni e paesaggi abitati da presenze spettrali; infine Sammy Stein porta il fumetto agli estremi della sperimentazione e realizzerà una produzione apposta per “Ad occhi aperti”. Lo stesso Stein condurrà un workshop intensivo in cui creare storie a fumetti a partire dalla rappresentazione dello spazio. Accanto alla collettiva, sarà realizzata una seconda mostra che si pone come vera e propria produzione artistica attraverso il coinvolgimento diretto nella progettazione della fumettista Eliana Albertini e della fotografa Valentina D’Accardi: combinando fumetto e fotografia cercheranno di raccontare il senso dell’abitare attraverso il rapporto con gli oggetti e la dimensione intima degli spazi quotidiani. Le due artiste hanno immaginato una “convivenza fantastica” tra un personaggio reale, la nonna di D’Accardi, protagonista di una delle sue indagini fotografiche che esplorano la dimensione della memoria e lo spazio intimo, e uno immaginario, la protagonista di Anche le cose hanno bisogno, graphic novel di Eliana Albertini uscito per Rizzoli nel 2022 e vincitore del premio Boscarato nello stesso anno. La mostra, in programma nella Sala Museale Giulio Cavazza del Quartiere Santo Stefano (via Santo Stefano 119), è un esercizio di archeologia degli oggetti, in apparenza ordinari, che abitano le nostre case e fanno parte del paesaggio intimo di ognuno di noi; lo sguardo delle due artiste si sofferma su tutte quelle cose che, lontanissime dall’estetica Ikea che rende le case contemporanee uniformi, rivelano le tracce di chi le abita.

In programma anche la pubblicazione del volume Qui? Come abitare oggi, che, oltre ad accompagnare i visitatori nella scoperta delle mostre e degli ospiti, raccoglie in una serie di saggi critici le riflessioni del gruppo di lavoro che ha curato “Ad occhi aperti”: una riflessione a tutto tondo che, a partire dal disegno, si interroga sugli immaginari visivi intorno al tema dell’abitare, e a cui si legano le mostre e gli eventi in programma, a partire dalle personali di Miguel Vila e di Samuele Canestrari, costruite attorno al tema dell’abitare. La prima mostra il lavoro di studio quasi antropologico sul nord Italia di Vila, uno dei giovani talenti italiani più attenti al lavoro sul paesaggio, di cui è appena uscito per Canicola il terzo graphic novel, Comfortless. La seconda mostrerà, tra le altre, le tavole dell’ultimo libro di Canestrari, Urlare la morte con la testa nel cuscino e quelle del progetto Alice abita ancora qui, realizzato assieme ad Ahmed Ben Nessib, entrambi editi da Tricromia. “Ad occhi aperti” ha l’ambizione di funzionare come un radar, esplorando le forme del disegno più capaci di cogliere gli indizi di ciò che accade nei mondi che abitiamo, e appoggiandosi al fumetto per raccontare il presente.

La mostra “Manibus Experience” fino al 19 novembre a Copertino (Le)

La mostra “Manibus Experience” fino al 19 novembre a Copertino (Le)Roma, 2 nov. (askanews) – Il Premio Internazionale Manibus, l’evento cofinanziato dall’Unione Europea, Repubblica italiana, Regione Puglia, Assessorato regionale all’Industria Turistica con l’Agenzia Regionale del Turismo Pugliapromozione, fa tappa a Copertino (Lecce) con la mostra “Manibus Experience”. Fino a domenica 19 novembre il Castello Angioino di Copertino ospiterà sette storie di eccellenza della comunità artigiana di Puglia: una comunità operosa e silenziosa che costantemente produce capolavori di manualità, frutto di tradizioni antiche e innovazione, sintesi di storia e futuro. “Manibus Experience è un format che racconta le storie degli artigiani di Puglia, pensato come archivio digitale per documentare la comunità operosa che è linfa vitale per l’economia della nostra terra e custode del patrimonio di saperi scolpito nel nostro Dna”, ha spiegato il direttore artistico Nicola Miulli.

