Dal 21 ottobre l’Almanacco Barbanera, “Memoria del mondo” UnescoRoma, 16 ott. (askanews) – Sostenibile per vocazione, ricco di tradizioni e sempre attento al mondo che cambia, l’Almanacco Barbanera da sabato 21 ottobre torna nelle edicole e librerie italiane con tanti pratici consigli per un vivere quotidiano armonioso e consapevole. L’almanacco più celebre e longevo d’Italia, riconosciuto “Memoria del mondo” dall’Unesco, è pronto a entrare nelle case degli italiani per portare ogni giorno ottimismo e fiducia nel futuro e seminare un po’ di quella vaga e “socratica” capacità con cui dal 1762 ci esorta a guardare alle cose del mondo con incanto, gentilezza e un pizzico di ironia.
L’edizione 2024, fresca e colorata, si propone nell’elegante veste grafica firmata da Roberta Pinti e con le sognanti illustrazioni di Monica Zani: immagini tratte da antichi almanacchi giocano con soggetti dal gusto contemporaneo e riempiono le pagine di colori che invitano alla meraviglia e sfumano i confini tra passato e presente, suggerendo la ciclicità del tempo su cui si fonda tutto il pensiero di Barbanera. Ogni dettaglio sottolinea la bellezza delle piccole cose, il filo conduttore che attraversa tutto l’almanacco, dai dialoghi tra il saggio filosofo e l’amico Silvano – citazione dei Barbanera settecenteschi – alle pagine del giardino, quest’anno incentrate sui rapporti simbiotici e sulle convivenze pacifiche del mondo vegetale. Rispetto al passato, la nuova edizione si arricchisce di tanti nuovi e utili consigli – ben quattro pagine in più ogni mese – dedicati al verde, alle attività in casa e al benessere personale, con il recupero di antiche tecniche e metodi naturali, qualche gioco per allenare la mente e tenere lontana la pigrizia e pillole per “amarsi un po’”. Mese dopo mese, le fasi della Luna e il ciclo delle stagioni ispirano le pagine dell’almanacco, esortano a fare tesoro di piccole idee contro lo spreco, a rivalutare antichi rimedi per la cura del corpo e dello spirito e a fare più verde il pianeta attraverso buone e consolidate pratiche per svolgere, al momento giusto e nel modo migliore, i lavori in casa e in cantina, nell’orto e nel frutteto, in giardino e sul balcone. Per i piaceri da condividere a tavola, ogni mese l’Almanacco propone una ricetta delle tradizioni regionali italiane che valorizza ingredienti di stagione conditi con curiosità storiche, scientifiche e culturali.
Oltre che alla terra, l’occhio attento di Barbanera si alza, come sempre, anche al cielo, che tanto ci incuriosisce e un po’ ci orienta nel sentire e nel vivere quotidiano. Poste in apertura di ogni mese, le pagine dedicate agli astri abbinano alla presentazione delle costellazioni protagoniste del cielo di stagione, suggerimenti su come osservare i principali eventi astronomici senza bisogno di telescopi, curiosità tra mito e scienza e un glossario delle “parole celesti” più comuni. Naturalmente il Barbanera 2024 non dimentica di riproporre i grandi classici della cultura d’almanacco: le previsioni astrologiche, degli specchietti sintetici sulle coltivazioni e i cibi di stagione, proverbi tramandati di generazione in generazione e la tradizionale tavola delle effemeridi con i santi del giorno, gli orari del levare e calare del sole e della luna, previsioni meteo, curiosità calendariali e le più importanti ricorrenze religiose e civili.
Simbolo universale di un genere letterario che ha contribuito a diffondere cultura per tutti, e per questo riconosciuto “Memoria del mondo” Unesco, l’Almanacco Barbanera continua a farsi narratore e interprete del tempo. Forte di una saggezza antica, ma capace di stare al passo con i tempi, anche questo ottobre torna puntuale in edicola e in libreria, insieme al classico Calendario, per offrire ai propri lettori sempre nuovi spunti per vivere felici.
Libri, esce il romanzo “Rosa” di Veronica PivettiRoma, 16 ott. (askanews) – Una vita a ostacoli quella di Rosa Cruzado, la grintosa protagonista del nuovo romanzo di Veronica Pivetti. Donna di cuore e di cervello, è giunta in Italia dal Perù ed è operatrice sociosanitaria in una RSA milanese. Cura gli anziani ospiti con dedizione, ma lo stipendio non basta per arrivare a fine mese e così, insieme alle colleghe Lupe, Teodora, Polina, Denisa e Maka, apre una cooperativa di assistenza per malati all’insaputa della coordinatrice, la temibile dottoressa Spinelli. Giornate e nottate di duro lavoro, il desiderio di affrancarsi dalle difficoltà economiche che l’accompagnano da sempre, la volontà di costruire un futuro sereno. La forza della protagonista è nella sua grande umanità, nell’ironia e nell’empatia che la contraddistinguono. “Rosa”, un racconto in commedia con un finale inatteso, che è al tempo stesso una storia di emancipazione e una favola dei giorni nostri.
