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Europee, lo spettro astensionismo mette i brividi ai partiti

Europee, lo spettro astensionismo mette i brividi ai partitiRoma, 8 giu. (askanews) – Lo spettro dell’astensionismo si aggira un po per tutta Europa, impegnata nella decima tornata elettorale della sua storia. Ma incombe in particolar modo sull’Italia, che dall’euro-entusiasmo delle prime elezioni per il Parlamento europeo potrebbe stavolta veder scendere la partecipazione nazionale intorno al 50% e trovarsi sotto alla media Ue.


Nel corso dei decenni l’affluenza media europea per il rinnovo del parlamento dell’Unione ha subìto un calo quasi costante, passando dal 62% del primo voto nel 1979 al poco più del 50% nell’ultima tornata del 2019. Andando a guardare la serie storica (ai 6 paesi fondatori della Ue nel 1958, e agli altri 3 entrati nel 1973, si sono uniti nel frattempo altri 19 paesi), si nota che dopo il 61,9% del 1979, l’affluenza media europea nel 1984 è calata infatti al 58,9%, nel 1989 è scesa al 58,4% e nel 1994 al 56,6%. Nel 1999 poi, è calata drasticamente al 49,5%, nel 2004 al 45,4%, nel 2009 al 42,9%, e nel 2014, dato più basso di sempre, al 42,6%. Poi c’è stato un buon rimbalzo nel 2019, quando è risalita al 50,6%. Come sarà l’affluenza a livello continentale quest’anno, quando domenica sera si chiuderanno le urne? Difficile fare previsioni, sia perché l’uscita nel 2020 del Regno Unito (che alle Europee ha sempre avuto percentuali altissime di astensione), potrebbe condizionare al rialzo il dato, sia perché molto dipende dalle dinamiche interne a ciascun Paese. Secondo una ricerca della Fondazione Bertelsmann, l’affluenza media continuerà la ripresa registrata nel 2019, soprattutto nei Paesi del Nord. Quasi certamente invece, l’Italia sarà in controtendenza. Da noi il calo della partecipazione nelle elezioni Ue ha mostrato un andamento altrettanto calante, ma più marcato che nel resto d’Europa, seppure “viziato” da percentuali iniziali di partecipazione più alte. Nel primo voto del 1979 l’affluenza italiana è stata dell’85,6%; nel 1984 è calata all’82,4% e nel 1989 all’81%. Nel 1994 si è registrato un brusco calo, al 73,6%, e nel 1999 al 69,7%. Nel 2004 l’affluenza è risalita al 71,7% ma già nel 2009 è ripresa a calare attestandosi al 66,4%. Nel 2014 poi, è stata del 57,2% e nel 2019 del 54,5%, collocandosi ancora poco sopra la media europea.


Domenica dunque, a urne chiuse, l’Italia potrebbe finire per la prima volta sotto la media Ue e trovarsi drammaticamente vicina a una soglia di astensione del 50%. Va detto che in Italia la tendenza all’astensionismo mostra dati più allarmanti alle europee rispetto che alle elezioni politiche (il 36,1% di astenuti nel 2022), segno che la Ue viene percepita come entità più distante. A ben guardare però, le differenze tra i due appuntamenti elettorali scompaiono se si prendono in esame i parametri socioeconomici dei territori più colpiti dall’astensione. Secondo una ricerca Edjnet-Sole 24 ore, sia alle politiche che alle europee i Comuni italiani che hanno registrato maggiore astensionismo hanno in media un indice di vecchiaia più elevato rispetto alla media nazionale e un rapporto di sostanziale parità tra cittadini in età non attiva e quelli in età attiva. Scende anche l’incidenza di laureati (fino a sotto il 30%, contro la media del 36%) e raddoppia l’analfabetismo (da 0,6% a 1,2%). Ma è soprattutto nel confronto sul piano economico che si svelano le radici dell’astensionismo: a fronte di una disoccupazione media nazionale dell’8,8%, nei Comuni più “astensionisti” il tasso supera il 13% e il reddito dichiarato risulta più basso del 23% rispetto alla media nazionale.Si tratta di evidenze che combaciano con una recente analisi del Censis, secondo la quale la ridotta partecipazione elettorale e la scarsa fiducia nelle istituzioni europee sono legate, a livello continentale, al lungo ciclo del “declassamento sociale sperimentato negli ultimi quindici anni da un cittadino europeo su tre: oltre 150 milioni di cittadini – sottolinea il Rapporto sullo stato dell’Unione – che hanno visto ridursi i propri livelli reddituali, che vivono in province periferiche rispetto agli assi produttivi dell’Europa e che a causa di questo inesorabile scivolamento manifestano di conseguenza il profondo malessere dei perdenti, che li porta ad allontanarsi anche dal cuore politico europeo”. Un identikit che, nel caso italiano, sembra coincidere quasi perfettamente con i parametri socioeconomici del Sud. Lo conferma indirettamente, in una recente intervista a Repubblica, il politologo della Luiss Roberto D’Alimonte, secondo il quale “nel 2019 la differenza” in termini di votanti “tra le regioni del Centro Nord e quelle del Centro Sud fu di 17 punti e stavolta la forbice potrebbe allargarsi” ulteriormente. In questo quadro è inevitabile che l’astensionismo faccia più paura a quei partiti che sono forti al Sud, in primis il M5s, visto che, prosegue D’Alimonte, “in proporzione al totale i voti meridionali rappresentano per il Movimento il 65%; il 49 per Forza Italia, il 35 per Fratelli d’Italia, il 34 per il Pd”. Se tra sabato e domenica andrà a votare solo un elettore italiano su due si porrà un problema politico per tutti partiti, perché, come ha scritto il il Censis, “saremo di fronte a qualcosa che può insidiare gli stessi meccanismi di funzionamento delle democrazie liberali” e poi perché tutti i partiti si troveranno davanti a una metà del paese – ha notato Lina Palmerini sul Sole 24 Ore – che non si sente rappresentata né dalle forze di governo né da quelli di opposizione. Ma forse, paradossalmente, potrebbe aprirsi un problema in più per quelle forze politiche più populiste, che hanno cavalcato il malcontento delle persone finite ai margini – che in Italia si trovano soprattutto al Sud – e che non saranno riuscite a convincerle a recarsi ai seggi. (di Massimo Santucci)

