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Alla Nuvola di Fuksas torna “Roma Arte in Nuvola” con 150 gallerie

Alla Nuvola di Fuksas torna “Roma Arte in Nuvola” con 150 gallerieRoma, 6 lug. (askanews) – Dopo il successo della seconda edizione, chiusa con oltre 36.000 visitatori, torna nella Capitale “Roma Arte in Nuvola”, la grande fiera di arte moderna e contemporanea ideata e diretta da Alessandro Nicosia con la direzione artistica di Adriana Polveroni e con la consulenza di Valentina Ciarallo, in programma dal 23 al 26 novembre 2023 presso la Nuvola di Fuksas.

Oltre 150 le gallerie italiane e internazionali partecipanti per questa terza edizione, con molti degli espositori provenienti dall’estero: da Londra a Parigi, da Barcellona a Knokke, da Dubai a Tel Aviv fino a New York ed Osaka. Nata per colmare una mancanza decennale di simili iniziative nella Capitale, nonché per valorizzare il collezionismo italiano del Centro e del Sud Italia, diventandone punto di riferimento, “Roma Arte in Nuvola” è una manifestazione di richiamo non solo per le gallerie provenienti dalle città del Mezzogiorno, tra cui Catania, Napoli, Avellino, Pescara, Palermo, Lecce, Ragusa e Siracusa, ma anche per quelle del Nord Italia. Una proposta completa che, anche quest’anno, caratterizza gli oltre 14.000 metri quadri di spazio espositivo, suddivisi fra arte moderna e contemporanea, creando un dialogo che rappresenta una straordinaria proposta integrata fra le diverse espressioni artistiche.

Un’offerta artistica poliedrica in grado di dar voce a tutte le discipline – dalla pittura alle installazioni, dalla scultura alle performance, dalla video arte alla digital art fino alla street art – e di intercettare la migliore proposta espositiva dell’intero panorama nazionale, sempre all’insegna della partecipazione e dell’inclusione: non solo per gli addetti ai lavori ma anche per un pubblico più ampio di giovani ed appassionati. Non solo gallerie quindi, ma anche iniziative speciali come esposizioni, installazioni e performance. Tra i numerosi progetti speciali di quest’anno, un’esposizione dedicata ad Alighiero Boetti.

Cultura, Cucinelli vince il Premio Internazionale Joaquín Navarro-Valls

Cultura, Cucinelli vince il Premio Internazionale Joaquín Navarro-VallsRoma, 5 lug. (askanews) – La Biomedical University Foundation ha assegnato la prima edizione del Premio Internazionale Joaquín Navarro-Valls per la Leadership e la Benevolenza a Brunello Cucinelli, alla presenza di numerosi e importanti ospiti, presso il Palazzo della Cancelleria a Roma. Il Premio viene promosso anche per celebrare i primi trent’anni di attività dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico.

Vuole essere un riconoscimento a figure di grande spessore sociale, economico e istituzionale. Donne e uomini che nel loro percorso hanno saputo dimostrare integrità e importanti fondamenti etici nella loro attività di guida, capacità di comunicare, valorizzazione delle risorse umane, solidarietà e una visione sulla Leadership e la Benevolenza che si avvicina a quella, ancora oggi profonda e attuale, di Navarro-Valls. Le candidature sono state proposte da un Comitato Scientifico, composto da: Matteo Colaninno, Vice Presidente Esecutivo Piaggio Group, Giuseppe Cornetto Bourlot, Vice Presidente Advisory Board Biomedical University Foundation, Federico Eichberg, Vice Presidente Biomedical University Foundation, Amalia Maione Marchini, Psichiatra, Raffaele Perrone Donnorso, Presidente ANPO. Mentre, a selezionare il vincitore, una giuria di cinque persone: Paolo Arullani, Presidente Biomedical University Foundation, Ferruccio De Bortoli, Giornalista e saggista, Gianni Letta, Advisory Board Biomedical University Foundation, Mario Moretti Polegato, Presidente Geox, Lucia Vedani, Fondatrice e Presidente CasAmica ODV.