“Rosa” di Veronica Pivetti, edito da Rai Libri, è in vendita nelle librerie e negli store digitali dal 17 ottobre 2023 (Euro: 19,00). Veronica Pivetti è attrice, doppiatrice, conduttrice e scrittrice. Protagonista di molte fiction fra cui Commesse, Il Maresciallo Rocca, Provaci ancora prof, La ladra, ha debuttato al cinema con Viaggi di nozze di Carlo Verdone. Ha condotto con Raimondo Vianello il Festival di Sanremo e vari programmi tv fra cui “Per un pugno di libri”, “Amore criminale”, “La donna della domenica”, ed è stata ospite fissa a “Le parole”, con Massimo Gramellini. A teatro è stata protagonista di Boston Marriage, Sorelle d’Italia, Viktor und Viktoria, Stanno sparando sulla nostra canzone e altri spettacoli. Ha diretto il film Né Giulietta, né Romeo (2015).
È autrice di Ho smesso di piangere (2012), Mai all’altezza (2017), Per sole donne (2020), Tequila bang bang (2022), pubblicati da Mondadori.
Da Milano al mondo: le città (in)visibili di Gabriele BasilicoMilano, 15 ott. (askanews) – Le città sono stati d’animo, ma anche forme di sguardo. E una delle più celebri tra queste ultime è quella di Gabriele Basilico, il fotografo milanese di cui ricorre il decennale dalla morte. E Milano ora lo ricorda con una mostra su due sedi, la Triennale e Palazzo Reale, che parte dal capoluogo lombardo per arrivare al resto del mondo ed è intitolata “Le mie città”. Giovanna Calvenzi ha curato entrambe le esposizioni. “Milano era il suo porto di partenza e il suo porto di ritorno – ci ha raccontato – l’ha detto e scritto più volte. Però di Milano amava soprattutto le zone in espansione, le periferie, le zone dove delle cose potevano succedere”.
Quello che più si percepisce, addentrandosi nelle fotografie di Basilico, è il modo in cui la città prende forma, il suo “darsi” una forma, che in un certo senso sembra prescindere dall’intervento umano. La città esiste, la città è. E noi lo possiamo scoprire grazie a queste immagini. In Triennale attraverso 13 serie si incontra la Milano di Basilico, dai famosi ritratti di fabbriche agli anni della trasformazione urbanistica con l’arrivo dei grattacieli. A co-curare questa mostra, realizzata in collaborazione con il Museo di fotografia contemporanea, c’è Matteo Balduzzi. “Si tratta di una mostra molto libera, molto aperta – ha spiegato – ma anche rigorosa, che di fatto ordina il lavoro che Gabriele ha fatto su Milano e lo presenta in modo quasi completo per la prima volta al pubblico”. A Palazzo Reale, invece, gli scatti di Basilico arrivano nella Sala delle Cariatidi, riproponendo un dialogo serrato tra la contemporaneità del lavoro e la storicità del luogo, tra lo spirito delle città e la dimensione architettonica dello spazio che fa da cornice. In questo caso insieme a Calvenzi ha lavorato Filippo Maggia. “Una città che non si ripete – ci ha detto – ma che è successiva una all’altra: ogni città è diversa, il luogo è diverso, il modo di interpretare l’impatto con la città, il modo di conoscere la città di Gabriele Basilico muta negli anni, si evolve, si passa da una visione più frontale a una che negli ultimi anni sarà verticale spsso e anche a colori, ma verticale inteso come a volo d’uccello, non dall’alto verso il basso, quindi come una fotocamera che plana sulla città”.
E l’azione di planare è forse quella più coerente quando si prova a capire una città: arrivarci per scoprirla e farlo perdendosi in mille angoli e mille storie silenziose. Quelle storie che Gabriele Basilico ha raccontato per decenni con un nitore che sarebbe piaciuto all’Italo Calvino de Le città invisibili. (Leonardo Merlini)
”Invisible City”, la mostra fotografica di Gaido in VersiliaRoma, 15 ott. (askanews) – In occasione della seconda edizione di Pietrasanta Design Week-end, il Complesso Monumentale Chiostro di Sant’Agostino della cittadina versiliese ospita dal 19 ottobre al 10 dicembre 2023 la mostra di Veronica Gaido INVISIBLE CITY a cura di Maria Vittoria Baravelli.