“Manibus Experience” è un circuito dedicato allo storytelling di alcuni progetti di artigianalità del mondo produttivo pugliese. In primo piano tecniche, materiali, strumenti, curiosità e storie delle personalità più esemplari che caratterizzano i prodotti e il design di botteghe e aziende affermate sul mercato locale e globale. Sette i nomi selezionati per questa prima edizione, importanti per storia, tradizione e visione dei processi creativi e di lavorazione, per un viaggio attraverso gli antichi saperi pugliesi: Domenico Arbues, confettaio di Barletta (Bt), Celeste Capurso, calzolaio di Bari, Giuseppe Fasano, ceramista di Grottaglie (Ta), Peppino Campanella, artigiano del vetro di Polignano a mare (Ba), Denichiloinox, fabbri di Molfetta (Ba), il cartapestaio Luigi Baldari e l’artista Roberto Miglietta, entrambi di Lecce. A ricevere il Premio Manibus sono stati lo chef patron de La Madonnina del Pescatore, Anikò e Il Clandestino Moreno Cedroni, la presidente e ceo del gruppo Artemide Carlotta de Bevilacqua, l’ad del gruppo Kiton Antonio De Matteis, l’attore Neri Marcorè, il maestro trabucchista Giuseppe Marino, il maestro trullaro Giuseppe Palmisano, la liutaia Ester Passiatore, la presidente de Le Costantine Maria Cristina Rizzo, l’ad di Ratti Spa Società Benefit Sergio Tamborini, lo stilista Jamal Taslaq e il regista Edoardo Winspeare.

“Manibus non è solo celebrazione, ma anche programmazione – ha concluso Miulli – nella serata di premiazione è emersa l’urgenza di un ricambio generazionale e di nuovi orizzonti di mercato per la comunità e le produzioni fabrili Made in Italy. Da qui l’idea di scommettere sull’alta formazione come chiave di un successo ancora più ampio, valorizzando al massimo la perfezione e l’unicità dell’intelligenza manuale”.

Da Trapani a Catania in bici, pubblicata la guida della Sicily Divide

Da Trapani a Catania in bici, pubblicata la guida della Sicily DivideRoma, 31 ott. (askanews) – Da Trapani, o Palermo, fino a Catania in bicicletta: 460 km nell’entroterra di una Sicilia inedita e inaspettata. E’ la Sicily Divide, un percorso che taglia in due l’Isola attraverso un itinerario cicloturistico davvero meraviglioso. Esce il volume-guida “Sicily Divide in bicicletta. La grande traversata dell’Isola”, edizioni Terre di Mezzo, autore Giovanni Guarneri (120 pp – 16,00 euro).

Una esperienza straordinaria nel cuore di un’isola dalla cultura millenaria, Sicily Divide è un’avventura da provare: ad ogni pedalata gli occhi si colmano di bellezza nell’incontro con un entroterra davvero lussureggiante, distese di campi dominate dai colori della natura che cambiano con l’alternarsi delle stagioni, un paesaggio che conserva le tracce della storia, dai Greci agli Arabi e ai Normanni; nella scoperta dei sapori e dei profumi di una cucina che scova le tipicità di ogni zona e infine nell’incontro più prezioso, quello con le persone che abitano questa terra, custodi della memoria, delle tradizioni e della cultura, sempre disponibili ad accogliere in maniera unica. Un viaggio in bicicletta, da ovest ad est, lungo 460 chilometri e che mostra il lato meno conosciuto della Sicilia. Si inizia a pedalare dalle saline di Trapani, si lascia il mare alle spalle e ci si addentra in un territorio votato all’agricoltura e all’allevamento. Per chi decidesse di partire da Palermo, esiste una variante che conduce fino a Gibellina. Si raggiungono i territori distrutti dal terremoto del Belice del 1968 e nel Cretto di Burri, la più grande opera di land art italiana, si incontra il simbolo della ricostruzione. Il percorso continua verso il borgo di Sambuca di Sicilia, da dove il tracciato diventa un continuo sali e scendi di colline e montagne fino ad Enna. Superato il capoluogo di provincia più alto d’Italia si inizierà a scorgere l’Etna, il più alto vulcano attivo d’Europa, fino a raggiungere le sue pendici con l’arrivo a Catania. Si è raggiunta la meta di questo viaggio, è tempo di scendere dalla bici per ammirare le tantissime meraviglie del suo centro storico.