“Il Premio ricorda Joaquín Navarro-Valls e il suo importante contributo allo sviluppo della Biomedical University Foundation e di tutto il Campus Bio-Medico ma anche divenire un progetto che guarda al futuro, riportando l’attenzione verso due valori troppo spesso dimenticati nelle imprese e che riteniamo debbano ispirare anche il mondo universitario: la capacità di leadership e di benevolenza – afferma Paolo Arullani, Presidente Biomedical University Foundation -. Dobbiamo sostenere chi esercita la leadership unita alla benevolenza per promuovere una nuova cultura del dono che sappia generare impatto sociale e abbia come fine principale il bene della persona.” Motivazione della giuria

Brunello Cucinelli, uomo sensibile e generoso, figlio della sua terra, imprenditore che trasforma la sua forza morale in un inesauribile desiderio costante di ricercare la bellezza in favore degli altri, costruisce con gentilezza ambienti di lavoro dove ogni giorno si respirano progetti di Benevolenza legati all’umana sostenibilità nel rispetto dell’essere umano. Brunello Cucinelli

Nato a Castel Rigone nel 1953, ha fondato la sua impresa nel 1978, introducendo sul mercato l’idea di colorare il cashmere. Ha portato una visione rispettosa del lavoro, fatto di dignità morale ed economica. A Solomeo sorge il cuore della sua impresa e produzione. Oggi i suoi prodotti, di assoluta qualità Made in Italy, sono apprezzati e ricercati in tutto il mondo. Nel 2013 ha aperto la “Scuola di Alto Artigianato Contemporaneo per le Arti e i Mestieri”. “È con profonda commozione che ho ricevuto oggi, da parte della Biomedical University Foundation, l’ambito premio Internazionale Joaquín Navarro-Valls per la Leadership e la Benevolenza – afferma Brunello Cucinelli – e questo per due ragioni: la prima consiste nella grande stima che ho sempre avuto nei riguardi di un uomo come il dottor Navarro-Valls che ha saputo unire in una unica profonda ragione di vita la Fede e la professione in campo medico e giornalistico, costantemente vicino a due grandi pontefici come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. La seconda ragione è che nella mia visione del mondo il valore della Benevolenza occupa uno dei primi posti, e ho sempre guidato la mia impresa secondo il pensiero di San Benedetto da Norcia quando ai suoi abati insegnava: ‘Sii sempre rigoroso e dolce, esigente maestro e amabile padre’”. In occasione del Premio è stato istituito anche il “Fondo Borse di Studio Joaquín Navarro-Valls” per gli studenti dell’Università Campus Bio-Medico di Roma che desidera diventare un ascensore sociale per valorizzare nuovi talenti meritevoli e meno fortunati economicamente, per garantire diritto allo studio, inclusione e sviluppo. Hanno dato il loro contributo: Fondazione Roma, Fondazione Tim, Fondazione Ania, Gruppo Bios, ELT Group, IGT, Pedevilla, Poste Italiane. Con il patrocinio di: Regione Lazio, Comune di Roma, Coni.

Biennale Teatro, la cenere e le conseguenze dell’amore di Fortin

Biennale Teatro, la cenere e le conseguenze dell’amore di FortinVenezia, 5 lug. (askanews) – Un racconto per voci che si sommano, si intersecano, sviscerano dolori privati e universali, scavano nella famiglia e nel disperato tentativo di darsi amore. “Cenere” è lo spettacolo che Stefano Fortin, vicentino classe 1989, ha portato alla Biennale Teatro, risultando tra i vincitori del College per la drammaturgia under 40 per il biennio 2022-2023. Un’esperienza molto intensa, pur nella sobrietà della “mise en lecture”, che prende spunto anche dalla vicenda del vulcano islandese che nel 2010 paralizzò l’Europa, non con la potenza esplosiva della propria eruzione, ma con la cenere, con le conseguenze, potremmo dire, dell’evento in sé.