L’esposizione è una serie fotografica, nata nel 2015 e ancora in fieri, per cui l’artista si è ispirata al celebre romanzo omonimo di Italo Calvino. La mostra, dopo essere stata ospitata al Consolato generale d’Italia a New York da maggio a settembre 2023, approda in Italia e sarà uno degli eventi di punta di Pietrasanta Design Week-end. Da New York a Pechino, da Miami a Tokyo, gli edifici di queste grandi metropoli si trasformano passando attraverso l’occhio di Veronica Gaido e diventano sostanza viva, pura luce. L’artista fa diventare la materia dura delle architetture monumentali fluida, flessibile, sinuosa; tratta i grattacieli come fossero canne di bambù mosse dal vento, percorse dalla luce, dal tempo e dalle sue emozioni, in una visione che guarda alla pittura futurista del primo Novecento, ma che diventa futuristica.
Un vero e proprio passaggio di materia dove il solido diventa fluido e vibrante, creando delle immagini che attraggono e respingono allo stesso tempo e che, trasportando la mente nella sfera del sublime, fanno correre l’immaginazione e danno vita a spazi e mondi altri. In questo modo, Veronica Gaido non è solo una fotografa, ma una pittrice della realtà, un’artista che dipinge con la luce per farci vedere il mondo con una nuova prospettiva, ricordandoci che la bellezza è ovunque, se siamo disposti a osservare con attenzione e sensibilità. Le sue immagini sono più di semplici scatti: sono pennellate di colore, luce ed emozione. Ogni foto racconta una storia, cattura un momento, e ci invita a vedere il mondo con occhi diversi.
L’artista spesso parte da una fonte letteraria per dare vita ai suoi lavori, come in questo caso in cui è stata ispirata da Italo Calvino, di cui ricorrono proprio i cento anni dalla nascita, e da quel Marco Polo delle Città invisibili che descrive città immaginifiche, fantastiche, ma dalle possibilità illimitate, come quelle di Veronica Gaido. Veronica Gaido, utilizzando la lunga esposizione e componendo e scomponendo i soggetti che ritrae, siano essi corpi o architetture, come in questo caso, ci restituisce una sua personale interpretazione delle realtà e delle emozioni che quel preciso pezzo di mondo ha suscitato in lei.
“D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda”, questa citazione di Italo Calvino sembra incarnare il sentimento che emerge dal lavoro fotografico di Veronica Gaido intitolato “INVISIBLE CITY”, in omaggio al celebre romanzo dello scrittore”, scrive Maria Vittoria Baravelli curatrice della mostra. “Una indagine attraverso le sue fotografie liquide delle città del mondo, dall’America al Giappone, dalla Cina all’Europa, per giungere oggi, in occasione della sua mostra, in Versilia, territorio in cui è nata”. L’esposizione racconta di come le architetture, totem della nostra contemporaneità esprimano le vite di chi i luoghi li vive, dimostrando quanto la sua fotografia sia più vicina all’arte che al reportage. Corpi vicini, lontani, sfumati, accennati o a malapena visibili. Nelle immagini di Veronica, sembra che esploriamo la superficie delle cose, cercando di unire i pezzi e di delineare tutte le vite che non sono le nostre, o che forse avremmo potuto vivere se fossimo dall’altra parte del mondo”.
Karen Russell vince il premio letterario Lattes GrinzaneMilano, 14 ott. (askanews) – Con il suo romanzo “I donatori di sonno” (Edizioni Sur, traduzione di Martina Testa), la statunitense Karen Russell è la vincitrice della XIII edizione del Premio Lattes Grinzane, il riconoscimento internazionale intitolato a Mario Lattes e promosso dalla Fondazione Bottari Lattes, che anche quest’anno ha visto concorrere insieme i migliori libri di narrativa italiana e straniera pubblicati nell’ultimo anno. La cerimonia di premiazione, condotta da Alessandro Mari, si è svolta sabato 14 ottobre 2023 al Teatro Sociale Busca di Alba (CN). A determinare la vittoria di Russell sono stati i voti di 400 studentesse e studenti di 25 giurie scolastiche delle scuole superiori in tutta Italia, più una di Parigi.