Sicily Divide è un itinerario con molto dislivello, un fondo prevalentemente irregolare e anche impegnativo, con sezioni di sterrato, per questo è preferibile optare per una bicicletta di tipo gravel o mountain bike. Sette sono le tappe suggerite, si pedala su strade secondarie con traffico molto ridotto o addirittura nullo, che è possibile modulare a seconda delle proprie esigenze di ritmo e di tempo. Un viaggio in bici che può essere pianificato in ogni momento dell’anno, con le dovute precauzioni per le alte temperature durante i mesi estivi. Una guida completa per preparare il viaggio in bici: le tracce Gps, i consigli per l’attrezzatura, l’indicazione dei servizi bike friendly e quelli per il trasporto bici, le mappe, le altimetrie e i luoghi da vedere. A cui si aggiungono le informazioni utili sul tipo di percorso, il fondo stradale, le officine, l’attrezzatura, e il tipo di bagaglio. La guida si arricchisce inoltre della sezione “A portata di pedale”: per ciascuna tappa vengono proposte e descritte alcune brevi varianti per raggiungere e scoprire, a poca distanza dalla traccia principale, ulteriori tesori dell’isola come il tempo di Segesta o la sfidante ascesa all’Etna. In occasione della Giornata mondiale del cicloturismo 2023, a Cesena, il Sicily Divide ha ricevuto il premio come secondo classificato all’Oscar Italiano del Cicloturismo, premio assegnato ogni anno alle migliori ciclovie d’Italia.

Libri, esce “Nella tana del coniglio” di Francesca Fialdini

Libri, esce “Nella tana del coniglio” di Francesca FialdiniRoma, 31 ott. (askanews) – Sei storie di vita vera, racconti a cuore aperto di persone affette da disturbi del comportamento alimentare. Francesca Fialdini incontra Martha, Benedetta, Giulia, Valentina, Marco e Anna, lo fa guardando, insieme a loro, all’interno delle tane in cui sono caduti mentre rincorrevano un mito, un ideale di perfezione, la considerazione degli altri, un bisogno d’amore. Sei interviste intime e potenti in cui le parole sono strumenti centrali per riflettere sui motivi di un dolore che punisce e trasfigura il corpo, mettendo a repentaglio serenità e futuro. Il volume, che l’autrice scrive con lo psichiatra Leonardo Mendolicchio, propone una riflessione sull’uso delle parole nel racconto di anoressia, bulimia, bindge eating, con la consapevolezza di come proprio il linguaggio sia alla base delle nostre relazioni, proponga un’immagine di noi stessi e dia forma alle nostre ansie e paure più profonde.

“Nella tana del coniglio” di Francesca Fialdini con Leonardo Mendolicchio, edito da Rai Libri, è in vendita nelle librerie e negli store digitali da oggi, 31 ottobre (Euro: 19,00). Francesca Fialdini, inviata, conduttrice e autrice. Lavora in Rai dal 2005, dedicandosi con particolare attenzione ad argomenti di attualità che hanno al centro le donne e i giovani. Da cinque edizioni conduce su Rai 3 “Fame d’amore”, programma pluripremiato dedicato al racconto di disturbi del comportamento alimentare e altre espressioni di disagio giovanile.

Leonardo Mendolicchio, medico psichiatra, è direttore dei reparti di riabilitazione disturbi alimentari e Auxologia dell’Auxologico Piancavallo e direttore del laboratorio di ricerca di Neuroscienze Metaboliche. Founder del progetto Food For Mind, è da anni impegnato nella cura dei disturbi alimentari. È tra i sostenitori del progetto “Fame d’amore”, nonché supervisore scientifico. Ha già pubblicato Bisogna pur mangiare (Lindau, 2017), Prima di aprire bocca (Guerini, 2019) e Il peso dell’amore (Bur, 2021).