“Certi avvenimenti o anche certi sentimenti – ha detto Stefano Fortin ad askanews – invece che essere più forti nel momento magari in cui li si prova, pesano di più per la loro durata nel tempo, per le loro conseguenze sul lungo termine, come la rabbia, cioè la rabbia istantanea passa, mentre se la rabbia è un continuum e quindi soffoca, diventa un sentimento che ha una presa nella vita molto più forte”. Ecco, questa dimensione di durata, evocata del drammaturgo, è quella che pervade lo spettacolo, articolato in tre momenti e in tre storie che però lo spettatore può considerare collegate, e questo amplifica ulteriormente il senso di soffocamento, di perdita, di bisogno di trovare qualcosa a cui aggrapparsi, che non sia solo cenere. E se il primo quadro riguarda un figlio che dice no alla colazione, il secondo coinvolge dei poliziotti chiamati a informare due genitori della morte del figlio, mentre il terzo dà voce proprio alla vittima. In un crescendo dirompente che mostra il potere cruciale della parola.

“Sono tre quadri distinti – ha aggiunto Fortin – in cui ci sono diversi rapporti rispetto a questa presa di parola. Nel primo magari c’è il rifiuto di prendere la parola, nel secondo l’essere costretti a farlo in un determinato momento e nel terzo invece quando si sceglie di parlare e di dire tutto, come è il titolo della terza parte. E unito a questo aspetto più tematico, se vogliamo legato ai quadri, c’è anche la parte legata alle note. Le note e quindi la voce dell’autore, la mia voce, che entra direttamente in tempi di sospensione diciamo sulla scena commentando portando il pubblico o chiamandolo direttamente in causa, in altri luoghi”. A chiamare in causa noi, alla fine, è proprio l’idea stessa di teatro. Quel palcoscenico che amplifica plasticamente la misura della realtà, per come l’avevamo conosciuta fino ad allora. (L.M.)

”Popotus in classe” di Avvenire, apprezzamento dagli insegnanti

”Popotus in classe” di Avvenire, apprezzamento dagli insegnantiRoma, 3 lug. (askanews) – “Popotus in classe” – l’iniziativa rivolta alla scuola primaria che Popotus, il giornale di attualità per i bambini, inserto di Avvenire, ha replicato anche per l’anno scolatico 2022-2023 – ha registrato ottimi risultati: 2.550 le classi coinvolte che hanno ricevuto Popotus ogni giovedì con Avvenire, raggiungendo così 51.000 bambini con 37.000 copie diffuse a settimana da settembre a giugno, per un totale di oltre 1 milione e 250 mila copie, che aumenteranno per il prossimo anno scolastico. Le continue richieste da parte delle scuole di ricevere Popotus sono state anche alimentate dall’introduzione di una serie di novità: una nuova veste grafica ancora più inclusiva con l’inserimento della font ad alta leggibilità (“Leggimi”) disegnata per facilitare la lettura dei bambini con bisogni educativi speciali e la realizzazione di una versione digitale monotematica pubblicata periodicamente sul sito popotus.it, come ulteriore supporto all’attività didattica dei docenti.

Entrambe le iniziative hanno suscitato un grande apprezzamento da parte degli insegnanti, a testimoniarlo un’indagine condotta in collaborazione con ScuolAttiva onlus su un campione rappresentativo di 500 docenti (per il 96,6% donna con una prevalenza di esperienza nell’insegnamento tra i venti e oltre trent’anni (71,5%). E’ emerso infatti che nel 95% dei casi le classi sono composte per un 10% da alunni con bisogni educativi speciali (BES) e con disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), per questo la nuova font è stata giudicata uno strumento altamente innovativo e indispensabile. Inoltre, dall’indagine è evidente che l’utilizzo della didattica digitale è ormai prepotentemente entrato nei modelli educativi delle scuole: il 78% delle insegnanti utilizza la didattica digitale come supporto educativo, rimane una percentuale minima (8%) che non fa uso delle nuove tecnologie perché non disponibili a scuola, segno che la digitalizzazione in atto da diversi anni è arrivata in quasi tutte le scuole. I docenti hanno anche espresso preferenze per la didattica interattiva (che coinvolge gli alunni attivamente), laboratoriale e supportata da materiali digitali, rispetto ad altre tipologie di insegnamento come, ad esempio, la didattica frontale o la Flipped Classroom (Lezione capovolta). Il sondaggio si è anche concentrato sui temi d’interesse per i docenti: uno su tutti l’attualità, ad indicare che il posizionamento di Popotus, giornale di attualità per bambini, è certamente un valido strumento e lo è ancora di più per affrontare temi delicati con i bambini di cui spesso Popotus parla. Altro tema di grande interesse per il 76,50% dei docenti è l’ambiente e la sostenibilità, a seguire l’educazione civica per il 69,4% e le nuove tecnologie (45,6%).