Si legge come motivazione della Giuria Tecnica del Premio, che aveva selezionato “I donatori di sonno” tra i finalisti: “La qualità di certe storie del terrore si può misurare con la quantità di sonno che sottrae, per l’eccitazione che non fa chiudere occhio. Poi si cede, altrimenti il corpo collassa. Come ne I” donatori di sonno”, dove Karen Russell trasforma l’insonnia stessa in un incubo di massa: la misteriosa epidemia che impedisce di dormire fiacca la mente e il corpo fino alla morte. È l’apocalisse, bianca. Ci sono alcuni donatori, che con il loro sonno idratano le menti dei malati, ma rischiano di infettarli con gli incubi. Il genere umano rischia l’estinzione. L’unica speranza sono i bambini, il sonno purissimo. A scoprirlo è la voce narrante del romanzo, che ha perso la sorella, tra le prime vittime della pandemia: la sua storia è una ferita pulsante, perché la usa per convince i più riluttanti a donare, come il padre di una bambina prodigiosa. Così la distopia diventa riflessione sul senso del dono, il sacrificio per la salvezza, il potere delle storie. E il romanzo, uscito negli Usa nel 2014, non si riduce a profezia del Covid, ma re-invenzione del mito di Morfeo-Hypnos. Con uno stile essenziale, tra guizzi psicologici e colpi d’ala dell’immaginazione, Russell ci ricorda che certi traumi non si superano, ma possono venire trasformati in storie che danno senso al dolore e alla paura di tutti. E la letteratura è far proprio, incubare, ciò che è stato sognato da altri”. Domani Karen Russell terrà una masterclass alla Scuola Holden di Torino, con la quale da quest’anno il Premio Lattes Grinzane ha avviato una nuova collaborazione preceduta da una lezione introduttiva a cura di Loredana Lipperini. Al centro, il tema della letteratura di genere secondo l’autrice, con un approfondimento sul suo metodo di lavoro. Informazioni sul sito scuolaholden.it Jonathan Safran Foer, pubblicato in Italia da Guanda, è il vincitore del Premio Speciale Lattes Grinzane, attribuito ogni anno a un’autrice o a un autore internazionale di fama riconosciuta a livello mondiale che nel corso del tempo abbia raccolto un condiviso apprezzamento di critica e di pubblico. Durante la cerimonia, secondo la tradizione, lo scrittore ha tenuto una lectio magistralis dal titolo “Cuori di macchina”, tradotta in italiano da Irene Abigail Piccinini, incentrata sul rapporto tra il valore del tempo e la società tecnologica in cui viviamo: “Cambierà tutto, è ciò di cui si vanta qualunque novità tecnologica di rilievo. Ma questo cambiamento ha una direzione, e come facciamo a sapere per certo che si tratti di una direzione positiva? È un progresso?”.
Museo dell’Ottocento presenta “Antonio Mancini e Vincenzo Gemito”Roma, 14 ott. (askanews) – Attraverso 140 opere, tra dipinti, sculture e disegni provenienti da importanti raccolte pubbliche e private, il Museo dell’Ottocento presenta l’esposizione ‘Antonio Mancini e Vincenzo Gemito’, che racconta la storia di due dei più importanti artisti italiani vissuti tra il XIX e il XX secolo: il pittore Antonio Mancini (Roma 1852-1930) e lo scultore Vincenzo Gemito (Napoli 1852-1929). Di fatto, due vere e proprie retrospettive che si incrociano, mettendo in evidenza tangenze e distanze tra le ricerche dei due artisti, tra i più apprezzati del loro tempo anche al di là dei confini nazionali. La mostra, a cura di Manuel Carrera, Fernando Mazzocca, Carlo Sisi e Isabella Valente, intende inoltre indagare il rapporto dei due artisti con i colleghi e mecenati.
I capolavori sono stati concessi da collezioni private e istituzioni museali quali la Direzione regionale Musei Campania – Certosa e Museo di San Martino di Napoli, la Fondazione Cardinale Giacomo Lercaro – Raccolta Lercaro di Bologna, la Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, la Galleria d’Arte Moderna di Milano, la Galleria d’Arte Moderna di Roma, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, il Museo delle Raccolte Frugone di Genova. Fondamentale il contributo di Intesa Sanpaolo, con sedici opere provenienti dalle sedi delle Gallerie d’Italia di Napoli e Milano. Il Museo dell’Ottocento, inoltre, espone per intero il suo nucleo di diciassette opere di Mancini, capaci di restituire la vicenda di un artista che conquistò una fama internazionale. Nati nel 1852, Mancini e Gemito, entrambi di umili origini, si incontrarono tredicenni alla scuola serale di San Domenico Maggiore a Napoli. Sotto la guida degli scultori Stanislao Lista ed Emanuele Caggiano, poi del pittore Domenico Morelli, negli anni della formazione condivisero l’attitudine a una rappresentazione realistica della figura umana, accomunati dall’abilità nell’introspezione psicologica, ciascuno secondo le peculiarità del proprio linguaggio. Tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, Napoli era teatro di sperimentazioni pittoriche sul rapporto tra luce e colore e al centro di un dibattito che rivoluzionava la secolare supremazia del disegno propugnata dall’Accademia; la città era aperta al dialogo con artisti di tutta Europa e attenta alle novità che giungevano dalla Francia, dalla Spagna e dall’Inghilterra. A partire dalla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, dopo i soggiorni parigini e un lungo periodo di instabilità psichica che afflisse i due artisti, le strade di Mancini e Gemito si separarono prendendo direzioni diametralmente opposte. Mancini stabilitosi a Roma sperimenterà una pittura caratterizzata da una pennellata veloce, frammentata, con brillanti tocchi luministici, stile che attirerà da un lato l’attenzione del collezionismo straniero, dall’altro le critiche di coloro i quali ritenevano la sua figurazione eccentrica. Gemito negli anni della maturità si avvicinerà al rigore e all’eleganza dell’arte ellenistica e alla tradizione orafa. L’esposizione offre la visione delle fasi salienti del percorso di entrambi, con affondi tematici sulle rispettive poetiche.