Roma, Palazzo Bonaparte ospiterà la più grande mostra di Escher

Roma, Palazzo Bonaparte ospiterà la più grande mostra di EscherRoma, 30 ott. (askanews) – Dal prossimo 31 ottobre, a 100 anni dalla sua prima visita nella Capitale avvenuta nel 1923, Escher torna a Roma con la più grande e completa mostra a lui mai dedicata, a Palazzo Bonaparte.

Olandese inquieto, riservato e indubbiamente geniale, Escher è l’artista che, con le sue incisioni e litografie, ha avuto e continua ad avere la capacità unica di trasportarci in un mondo immaginifico e impossibile, dove si mescolano arte, matematica, scienza, fisica e design. Artista scoperto in tempi relativamente recenti, Escher ha conquistato milioni di visitatori nel mondo grazie alla sua capacità di parlare ad un pubblico molto vasto. Escher è amato da chi conosce l’arte, ma anche da chi è appassionato di matematica, geometria, scienza, design, grafica. Nelle sue opere confluiscono una grande vastità di temi, e per questo nel panorama della storia dell’arte rappresenta un unicum. La mostra di Roma si configura come un evento eccezionale che presenta al pubblico, oltre ai suoi capolavori più celebri, anche numerose opere inedite mai esposte prima.

Un’antologica di circa 300 opere che comprende l’ormai iconica Mano con sfera riflettente (1935), Vincolo d’unione (1956), Metamorfosi II (1939), Giorno e notte (1938), la celebre serie degli Emblemata, e tantissime altre. Inoltre, a impreziosire il percorso espositivo, anche una ricostruzione dello studio che Escher aveva a Baarn in Olanda che, qui a Roma, espone al suo interno i vari strumenti originali coi quali il Maestro produceva le sue opere e il cavalletto portatile che lo stesso Escher portò con sé nel suo peregrinare per l’Italia. Dopo vari viaggi in Italia iniziati nel 1921 quando visitò la Toscana, l’Umbria e la Liguria, Escher giunse a Roma dove visse per ben dodici anni, dal 1923 al 1935, al civico 122 di via Poerio, nel quartiere di Monteverde vecchio.

Il periodo romano ebbe una forte influenza su tutto il suo lavoro successivo che lo vide prolifico nella produzione di litografie e incisioni soprattutto di paesaggi, scorci, architetture e vedute di quella Roma antica e barocca che lui amava indagare nella sua dimensione più intima, quella notturna, alla luce fioca di una lanterna. Le notti passate a disegnare, seduto su una sedia pieghevole e con una piccola torcia appesa alla giacca, sono annoverate da Escher tra i ricordi più belli di quel periodo. In mostra a Palazzo Bonaparte, infatti, sarà presente anche la serie completa dei 12 “notturni romani” prodotta nel 1934 – tra cui “Colonnato di San Pietro”, “San Nicola in Carcere”, “Piccole chiese, Piazza Venezia”, “Santa Francesca Romana”, “Il dioscuro Polluce” – insieme ad altre opere che rappresentano i fasti dell’antica Urbe come Roma (e il Grifone dei Borghese) del 1927, San Michele dei Frisoni, Roma (1932) e Tra San Pietro e la Cappella Sistina (1936).

La mostra, col patrocinio della Regione Lazio, del Comune di Roma – Assessorato alla Cultura e dell’Ambasciata e Consolato Generale del Regno dei Paesi Bassi, è prodotta e organizzata da Arthemisia in collaborazione con la M. C. Escher Foundation e Maurits ed è curata da Federico Giudiceandrea – uno dei più importanti esperti di Escher al mondo – e Mark Veldhuysen, CEO della M.C. Escher Company.

Libri, in uscita “Oltre il fango” di Mario Tozzi

Libri, in uscita “Oltre il fango” di Mario TozziRoma, 27 ott. (askanews) – Un’Italia geologicamente giovane e instabile, un territorio che l’emergenza climatica e scelte dell’uomo, spesso poco incisive o sbagliate, hanno reso ancor più fragile e pericolosa. Se il dissesto idrogeologico mette a rischio quasi il 94 per cento dei comuni italiani, e frane e alluvioni sono sempre più causa di devastazione e morte, è evidente la necessità di un deciso e repentino cambio di passo. Ma in quale direzione? Analizzando cause e false cause, soluzioni e false soluzioni, in “Oltre il fango” Mario Tozzi riflette su quali comportamenti virtuosi possano tamponare le manifestazioni della natura e su quali siano, invece, i comportamenti sbagliati, che possono solo peggiorare condizioni già al limite.