Altro dato interessante risulta essere che per il 96% degli insegnanti trova il tempo da dedicare ad attività extracurricolari, segno che l’intuizione di Popotus di proporre da due anni a questa parte, in collaborazione con ScuolAttiva onlus, attività didattiche di approfondimento sia per gli insegnanti sia per i bambini è risultata essere vincente, facilitando il lavoro di ricerca e selezione di contenuti extra di cui i docenti spesso hanno bisogno. Gli insegnanti infatti interrogati sui materiali e gli approfondimenti realizzati durante l’anno hanno espresso parere positivo per oltre il 90%; a questi si sono aggiunti webinar con esperti di settore per i docenti e workshop ludici ed educativi per i bambini, sia in presenza sia online. Il giornale di carta rimane certamente un plus al quale quasi il 70% delle maestre non vuole rinunciare, a conferma che Popotus è un unicum nel panorama editoriale italiano da oltre 27 anni con obiettivi futuri di crescita su più canali per ampliare la community degli insegnanti.

”Carne da maschi”, le donne africane nella narrativa fascista

”Carne da maschi”, le donne africane nella narrativa fascistaRoma, 3 lug. (askanews) – È uno spaccato insieme storico e letterario il nuovo saggio di Massimo Boddi intitolato “Carne da maschi. Donne africane nella narrativa imperialista. Fascismo e romanzi coloniali” (Aracne, 14 euro), documento sia della retorica parodistica che della smaniosa velleità imperialista del regime fascista. L’autore apre a nuove prospettive di studio testuale e stilistico immergendo il lettore nell’atmosfera di una dozzina di romanzi coloniali italiani, scelti con cura e di cui propone ampi stralci alla riflessione.

Una ricognizione che si articola nell’esame della produzione narrativa di Arnaldo Cipolla, Luciano Zuccoli, Enrico Cappellina, Guido Milanesi, Mario Dei Gaslini, Gino Mitrano Sani, Vittorio Tedesco Zammarano. Romanzi in cui abbondano metafore e richiami sessuali, che offrono una casistica completa di comportamenti, ripetitivi ma con sfumature diverse. Boddi analizza in modo critico la terminologia in uso per poi focalizzare l’attenzione sulla rappresentazione letteraria delle donne colonizzate da parte del maschio italiano (per lo più militare-scrittore) e sul loro rapporto di sudditanza verso militari e coloni di stanza in Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia. Piuttosto che di letteratura coordinata o patriottica, ciò che realmente contraddistingue il romanzo coloniale è l’uso morboso dell’erotismo come categoria significante: “L’Africa coloniale, per il lettore italiano, era tradotta come mondo irreale, affascinante, carico di mistero e di istinti primordiali. Gli autori, sollecitati dal regime fascista nella produzione di una forma di arte pura, in nome dell’imperialismo spirituale, hanno piuttosto collaudato schemi più allettanti. Quelli cioè dettati dal desiderio di trasgressione sociale e dal rovesciamento dei tabù, dall’attivazione di fantasie esotico erotiche e dal vero e proprio incitamento al sadismo sessuale in colonia, secondo i codici del machismo e del razzismo” sottolinea Boddi.

Il desiderio erotico, oltre che fruttuoso espediente commerciale, gioca un ruolo importante nei romanzi coloniali. Ha la funzione di forza motivante, prepara, o per così dire anticipa la vera e propria attività sessuale sul campo: come viene dimostrato nel saggio, razzismo e sessismo sono il prodotto di un processo intrinsecamente connesso alle relazioni sociali di dominio. Il corpo delle donne africane, nella narrativa imperialista, è catturato, manipolato e standardizzato come strumento sessuato, convertito a dispositivo di sottomissione, conquista e potere. Si veda, ad esempio, la rappresentazione che ne rendeva l’ufficiale-scrittore Gino Mitrano Sani nel romanzo, “….e pei solchi millenarii delle carovaniere” pubblicato nel 1926: “Donne nere, donne brune, fanciulle precocissime, carne da maschi, strumenti della calda lascivia del sangue”. Oppure, sempre dello stesso sutore, nel successivo “Femina somala” dato alle stampe nel 1933: “Elo seppe tornare bestia di sesso diverso che non pensa e non sente, che polluta da qualsiasi uomo non sente che la prona remissività e la materialità della funzione creatrice”.