Negli anni dell’apprendistato entrambi si esercitavano nella tecnica del disegno e nella rappresentazione del ‘vero’ con una nuova sensibilità, che si tradusse nella capacità di catturare le emozioni e gli stati d’animo. Dai maestri venivano indirizzati allo studio dei capolavori provenienti dagli scavi di Pompei ed Ercolano custoditi nel Museo Nazionale di Napoli. Per la formazione di Mancini fu fondamentale la scoperta di Caravaggio e della pittura naturalistica del Seicento che si potevano ammirare nelle chiese partenopee. Il Malatiello (terracotta, 1870 ca., Certosa e Museo di San Martino, Napoli) rappresenta il primo approdo di Gemito al realismo, quale esito formale degli insegnamenti del maestro Stanislao Lista. Lo Scugnizzo (terracotta, 1872, Collezione Intesa Sanpaolo Gallerie d’Italia – Napoli) è uno straordinario studio dal vero dal modellato morbido che riesce a trasmettere l’ingenuo stupore di un bambino colto di sorpresa. Gli fanno eco due tele di Antonio Mancini messe a confronto per la prima volta: Il Prevetariello, piccolo prete, (1870 ca., Certosa e Museo di San Martino, Napoli) e il Prevetariello in preghiera (1873 ca., Museo dell’Ottocento, Pescara) opera eseguita dopo un viaggio a Venezia. Come si può notare dal raffronto, la scoperta della pittura veneta funge da spartiacque nel percorso formativo del pittore che, dai contrasti drammatici di reminiscenza caravaggesca, passerà ad un colorismo acceso, caldo e sensuale. Mutamento stilistico di cui si cominciano a cogliere i riflessi anche nella grande tela Dopo il duello (1872, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino), nella quale il pittore rivela un’eccellente attenzione per il dettaglio e per la resa degli stati d’animo. Mancini nel maggio 1875 partì per Parigi dove rimase alcuni mesi durante i quali conobbe alcuni mercanti d’arte, come Adolphe Goupil e Alphonse Portier. Grazie alla frequentazione di Giuseppe De Nittis, che viveva nella città, egli incontrò Giovanni Boldini, gli impressionisti Edgar Degas e Édouard Manet, dal cui stile non fu particolarmente attratto. Tornerà nella Ville Lumière insieme a Gemito nel 1877. L’opera Saltimbanchi suonatori (1877, coll. priv., Courtesy METS Percorsi d’Arte), caratterizzata da colori vivaci e ricchezza di dettagli, nasce con l’intento di assecondare il mercato francese che ben presto si rivelerà troppo stretto per il talentuoso pittore. Da questa consapevolezza e dalla crisi esistenziale che ne derivò, si fece strada la genesi di Verità (1873-1878, Museo dell’Ottocento, Pescara), il suo dipinto più libero, un flusso di coscienza visivo che sembra anticipare, senza volerlo, gli aspetti della pittura surrealista. Gemito a Parigi frequentò l’atelier di Ernest Meissonier, pittore di grande fama, raffigurato in due sculture in bronzo (post 1879, Chines Collection, Roma e Galleria d’Arte Moderna, Milano); tra i due nacque un’amicizia profonda e duratura che andò avanti fino alla morte del francese. Nel percorso espositivo si ammira, inoltre, il Pescatore (Galleria d’Arte Moderna, Milano), replica del 1924-1925 della fusione in bronzo del 1875-1877 conservata presso il Museo Nazionale del Bargello di Firenze.
L’opera manifesto dello scultore, esposta al Salon del 1877 e all’Exposition Universelle del 1878, catalizzò l’attenzione critica sia per la posa irrituale e spontanea del ragazzo sia per il richiamo di citazioni classiche, come lo Spinario dei Musei Capitolini. A Parigi però le differenze caratteriali tra i due – Mancini mite e remissivo, Gemito volitivo e autoritario – non tardarono a manifestarsi. I contrasti sfociarono nel 1878 nella rottura della loro amicizia, funestata dalle difficoltà economiche e dalla malattia. Mancini, affetto da crisi nervose dal 1881 al 1882 fu internato al manicomio provinciale di Napoli. Nel 1883 si trasferì a Roma dove conquistò fama internazionale, inserendosi nel giro dei collezionisti e dei pittori stranieri. Si può rintracciare l’eco di tale notorietà nel Ritratto di Antonio Mancini, (1901 ca., Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma) eseguito dallo statunitense John Singer Sargent che lo definì “Il più grande pittore vivente”. Sono di questo periodo: Mi dipingerà così o Il buon modellino o Pastorello in Ciocie (1884 ca., Museo delle Raccolte Frugone, Genova) e Ciociara o Ragazza che espone un quadro (1885 ca., coll. priv.) dove Mancini inserisce un quadro nel quadro; la pennellata si fa più ampia, rapida e si arricchisce di colori accesi nel ricordo di Rembrandt. Vincenzo Gemito, tornato a Napoli, afflitto da un esaurimento psichico, si segregò nella sua abitazione per circa un ventennio nel corso del quale pose in essere una riflessione sull’arte ellenistica, come testimoniano alcuni bronzetti e la Maschera dell’imperatore Alessandro, (cera, 1920 ca., Galleria d’Arte Moderna, Milano).