“Oltre il fango” di Mario Tozzi, edito da Rai Libri, è in vendita nelle librerie e negli store digitali dal 31 ottobre 2023 (Euro: 19,00). Mario Tozzi è geologo e ricercatore del CNR, divulgatore scientifico, saggista, autore e conduttore televisivo. È membro del consiglio scientifico del WWF ed è Cavaliere della Repubblica Italiana. Dal 2013 al 2023 è stato presidente del Parco dell’Appia Antica. Tra le numerose trasmissioni che ha condotto ricordiamo: “Gaia – Il pianeta che vive”, in onda su Rai 3 dal 2001 al 2006; “Terzo Pianeta”, sempre su Rai 3, dal 2007 al 2008; “La gaia scienza” (insieme al Trio Medusa), in onda su La7 dal 2009 al 2010; “Fuoriluogo”, in onda su Rai 1 dal 2014 al 2017. Dal 2019 conduce su Rai 3 “Sapiens – Un solo pianeta”. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: L’Italia intatta. Viaggio nei luoghi italiani non alterati dagli uomini e fermi nel tempo (2018), Come è nata l’Italia. All’origine della grande bellezza (2019), Uno scomodo equilibrio. Uomini, virus e pandemie (2021), Mediterraneo inaspettato (2022), editi da Mondadori. Nel 2023, per Einaudi Ragazzi, ha pubblicato Perché il clima sta cambiando?. Per Rai Libri è autore di Un’ora e mezzo per salvare il mondo (con Lorenzo Baglioni, 2020).

La musica inevitabile del presente: gli Autechre alla Biennale

La musica inevitabile del presente: gli Autechre alla BiennaleVenezia, 27 ott. (askanews) – Prima una nebbia bianca, talmente luminosa da sembrare accecante, poi il buio pressoché totale, quando lo spettacolo inizia a imporre il suo ritmo al Teatro alle Tese dell’Arsenale. Il resto è una possibile storia dell’evoluzione della musica elettronica, nonché una forma di riflessione – potremmo scrivere anche di meditazione, se non sembrasse troppo ossimorico – sulla “necessità”, in senso filosofico, dei suoni che per 75 minuti hanno riportato sul palco gli Autechre, il duo inglese composto da Ron Brown e Sean Booth che ha lasciato un’impronta profondissima nel mondo della IDM. La Biennale Musica 2023, dedicata al suono elettronico e alla “Micro-music”, dopo il Leone d’Oro Brian Eno ospita quindi un altro concerto di grande richiamo, e le aspettative non sono andate deluse.