Africa, come porno-tropico; femmina indigena, come preda e “carne da maschi” alla mercé del conquistatore italiano. Ciò che rimane dei personaggi femminili analizzati dall’autore è un complesso di comportamenti e connotazioni sessuali senza razionalità e senza diritto di negoziazione. Boddi, con merito, lascia parlare i testi, i materiali, le pagine scritte, i dialoghi, riuscendo, intelligentemente ed efficacemente, a farne rivivere le trame nel loro sfondo, nel loro tempo e nel loro clima. Si delinea così una tipologia di figure femminili diverse tra loro ma provviste di una serie di tratti permanenti che tornano come leitmotiv nei vari romanzi.

Sgarbi al Maxxi, il presidente Giuli: chiedo scusa ai dipendenti. Via il sessismo dai luoghi della cultura

Sgarbi al Maxxi, il presidente Giuli: chiedo scusa ai dipendenti. Via il sessismo dai luoghi della culturaRoma, 2 lug. (askanews) – “Mi sento di sottoscrivere completamente e convintamente le osservazioni di Sangiuliano: il turpiloquio e il sessismo non possono avere diritto di cittadinanza nel discorso pubblico e in particolare nei luoghi della cultura. Quindi a posteriori non c’è spazio per alcuna considerazione che ricalchi lo schema che abbiamo visto nell’inaugurazione dell’Estate al Maxxi”. Lo ha detto il presidente della Fondazione Maxxi, Alessandro Giuli, in una intervista al Tg1, prendendo le distanze da Vittorio Sgarbi.

“Non ho alcuna difficoltà a dirmi rammaricato e a chiedere scusa anche alle dipendenti e ai dipendenti del Maxxi con i quali fin dall’inizio ho condiviso questo disagio. Quindi sono scuse che il Maxxi fa a se stesso innanzitutto e a tutte le persone che si sono legittimamente sentite offese da una serata che nei presupposti doveva andare su un altro binario”, ha concluso Giuli.

Biennale Teatro, il domani cieco di Romeo Castellucci

Biennale Teatro, il domani cieco di Romeo CastellucciVenezia, 30 giu. (askanews) – Una figura femminile tragica e imponente al centro del Salone d’onore della Misericordia a Venezia. Tiene in mano un lungo ramo che termina con una piccola scarpa. Gli occhi della donna sono bianchi, vuoti. Quando inizia a muoversi, spingendo in avanti il ramo, non c’è certezza nei suoi passi, solo una disperata sensazione di ricerca di qualcosa che non ci è in nessun modo dato sapere. Il pubblico, intorno, osserva e, a poco a poco, viene completamente assorbito dal micromondo dello spettacolo. Siamo alla 51esima Biennale Teatro e quello che stiamo vedendo è la performance “Domani” di Romeo Castellucci, interpretata da Ana Lucia Barbosa. Ma in realtà, dall’inizio dell’azione, siamo altrove, in un luogo che appare anche tempo (forse per colpa delle suggestioni del titolo), siamo nello spazio dell’opera teatrale, che Castellucci da sempre intende come totalità delle arti.

La donna avanza, incerta seppur risoluta, il suo tremito sembra una forma di percezione, che supera l’assenza della vista. Ma è un superamento mutilato, impreciso, drammatico. Il pensiero corre a Saramago, alla sua “Cecità”, romanzo sulla perdita collettiva della vista e sullo sprofondamento in un biancore terrificante, che lascia per le strade gruppi di umani che avanzano tenendosi le mani sulle spalle, come spettri. Intorno ai personaggi dello scrittore portoghese però c’era un mondo, c’era almeno una speranza di senso e di realtà che qui sembra mancare invece. Intorno alla donna, che a un certo punto inizia a singhiozzare e nel mentre si sfila una maschera, solo per rivelare al di sotto esattamente lo stesso volto. I pianti di realtà vanno in pezzi in quel gesto, il teatro prende radicalmente possesso del momento, lo fa completamente suo e la solitudine singhiozzante della donna – ma anche i singhiozzi sono imprecisi, smozzicati – diventa quella di ciascuno degli spettatori. “Domani” è una figura del tempo, notano i critici, e probabilmente hanno ragione. Ma quando la performer, cercando di andare oltre il luogo, comincia a colpire con la scarpa-tronco le pareti del salone, ecco che ogni colpo genera un suono primordiale, un’eco mostruosa e profonda, una sorta di esplosione (il suono è curato da Scott Gibbons) che potrebbe anche essere la voce di qualcuno che semplicemente dice “no”. Non ci sono altri spazi, non c’è via d’uscita. Anche la cecità, che la mitologia ha sempre associato alla preveggenza, qui è diventata inutile. Il domani, se mai davvero lo spettacolo si interrogasse su questo, è del tutto inconoscibile, anzi, ci è precluso nel fragore di quei tuoni sonori.