In mostra si ammirano anche i disegni di Gemito, come Fanciulla napoletana o La Zingara, (1885, Collezione Intesa Sanpaolo Gallerie d’Italia – Napoli) ed esempi significativi della serie di Autoritratti. Egli, soprattutto nella fase della maturità, concepì questa tecnica come un’espressione indipendente che procede in parallelo a quella plastica. La mostra ha il patrocinio del Consiglio Regionale dell’Abruzzo, del Comune di Pescara, del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Si ringrazia Intesa Sanpaolo / Gallerie d’Italia per la collaborazione. La mostra ha ricevuto altresì la preziosa collaborazione dell’Associazione METS Percorsi d’Arte per il reperimento di numerose opere. Il catalogo pubblicato in occasione della mostra, edito da Silvana Editoriale, approfondisce gli aspetti nodali delle ricerche di Mancini e Gemito attraverso contributi inediti dei curatori e di altri studiosi, con il supporto di un ricco apparato documentario e centinaia di illustrazioni, ponendosi così come contributo fondamentale per le future ricerche sui due artisti.
Al via la 67esima Biennale Musica, esplorazione dell’elettronicaMilano, 14 ott. (askanews) – Al via Micro-Music, il 67esimo Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia che inaugura lunedì 16 ottobre e accompagnerà l’autunno veneziano fino a fine mese. Terzo capitolo della direzione artistica di Lucia Ronchetti, il Festival propone un’esplorazione del suono elettronico, dalle prime sperimentazioni avanguardistiche alle sue espressioni contemporanee indissolubilmente legate agli sviluppi della tecnologia digitale.
Ad aprire il festival due figure profetiche dell’avanguardia americana: Morton Subotnick, a 90 anni ancora in piena attività, che presenterà al Teatro alle Tese dell’Arsenale (ore 20.00) As I Live and Breathe e a seguire Maryanne Amacher, scomparsa nel 2009, di cui viene ricostruito Glia grazie al lavoro di Bill Dietz con gli ensemble Contrechamps e Zwischentöne. Fra i massimi pionieri di un nuovo mondo sonoro fatto di suoni sintetici che spazzano via note e partiture, Subotnick e Amacher sono protagonisti del fermento culturale degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, incrociando nelle loro opere multimediali collaborazioni con altri musicisti ma anche con artisti di altre discipline, divenendo figure seminali capaci di influenzare ancora la musica oggi.
Dopo studi rigorosamente accademici e le prime prove compositive che lo porteranno anche alla Biennale Musica nel ’63, Morton Subotnick intuisce presto che il futuro di tanta musica sarebbe stata nella creazione di nuovi strumenti “che non chiedano di usare le dita, di fare le scale, ma che si muovano in base al gesto”, in una totale identificazione fra gesto e suono. Scardinando la gerarchia su cui si basava la musica occidentale – compositore/interprete/pubblico – Subotnick immagina un’arte nata interamente in studio. E’ così che entra nella storia con Silver Apples of the Moon del ’67, non solo il primo pezzo commissionato per computer (dalla Nonesuch Records), ma anche per il successo impensato che ebbe, fino a entrare nei 300 titoli scelti nell’intera storia dei lavori registrati della Library of Congress. Alla Biennale Subotnick sarà sul palco del Teatro alle Tese con As I Live and Breathe un lavoro interattivo impregnato dalle fantasmagoriche animazioni astratte di Lillevan, artista visivo e Vj, co-fondatore nel ’97, in occasione di Documenta X di Kassel, dei Rechenzentrum. Definito da Subotnik “una metafora della mia vita nella musica”, As I Live and Breathe fa del respiro uno strumento. Si apre con una singola inspirazione del maestro, presente sul palco, e via via la musica e l’immagine si sviluppano in lunghe frasi, dapprima semplici per trasformarsi gradualmente. “Le frasi diventano più complesse e animate – spiega il compositore – man mano che il mio respiro diventa l’innesco di nuovi suoni, ritmi e toni elettronici, con e senza il mio respiro. Il suono del mio respiro originale ritorna alla fine e, come una farfalla che emerge dal suo bozzolo, si trasforma in ritmi e melodie che si concludono con un unico, silenzioso respiro espirato”.