Nell’oscurità, senza particolari punti di riferimento spaziali, la musica ha la forza e l’occasione di prendersi tutto lo spazio possibile, ed è uno spazio ampio, profondo, carico di possibilità e opportunità. La linea musicale degli Autechre è pulita, elegante, i suoni, anche i meno convenzionali, trovano il modo di inserirsi nella struttura dei pezzi, che è complessa, ma spesso riesce a mantenere una vocazione di accessibilità. Cosa le prime sensazioni che arrivano al pubblico sono quelle di un grande affresco elettronico che si appoggia molto di frequente al ritmo, ai bassi, alla ripetizione. Come se fossero i rumori a mostrarsi come possibile materia prima di un risultato che, a tutti gli effetti, è musica, anzi, la sensazione è che ci sia proprio un desiderio di fare sì che questa musica sia per quanto possibile sciolta dagli accidenti del mondo. La seconda sensazione è che la musica che esce dai computer degli Autechre sia quella di una grande indagine su tutti i possibili suoni, quindi i suoni del mondo, per come li conosciamo e non li conosciamo. Da qui al sentire che questa musica sia un’espressione della necessità, ossia che diventi in un certo senso musica inevitabile, il passo è breve e naturale da compiere. Più ci sia addentra nello spettacolo, più ci si accorge del progressivo formarsi di qualcosa di più riconoscibile, più ballabile. Che però non rinuncia alla vocazione di essere terreno fertile per l’idea di una musica assoluta, per certi versi piacevolmente aliena. Come se quella che viene suonata a Venezia possa essere una versione meno allucinata e più inclusiva della colonna sonora del film “2010 – Odissea nello spazio”, quando l’astronauta Bowman parte per il suo viaggio tra le stelle verso una nuova forma di vita. Ecco gli Autechre sembrano agire le stesse dinamiche di viaggio e perdita dei confini dello spettacolo, salvo poi, dopo avere lasciato respiro al pubblico, tornare a spingere su quella forma si accelerazione che è un po’ il loro marchio di fabbrica ed è anche una sorta di tappetino musicale per tutto il nostro tempo di continua digitalizzazione e costante incertezza. Una musica che, da questo punto di vista, diventa anche una forma di conoscenza diretta, quella basata sul corpo e sulle prime sensazioni che certi contatti possono provocare. Per questo, anche se non siamo esattamente in un contesto dance – ma ci si arriva anche lì, nella preziosa bulimia creativa dello spettacolo -, ballare a un certo punto sembra l’unica cosa da fare, l’unico modo per mettersi in allineamento con la narrazione ambiziosa dei due musicisti e la dimensione di mondo chiuso che il concerto ha creato.

Eppure la musica degli Autechre non è fatta per ignorare il mondo fuori, le sue sconvolgenti tragedie e violenze, oltre che la catastrofe climatica incombente, bensì per il contrario, per fare da sfondo a tutte queste situazioni insostenibili o estreme e fornirci una sorta di strumento per affrontarle senza infingimenti, ma anche senza nascondersi. Perché insieme con i pezzi che attraversano lo spazio della grande sala immersa nel buio, arrivano anche le angosce, i dilemmi, le guerre. C’è una musica per il nostro tempo insomma, che parla di noi senza mai citarci, quasi senza mai neppure guardarci – come noi in sala non possiamo vedere i due artisti – ma provando a prendersi cura lo stesso di tutti. Questo sembra dire il finale del concerto e noi possiamo, anzi vogliamo, crederci con tutte le forze. (Leonardo Merlini)

Paraventi in Fondazione Prada, storia segreta d’un oggetto d’arte

Paraventi in Fondazione Prada, storia segreta d’un oggetto d’arteMilano, 26 ott. (askanews) – Guardare oltre il paravento. Sembra una metafora, ma in realtà è esattamente quello che succede nella mostra “Paraventi” che Fondazione Prada a Milano dedica a questo oggetto a volte trascurato, a volte pensato solo nella sua funzione di nascondere anziché di mostrare. E invece, come dimostrano i circa 70 pezzi esposti sui due piani del Podium della Fondazione, da mostrare c’è molto, a partire dalla condizione di soglia che il paravento porta con sé per definizione. A curare l’esposizione è stato chiamato Nicholas Cullinan.

“Quello che è interessante dei paraventi – ha detto ad askanews – è che stanno sempre tra due cose e sono oggetti che uniscono l’arte, la decorazione, ma anche la pittura o la scultura. Sono molto particolari e ciò che io credo sia importante in questa mostra è che per la prima volta possiamo racontare la storia ancora non detta dei paraventi, dalle loro origini asiatiche, in Cina e Giappone, fino ad artisti contemporanei come Goshka Macuga, che ha fatto quest’opera alle mie spalle. Quindi raccontiamo per la prima volta questa storia e ci avviciniamo alla complessità dei paraventi”. Complice anche l’allestimento, lo spazio del Podium diventa una sorta di labirinto giocoso e ricco di continue “finestre” su altri mondi, siamo questi quelli ispirati a Sol Lewitt immaginati da Tony Cokes, oppure le opere video avvolgenti di Joan Jonas e di Wu Tsang. Paraventi come schermi, quindi, nel solco dell’espressione inglese che li definisce, “folding screen”, ma anche come vere e proprie opere che si adattano al tradizionale formato codificato nel passato, di cui la mostra presenta anche una serie di capolavori classici orientali.