Non ci sono didascalie, non ci sono spiegazioni. Allora, dalla sala, il pensiero arriva a ricordare la cecità dell’umanità antropocentrica che ha devastato la natura, e che ora tenta mosse disperate, ma destinate solo ad amplificare il rumore che essa stessa aveva creato nella furia dello sviluppo. Non sappiamo se lo spettacolo voglia parlare anche di questo, ma forse non è importante. Forse come accade con le scosse telluriche quello che viene generato dalle onde d’urto emotive è lasciato alla sensazione di ciascuno. Forse i significati non esistono, esistono solo i gesti, lo spazio della performance, il potere segreto e magnetico delle forme d’arte. Queste sì, capaci di andare oltre la disperazione. Poi le assistenti dello spettacolo arrivano e invitano il pubblico a uscire. La performance è finita e con stupore ci si accorge che, fuori, c’è ancora una città chiamata Venezia e che eravamo soltanto a uno spettacolo della Biennale Teatro. Ma dentro di noi qualcosa, probabilmente, è cambiato.

Dentro gli abissi, tra oscurità e famiglia: il teatro di Djokovic

Dentro gli abissi, tra oscurità e famiglia: il teatro di DjokovicVenezia, 30 giu. (askanews) – Gli abissi sono tanti, a volte lontanissimi, a volte dentro di noi. Si sa. Vederli messi in scena, vedergli prendere una forma teatrale però è interessante, smuove, turba, terrorizza, poi magari anche rinfranca. Alla Biennale Teatro di Venezia, le Tese dei Soppalchi all’Arsenale hanno visto la prima mondiale di “En Abyme”, scritto da Tolja Djokovic e diretto da Fabiana Iacozzilli, che sempre qui lo scorso anno era stato presentato come “msie en lecture”. Ora torna come spettacolo vero e proprio, sostenuto da una drammaturgia forte, a volte totalizzante, ma anche da scelte sceniche e scenografiche che affiancano agli attori video di diverso tipo, oltre ad ambienti teatrali, senza però che la parola perda il suo controllo, anche nei momenti in cui non è pronunciata. Forse qui c’è la forza più sotterranea dello spettacolo.