Lungo un rigoroso percorso di ricerca, Maryanne Amacher sviluppa le sue opere soprattutto attorno a tre ampi cicli di installazioni site specific multimediali: a partire dal ’67 la serie City Links, cui segue Music for Sound-Joined Rooms nei primi anni ’80 e infine Mini Sound Series dall’85. Ma sarà soprattutto dalle sperimentazioni sul fenomeno psicoacustico del terzo orecchio, sui suoni generati all’interno dell’orecchio umano scientificamente definiti “emissioni otoacustiche” che nasceranno i suoi lavori più memorabili. Come Glia, composto da Maryanne Amacher nel 2005 ed eseguito una sola volta con lei in vita, un’esperienza immersiva di 75 minuti, ricostruita per la Biennale Musica dagli ensemble Contrechamps e Zwischentöne sotto la guida di Bill Dietz, a lungo collaboratore della compositrice. Dal carattere fortemente esperienziale, e per questo eccezionalmente riproducibile se non attraverso la memoria di chi ne ha preso parte, la musica della Amacher mette in gioco i nostri suoni interiori, generati dal nostro stesso orecchio in risposta ad altri suoni, rendendo udibile “la musica dell’ascoltatore”. Ispirato alla scoperta del ruolo attivo delle cellule gliali nella trasmissione delle informazioni, Glia trasforma il Teatro alle Tese in un ambiente in cui i movimenti, le reazioni fisiche e psicologiche al suono degli spettatori incidono sul pezzo stesso perché ogni partecipante è esso stesso fonte sonora. I musicisti/performer con i loro strumenti sono raccolti attorno a una struttura piramidale al centro dello spazio, circondati da altoparlanti mentre gli ascoltatori si muovono intorno, costituendo, nell’ottica della Amacher, una sorta di interfaccia. “In Glia è come se le nostre orecchie fossero dei sintetizzatori particolari o degli amplificatori, mentre connettono elementi acustici ed elettronici. Il suono acquista una vita propria ma allo stesso tempo lo riconosciamo come fenomeno relazionale, un’interazione tra ascoltatori, ambiente e altri suoni” (Johanna Hardt).
Il primo giorno vede, inoltre, l’inaugurazione di quattro installazioni, commissionate dalla Biennale e pensate per spazi specifici della città di Venezia. Si inaugurano nella mattinata del 16 ottobre (ore 11.30) e restano fruibili lungo tutto l’arco del festival al Parco Albanese di Mestre l’installazione audiovisiva 1195 di Tania Cortés Becerra, ispirata alle architetture della Basilica di San Marco e Sounds of Venice Number Two di Andrea Liberovici e Paolo Zavagna, una passeggiata acustica che trasporta Venezia a Mestre. Al Padiglione 30 di Forte Marghera, sempre dal 16 al 29 ottobre, debutta Love Numbers, installazione plurifonica di Anthea Caddy e Marcin Pietruszewski con quattro altoparlanti parabolici capaci di proiettare raggi sonori fino a tre km di distanza e con un diametro di 50 cm. Nel pomeriggio, infine, alle ore 18.00 Louis Braddock Clarke, selezionato per Biennale College Musica, inaugura in Sala d’Armi E, Weather Gardens, un’esperienza di ascolto intima che esplora “ecologie sonore modellate dagli esseri umani nell’era dell’Antropocene”.
E’ morta la poetessa Louise Gluck, fu Nobel per la letteratura nel 2020Roma, 14 ott. (askanews) – È morta -riferisce la Bbc – all’età di 80 anni Louise Glück, poetessa americana e premio Nobel per la letteratura.
La Gluck ha ricevuto il Nobel nel 2020, diventando la prima poetessa americana a vincere l’onore dai tempi di TS Eliot più di 70 anni prima. Le sue poesie parlavano spesso di trauma e disillusione, con la sua poesia più famosa, “Mock Orange”, che metteva in discussione il valore dell’amore e del sesso. In Italia la sua opera è pubblicata da “Il Saggiatore”.
La morte di Glück è stata confermata venerdì dai suoi editori. “La poesia di Louise Gluck dà voce al nostro diffidente ma instabile bisogno di conoscenza e connessione in un mondo spesso inaffidabile”, ha detto in una nota il suo editore di lunga data Jonathan Galassi. “Il suo lavoro è immortale.” Un’amica ha detto al New York Times che la poestessa è morta di cancro nella sua casa di Cambridge, nel Massachusetts.
I giudici del Nobel nel 2020 l’hanno elogiata per ½la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale». La Cluck vinse il Premio Pulitzer nel 1993 per la sua raccolta The Wild Iris, un libro di poesie che trattava temi di sofferenza, morte e rinascita. Tra i suoi altri riconoscimenti il Bollingen Prize for Poetry del 2001, il Wallace Stevens Award, assegnato nel 2008, il National Book Award nel 2014 e una National Humanities Medaglia, assegnata nel 2015 da Barack Obama.