Bari, campo largo diviso: le destre sperano (…ma non troppo…)

Bari, campo largo diviso: le destre sperano (…ma non troppo…)Bari, 8 giu. (askanews) – Alla fine è sceso in campo Maurizio Gasparri: il presidente dei senatori di Forza Italia ha provato a rilanciare sulle inchieste giudiziarie che hanno terremotato Bari e la Regione Puglia, investendo prevalentemente l’area delle liste civiche di centrosinistra vicine al sindaco uscente Antonio Decaro e al “governatore” Michele Emiliano. Il capogruppo azzurro ha invocato “una attenzione più approfondita da parte della magistratura” sui due amministratori pugliesi e si è spinto fino a prevedere “decisioni drastiche che appaiono inevitabili” da parte della commissione d’accesso insediata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e che dovrà valutare se proporre al Governo di sciogliere per mafia il Comune capoluogo della Regione.


Un “fallo di reazione” dopo che lo stesso Decaro, nel comizio con la segretaria del Pd Elly Schlein e il candidato sindaco dem Vito Leccese, aveva accusato gli esponenti delle destre di essere “come la mafia, senza coraggio” perché non avrebbero il fegato di spiegare ai baresi che la loro città è mafiosa. “Sapevamo dal primo momento che l’istituzione della commissione di accesso era una decisione politicizzata, ma nonostante questo il centrodestra a Bari perderà di nuovo”, è stata la secca replica di Leccese a Gasparri. A Bari, da vent’anni governata dal centrosinistra (la Regione da diciannove) i candidati sindaci sono formalmente cinque, ma secondo i sondaggi dei mesi scorsi solo tre sono realmente in corsa: Leccese, negli ultimi decenni braccio destro con incarichi dirigenziali tanto dell’allora sindaco Emiliano quanto di Decaro, il suo rivale “civico” di centrosinistra Michele Laforgia e il consigliere regionale leghista Fabio Romito. Poche speranze di successo per gli “alternativi” Michele Sciacovelli e Sabino Mangano. Matteo Salvini, a Bari qualche giorno fa per un comizio elettorale, ha lanciato un appello a fare “l’ultimo sforzo” per consentire al suo collega di partito di arrivare al ballottaggio “al primo posto”: segno che, nonostante la martellante campagna di Romito sulla “sicurezza urbana” e sulla necessità di una “nuova stagione” dopo vent’anni di centrosinistra, tutto sommato nessuno, nell’area della maggioranza che a Roma sorregge il governo nazionale, coltiva sogni di gloria per il primo turno in programma sabato e domenica. Si punta piuttosto alla speranza che nel ballottaggio prevalgano le divisioni a sinistra.