Lo spunto per il racconto portato in scena da cinque attori – Simone Batraco, Oscar De Summa, Francesca Farcomeni, Evelina Rosselli e Aurora Occhiuzzi – è la discesa nell’abisso della Fossa delle Marianne fatto in solitaria dal regista James Cameron, che si è spinto in un luogo così profondo che nessun altro essere umano aveva mai visto. Ma accanto alla storia di questo reale sprofondare nelle acque nere dell’oceano, c’è il parallelo racconto di una bambina/donna, che prima conosciamo da adulta in una piscina – in passaggi che usano il cinema e arrivano a una densità poetica dura e toccante – per poi ritrovare giovanissima, ma già alle prese con la ricerca o l’assenza del padre, di questa figura che un po’ domina tutta la storia, così come i pensieri di altri drammaturghi under 40 visti in questa Biennale. Forse il punto generazionale, il legame alla base delle diverse scritture, è proprio il confronto con le figure dei genitori, magari solo con l’idea, con i bisogni e i dolori, le solitudini e i desideri che ruotano intorno alla più viscerale e complessa delle relazioni. Il batiscafo di Cameron scende sempre più verso il fondo, la donna nuota, poi a un certo punto si immerge, “scompare” dice la voce narrante, per riapparire poi a bordo piscina e piangere e raccontare una storia devastante, di corpi e solitudine. E poi nuotare ancora, come in un racconto di John Cheever, sullo sfondo della vita. Quella vita che la bambina osserva, mentre guarda il film “Titanic”, proprio di Cameron, nella costante attesa del padre, che quando appare si perde – le scene filmate sono decisive, danno una possibilità di pensare ancora meglio allo spazio teatrale, quella del gioco delle tre carte è realmente drammatica – per poi tornare e fermarsi, disperato su una sedia. La bambina, a quel punto, lo può abbracciare, così come si era presa cura anche della donna, lei stessa da adulta, pensiamo in sala, poco prima. “En Abyme” è chiaramente un gioco di specchi che, come dice il testo del catalogo della Biennale Teatro 2023, lavora su “una struttura a effetto Droste”, ossia il rimportare all’interno di una immagine la stessa immagine più piccola, che a sua volta contiene ancora se stessa, potenzialmente all’infinito. E potenzialmente infinita è la discesa abissale, sia quella fisica sia quella psicologica, ma lo spettacolo la gestisce, la convoglia nella parola poetica (nel senso di letteraria, teatrale, come più vi piace), che si rivela più potente e soprattutto più capiente. Così tanto da saper gestire la materia incandescente di cui tratta, così resistente da somigliare a quel pesce che, nonostante la terribile pressione, riesce a vivere nella Fossa delle Marianne fino a 8mila metri di profondità. In pratica sulla cima di un Everest rovesciato in mare.

E come quel pesce anche i personaggi dello spettacolo di Djokovic e Iacozzilli riescono in qualche modo a sopravvivere ai propri abissi, e mentre Cameron, rannicchiato in posizione fetale all’interno del suo batiscafo, vede per la prima volta il fondo più fondo della terra e scopre che c’è vita, nello stesso modo e, verrebbe da dire, nello stesso momento, il padre prende in braccio la bambina e, con lei stretta al collo, si allontana.

Biennale Teatro, specchio del presente e grammatica di speranza

Biennale Teatro, specchio del presente e grammatica di speranzaVenezia, 29 giu. (askanews) – Un momento di trasformazione, di cambiamento, di rimessa in discussione di tutto il nostro modo di vivere e di essere. Un momento che passa da un colore, il verde smeraldo, scelto per descrivere lo spirito della 51esima edizione della Biennale Teatro di Venezia, che dal 15 giugno ha provato a fare un “inventario delle nostre inquietudini”, in vista di qualcosa di nuovo, di una svolta che parte pure dal palcoscenico del contemporaneo. A dirigere anche questa edizione il duo ricci/forte a cui abbiamo chiesto un primo bilancio della manifestazione. “Dopo anni un po’ bui – ha detto ad askanews Gianni Forte – ma per situazioni contingenti che abbiamo affrontato ciascuno di noi all’interno e all’esterno di noi, fortunatamente, da quest’anno, dal 2023, abbiamo ricominciato a vedere la luce sotto ogni aspetto”.

Una luce che passa anche negli occhi degli spettatori, nella sensazione di essere parte di una presenza sulla scena che non è solo autoriale o attoriale, ma va oltre e assume spesso le sembianze di uno specchio, il nostro specchio. “Siamo qui, siamo tutti sotto lo stesso cielo – ha aggiunto Stefano Ricci – e quindi questa condivisione di possibilità, di esperienze sta a raccontare non soltanto la bellezza della differenza, ma anche la presa in atto di una coscienza maggiore. Tutti gli artisti che sono presenti in questo festival hanno grammatiche espressive completamente differenti, vengono da posti del pianeta completamente lontani tra loro, ma tutti quanti sono cuciti e imbastiti a doppio filo con l’esigenza di chiedersi il perché di esserci, il perché di trovare delle possibilità, delle architetture invisibili, come in questo caso uno spettacolo teatrale, che raccontino il tempo che stiamo abitando e probabilmente raccontando il tempo che stiamo abitando raccontarci anche noi a che punto siamo nella nostra storia”. Una storia nella quale questa Biennale Teatro, oltre che la consapevolezza, ha voluto portare anche la meraviglia, l’utopia, la rivoluzione. La forza di sapere di non sapere, e quindi di poter crescere e cambiare. E vivere con una intensità simile a quella che gli spettacoli sanno trasmettere. “C’è uno sguardo trasversale, uno sguardo obliquo – ha concluso Forte – abbiamo prodotto delle crepe, delle fratture e attraverso queste fratture abbiamo la possibilità di mostrare e di offrire al pubblico che esiste un nuovo mondo e di cui andarne orgogliosi e che ci riempie di speranza verde o smeraldo”.