ArtVerona, contaminazione e dialogo per il sistema italianoVerona, 13 ott. (askanews) – Il sistema dell’arte italiano si presenta, ormai da 18 anni, ad ArtVerona, appuntamento fieristico che per il 2023 ospita gallerie e premi, oltre a una volontà di dare spazio a curatori e ad artisti, emergenti, ma anche storici, con opere importanti come per esempio lo Spazio elastico di Gianni Colombo ricostruito in fiera. Alla direzione artistica di ArtVerona anche quest’anno Stefano Raimondi: “E’ una fiera – ha detto ad askanews – che si basa sempre sulla promozione e valorizzazione del sistema dell’arte italiano, quindi ci sono oltre 145 espositori, però è un sistema che si allarga, si allarga creando relazioni internazionali sia con artisti, come la presentazione di Peter Halley, il suo Magic Carpet di oltre 400 metri quadrati, sia con la partecipazione di importanti gallerie internazionali dalla Turchia, dalla Svizzera, dalla Germania, da Vienna e ospiti invitati dalla fiera sia a livello di collezionisti sia a livello di curatori di musei e istituzioni, anche in questo caso, sia italiani sia stranieri”.
La fiera assegna quest’anno 13 premi e vuole promuovere il confronto tra i diversi attori del panorama artistico nazionale. “Quindi è una fiera che ha nella contaminazione, nel dialogo – ha aggiunto il curatore – la sua anima fondante e nell’accoglienza e nella valorizzazione proprio di quello che è il nostro sistema dell’arte”. Un sistema che a volte oscilla bruscamente tra le visioni della politica e la ricerca portata avanti sui terreni anche meno convenzionali, ma che, comunque, cerca di mantenere vivacità e dinamismo, tenendo insieme attori anche molto diversi tra loro. “È un sistema altamente articolato – ha concluso Raimondi – e ovviamente più ampio è il dialogo tra tutti questi operatori, più la forza del sistema cresce”.
Importante infine anche la relazione con Verona: il progetto Art&TheCity vuole valorizzare luoghi meno noti al grande pubblico mentre due mostre, una dedicata a Giulio Paolini e una alla videoarte, sono state inaugurate in città in occasione della fiera.
Duchamp torna da Peggy, le sue copie alla Collezione GuggenheimVenezia, 13 ott. (askanews) – Replicare, moltiplicare, appropriarsi, travestirsi, creare altre narrazioni e altre possibilità. Queste azioni oggi sono alla base praticamente di tutto ciò che definiamo arte contemporanea e questo è dovuto, in larga parte, alla lezione di Marcel Duchamp, a cui la collezione Peggy Guggenheim di Venezia dedica una mostra intitolata “La seduzione della copia”. A curarla è stato chiamato Paul B. Franklin. “L’approccio di Duchamp alla copia – ha detto lo studioso ad askanews – è unico: per lai prima volta nell’arte lui ci invita a guardare la copia e l’originale come se fossero uguali e ci suggerisce che ci forniscono la stessa forma di piacere visivo”.
Il concetto, a ben guardare è rivoluzionario, esplosivo. Innesca una serie di reazioni a catena che ci portano fino a oggi ed è probabile che accompagneranno gli sviluppi dell’arte anche domani, nel mondo degli NFT e dell’Intelligenza artificiale, che proprio sull’idea di copia si basano. Ma le copie di Duchamp sono ancora più particolari perché, come nel caso delle celebri “Scatole in valigia”, anche nei duplicati c’è un elemento di unicità, e tutto si confonde di nuovo. “Lavoro da 25 anni su Duchamp – ha aggiunto Franklin – e continuo a scoprire cose nuove, Duchamp è un esempio non solo del modo in cui ci si avvicina all’idea di fare arte, ma anche del modo in cui avvicinarsi al fatto di esistere nell’universo”. In mostra a Venezia alcuni pezzi importanti della collezione, accanto a prestiti del MoMA o del Guggenheim di New York, ma anche di una collezione privata veneziana ricca di Duchamp. A dare un’aura diversa al progetto espositivo è però soprattutto la relazione tra l’artista e Peggy Guggenheim, del cui legane ci ha parlato la direttrice del museo, Karole Vail. “Lui le insegna addirittura la differenza tra l’arte astratta e l’arte surrealista – ci ha detto – e Peggy parla e scrive su di lui, per esempio nella sua autobiografia, in modo affettuoso, dicendo che lui le aveva insegnato praticamente tutto sull’arte moderna”.
E quindi la mostra in questo luogo rappresenta un vero e proprio ritorno a casa di Marcel Duchamp, ovviamente carico di duplicità, di rimandi e di sorprese. Come se il museo fosse a sua volta una scatola che contiene una valigia che a sua volta contiene il museo stesso, in un gioco di specchi all’infinito. “C’è una specie di filo conduttore, se vogliamo dire così – ha concluso Karole Vail – perché Duchamp assume questa parte nello sviluppo artistico e personale di Peggy stessa”. L’esposizione, che presenta una sessantina di opere realizzate tra il 1911 e il 1968, è aperta al pubblico fino al 18 marzo 2024. (Leonardo Merlini)