“Uno dei piaceri del lavorare su questo progetto, con la grande mole di ricerche che abbiamo fatto – ha aggiunto Cullinan – sono state le scoperte: per esempio io non sapevo che Picasso aveva dipinto un paravento e ci sono moltissimi artisti che ne hanno realizzati e nessuno lo sapeva. Ora sono esposti qui ed è una grande emozione”. La dinamica del vedere-non vedere genera un mistero, una aspettativa, e allo stesso modo i paraventi esposti in un certo senso velano gli altri, in un processo che continua a reiterarsi. Ma le storie che si raccontano in Fondazione Prada – dove si cerca ogni volta di spingere un passo più avanti la ricerca museologica e la nostra percezione dell’idea di mostra – vivono anche della curiosità per il modo in cui il paravento è stato ripensato dagli artisti contemporanei, a volte in perfetta simbiosi, come nel caso di Elmgreen e Dragset, con le poetiche e le pratiche. Ed è come se solo grazie alla mostra ci rendessimo conto di quanto l’oggetto paravento fosse già significativo e presente nell’immaginario dell’arte. (Leonardo Merlini)

Peeping Tom a Torinodanza, metateatro totale su arte e realtà

Peeping Tom a Torinodanza, metateatro totale su arte e realtàTorino, 25 ott. (askanews) – Il festival Torinodanza 2023 chiude con uno spettacolo di enorme intensità e forza, comico e tragico come solo le cose che cercano di raccontare la “realtà” sanno essere. Chiude, in fondo, senza la danza, ma con una sorta di metariflessione sull’arte in generale, sulla creazione e la messa in scena, sulla relazione con il pubblico, ma anche con lo stesso regista-creatore che dovrebbe dominare lo spazio di possibilità dell’opera. Tante cose, forse troppe, ma tenute insieme da una ostinata volontà di pensare e agire il fatto di essere sul palco. “S 62° 58′, W 60° 39′” è il titolo del lavoro della compagnia belga Peeping Tom, portato alle Fonderie Limone di Moncalieri, che ha messo gli spettatori di fronte alle domande di fondo sulla natura dell’arte, sul suo senso, se volete, e sul fatto che l’attore è personaggio e persona, e queste due funzioni sono inscindibili, e sono parte della scrittura stessa di un dramma teatrale. Cercare la verità, o anche solo provare a dare una forma alla realtà, le imprese che il regista Frank Chartier, fondatore insieme a Gabriela Carrizo della compagnia, chiede di compiere ai propri attori, si dimostrano per quello che sono effettivamente: impossibili, grottesche, destinate a una sconfitta continua che genera dolore e frustrazione, solitudine e straniamento. Ma, e qui a nostro avviso c’è il punto decisivo, la sconfitta genera anche l’opera, “the piece” come dicono in inglese i performer, che vive proprio dell’impossibilità di essere la “verità” o la “realtà”, ma arriva al cuore di quella cosa che chiamiamo “teatro”, oppure “letteratura”, o più semplicemente, “arti”. Per questo i protagonisti dello spettacolo – che è totalizzante e totalizzato – invocano spesso Cechov, Shakespeare, Beckett e anche Kafka: perché le loro opere, in forme diverse, hanno raggiunto la perfezione artistica che le ha rese “vere”, più reali della vita stessa. Un’ambizione che, si sente, appartiene anche a “S 62° 58′, W 60° 39′” e che trova più di un momento di epifania, accanto ad altri in cui arriva invece la maniera o una forma di forzatura, come se il tentativo – straordinario – di “dire tutto”, in qualche passaggio, come la tesissima lunga scena finale, scivolasse nel “dire troppo”. Forse in quei punti sarebbe servita più danza e meno parole, come sembrava – lo diciamo anche con il senno di poi – che lo stesso pubblico si sarebbe aspettato. Ma qui siamo sul terreno instabile delle supposizioni, ed è sempre meglio non esagerare.