L’approdo è quello, forse: la possibilità di una speranza o, meglio della grammatica di una speranza. Che usa la parola, i corpi e le relazioni che partono dal teatro per ridefinire un modo di stare davanti al mondo.

Foresta come spazio d’arte: Fondazione Cartier torna in Triennale

Foresta come spazio d’arte: Fondazione Cartier torna in TriennaleMilano, 28 giu. (askanews) – Pensare l’arte come qualcosa che va oltre gli esseri umani, che dialoga con gli altri viventi, con la natura, con le diversità anche profonde. La Fondazione Cartier per l’arte contemporanea porta in Triennale a Milano un nuovo progetto che indaga le culture più lontane dall’Occidente: “Siamo foresta” è una mostra che affascina e spiazza, che prova a toglierci alcune certezze per dare spazio ad artisti indigeni, ma pure alle piante, in un processo, anche visuale, di riequilibrio tra l’umanità e il resto del pianeta. Senza avere paura di affrontare terreni nuovi, come ci ha confermato il direttore artistico della fondazione parigina Hervè Chandès. “L’idea – ha detto ad askanews – è proprio quella di andare a scoprire l’ignoto e questo ignoto si raggiunge attraverso la curiosità, la conoscenza, l’estetica, la bellezza e il vissuto degli artisti. Qui abbiamo artisti dell’Amazzonia, del Brasile, del Peru, del Paraguay e altri luoghi lontani, ma la Fondazione Cartier accoglie anche matematici: è un universo molto vario, comprende il cinema, passiamo da persone dell’Amazzonia a David Linch, a Ron Mueck… E tutto questo compone il nostro mondo di diversità, di alterità e io credo anche di grande forza”.

A curare la mostra, che ospita 27 artisti in gran parte sudamericani, è stato chiamato l’antropologo Bruce Albert. “Questa mostra – ci ha detto – si ispira al modo in cui la foresta viene pensata dalle persone che la vivono e che ne sono i guardiani. E questa foresta è una sorta di multiverso di esseri viventi che sono umani e non umani e che convivono in uguaglianza e in costante interdipendenza. Questa foresta è un universo metafisico e non semplicemente una realtà ecologica. C’è un messaggio di parità e di parentela tra gli esseri viventi e quindi è una sorta di viaggio onirico al di là del nostro antropocentrismo”. Il punto è proprio questo, e la sfida è cruciale, non solo per il mondo dell’arte, ma per tutta la società. La sensazione è che Fondazione Cartier e Triennale, ma segnali in questo senso arrivano forti anche dalla Biennale di Venezia, stiano facendo da avanguardia verso riflessioni che non sono più rinviabili e che ci obbligano a rimettere in discussione tutto il nostro sistema di vita e di valori. E qui, nella luce naturale offerta dal Palazzo dell’Arte, le piante ci sono davvero e spingono un po’ più in là anche l’idea di mostra, grazie anche all’allestimento curato da uno degli artisti esposti, il brasiliano Luis Zerbini. “A volte la gente pensa che l’Amazzonia sia una foresta impenetrabile – ha detto – nella quale per muoverti devi tagliare la vegetazione, ma non è così. Siccome gli alberi sono molto alti si vive al di sotto delle foglie ed è come una cattedrale, con i raggi del sole che scendono dall’alto e la nebbia che si alza. È un luogo commovente, che fa pensare alla spiritualità”.

Una spiritualità che deve necessariamente essere nuova, diversa, plurale. Una spiritualità che guarda al nuovo modo in cui possiamo pensare il contemporaneo e la cultura in generale, in un mondo che è drammaticamente cambiato a causa della mano dell’uomo. Prima che sia davvero troppo tardi.