Torniamo sulla scena: una barca incagliata nel ghiaccio, un biancore che ricorda la disperazione (e fa pensare alle pagine polari di Daniele Del Giudice) e un gruppo di personaggi chiamato dal regista, Franck, a confrontarsi con questa situazione drammatica e ostile, figlia di una serie di rimandi ai disastri politici, economici e ambientali, oltre che sociali, del nostro presente. Una barca, i ghiacci, delle vite di attori che si confondono tra il ruolo e la storia di chi quel ruolo è chiamato a interpretarlo. A uno a uno, i personaggi e gli attori (ma sono attori che fanno il personaggio di loro stessi? È inevitabile e gli specchi a questo punto diventano infiniti), vanno in pezzi, crollano. Apparentemente di fronte alle richieste del demiurgo-regista, ma molto più probabilmente per la semplice impossibilità di essere, di fare tutto ciò che la società (la vita!) – non il regista – chiede a loro, e a noi, ogni giorno. Qui si sente l’eco di Beckett, ma anche di Cechov: il deserto sentimentale che li unisce anche nella grandi differenze. Andare in pezzi è l’unica possibilità, l’unica opzione sensata, per andare avanti per avvicinarsi alle domande di fondo, che sono sull’arte, sul teatro, ma sono anche, più semplicemente, sull’umanità. Il padre assente e i suoi rimorsi insostenibili, che poi diventano rabbia; il bambino Franck che sembra essere lo stesso regista da piccolo, quando aveva un corpo e dei sogni; le donne che denunciano il sessismo e il maschilismo; i personaggi che – e si cita Pirandello non a caso – vanno in cerca di loro stessi e non si trovano. Peeping Tom, in modo rocambolesco, a volte incredibilmente comico, a volte devastante, mette in scena noi. Ed è una messa in scena che si prende tutto, anche la “quarta parete” al di là del confine del palco. Perché è lì, da qualche parte, che sta la voce creatrice del regista. E parlare di una sorta di divinità è tanto banale quanto inevitabile. Ma lo si fa spesso ridendo, e allora sovviene anche Ionesco, quasi che ci accorgessimo, solo adesso!, di avere sempre vissuto dentro una versione de “La cantatrice calva”. Ma anche qui, forse, si sta esagerando con l’interpretazione del cosiddetto critico, meglio rallentare. Anzi forse meglio proprio fermarsi. Ma tra un momento. Eravamo partiti dall’assenza della danza, evidente e innegabile. Anche se alcuni momenti, come le scene di burrasca in barca e soprattutto alcuni movimenti dell’attore Chey Jurado, avevano un tasso di difficoltà tecnica significativo, è vero che non c’è danza in senso più completo. Questo è un elemento che ciascuno giudicherà in base alla propria sensibilità e ai propri desideri. Ma lo spettacolo c’era, e forse è questo il punto davvero fondamentale. Chiudiamo con la lunga scena finale, il monologo tra le due personalità scisse di un attore che non vuole andarsene, non vuole abbandonare la scena, perché è l’unico posto dove si sente di esistere. E questa paura scatena il suo demone, osceno, nudo, minaccioso e disturbante. A questo punto la tensione sale, il pubblico si irrigidisce, anche perché è un altro tour-de-force emotivo che arriva dopo un intero spettacolo di tour-de-force emotivo. È troppo lunga la scena, il demone prende la mano a tutto il pezzo e sembra portarlo via con sé, allontanandolo a tratti da noi. C’era bisogno di una catarsi così didascalica e violenta? La sensazione è che tutto quello che lo spettacolo poteva dire lo avesse già detto comunque, ma, in ogni caso, questa appendice così complessa non ha fatto dimenticare né indebolire tutto ciò che avevamo visto prima. Che è stato Shakespeare, è stato Cechov, è stato Beckett ed è stato Kafka. L’ultimo monologo probabilmente non lo era. Ma la vita, sotto forma di teatro, deve andare avanti.

“S 62° 58′, W 60° 39′” dopo Torino si sposterà il 28 e il 29 ottobre 2023 al Teatro Municipale Valli per Festival Aperto / Fondazione I Teatri – Reggio Emilia. A gennaio poi sarà la volta di Roma. (Leonardo Merlini)