La città adriatica, in effetti, ha rappresentato in questa tornata delle elezioni amministrative uno dei punti di crisi del “campo largo” e dei rapporti fra il Movimento 5 stelle, che sostiene Laforgia insieme a Sinistra italiana, e il Pd che sta con Leccese, con tutto il peso del sempre popolarissimo sindaco uscente, ora in corsa per le europee (c’è perfino una lista che si chiama Decaro per Bari, a testimonianza del valore del brand). Fu proprio il leader del M5S Giuseppe Conte, in una sfida aperta al Nazareno, ad appoggiare Laforgia nel “no” in extremis alle primarie di centrosinistra del 7 aprile scorso, dopo che le inchieste giudiziarie avevano acceso un faro su pratiche opache di voti comprati e venduti da parte di alcune forze civiche che sarebbero state coinvolte nella consultazione. Anzi, per i suoi rivali/alleati democratici la decisione l’avrebbe addirittura presa lui, anche se non è un segreto che negli ambienti vicini a Laforgia la decisione di svolgere le primarie fosse stata più subita che gradita. E in effetti è proprio lo scontro fra i due sfidanti più o meno “di sinistra” l’incognita più rilevante del voto barese. I due hanno sparato le ultima cartucce di campagna elettorale, promettendo l’uno (Leccese) un “sindaco della notte” per risolvere i problemi della movida, molto sentiti dopo la trasformazione turistica che il capoluogo pugliese ha vissuto in questi anni, l’altro (Laforgia) un “reddito minimo comunale” per sostenere quattromila nuclei familiari in difficoltà; e anche la rinuncia, molto in stile M5S, all’aumento di stipendio recentemente conquistato dai sindaci di tutta Italia. Benché Laforgia e Leccese, dopo la rottura di aprile, si siano promessi reciproco sostegno in un eventuale ballottaggio contro il candidato delle destre, nelle ultime giornate di campagna elettorale non sono mancati gli scontri anche feroci fra i due. In particolare quando Laforgia, chiedendo agli elettori di puntare su un profondo rinnovamento e al centrosinistra di cambiare metodo nelle nomine pubbliche, ha ricordato la presenza in città della “commissione d’accesso” ministeriale; una “minaccia” secondo Leccese, che ha parlato di “manganello”, paragonando Laforgia a Gasparri. Una presa di distanze, dice un osservatore di grande esperienza che appartiene al campo di Laforgia, forse mirata a evitare negoziati sulle poltrone in caso di ballottaggio: meglio incassare il sostegno “naturale” degli elettori che dover fare i conti con i costi di un apparentamento formale.


Quasi a confermare il clima tutt’altro che idilliaco fra le due ali di una possibile alleanza al secondo turno, nel corso di un confronto organizzato dalle testate locali Gazzetta del Mezzogiorno e Telebari, a tutti i candidati per la poltrona di primo cittadino è stato chiesto a chi consegnerebbero un attestato di stima fra gli esponenti, locali o nazionali “dello schieramento avverso”. Laforgia è uscito dall’ambito strettamente politico scegliendo un “intellettuale” come Pietrangelo Buttafuoco. Il leghista Romito ha sorpreso tutti citando l’ex presidente pugliese Nichi Vendola (attualmente presidente di Sinistra italiana e primo sponsor di Laforgia). Gelo in sala e plateali gesti di sconforto da parte dello stesso Laforgia quando Leccese ha citato proprio il suo rivale di sinistra come stimato esponente “dello schieramento avverso”. “Beh, per adesso…”, ha corretto il tiro il candidato del Pd. La parola agli elettori, e poi, se le urne andranno secondo le previsioni e sarà necessario un ballottaggio per scegliere l’erede di Decaro, la parola dovrà necessariamente passare a sarti abili per ricucire i troppi strappi nella tela della possibile alleanza.

Al voto con proporzionale e preferenze,in campo leader e ancora Berlusconi

Al voto con proporzionale e preferenze,in campo leader e ancora BerlusconiRoma, 8 giu. (askanews) – A due anni e nove mesi dalle elezioni politiche che hanno visto la consacrazione di Giorgia Meloni, i partiti italiani tornano a sfidarsi in una competizione elettorale nazionale per scegliere i 76 rappresentanti del nostro paese nel Parlamento europeo ma che, come in passato, anche questa volta si è puntualmente trasformata in un test interno. Una sorta di sondaggio di mid-term per il governo in carica e per la popolarissima presidente del Consiglio, la prima occasione per Elly Schlein di misurarsi nella veste di segretaria del Pd, il redde rationem per (ri) stabilire i rapporti di forza all’interno delle coalizioni.


Due i fattori che contribuiscono a fare delle elezioni di oggi e domani il momento ideale per i leader e per le forze politiche per controllare il proprio gradimento: innanzitutto la peculiarità tutta italiana di diversi capi di partito di candidarsi per un seggio che non andranno mai ad occupare e poi il sistema proporzionale puro con soglia di sbarramento del 4% e possibilità di voto di preferenza. Un tutti contro tutti che intensifica soprattutto lo scontro tra alleati dello stesso schieramento. Sulle “finte” candidature, questo potrebbe essere davvero l’anno dei record. Non solo perché ci sono ben quattro leader in campo pronti a rinunciare al seggio europeo un minuto dopo l’elezione: Meloni candidata capolista di Fdi in tutte le circoscrizioni, Schlein per il Pd al Centro e nelle Isole, Carlo Calenda per Azione e Antonio Tajani per Fi. (Ci sarebbe anche Matteo Renzi: il leader di Italia Viva tuttavia assicura che, se eletto, si dimetterà da senatore per trasferirsi a Strasburgo). Ma anche perché gli italiani avranno la possibilità di votare addirittura il defunto Silvio Berlusconi. “Abbiamo preparato un vademecum per i nostri rappresentanti di lista: qualora un elettore barrasse il simbolo di Fi e scrivesse Berlusconi il voto sarebbe valido ma non la preferenza”, ha spiegato Tajani in prima persona in un’intervista.


Ma come si vota? Il sistema dicevamo è un proporzionale con soglia di sbarramento del 4% e possibilità di voto di preferenza. I seggi sono assegnati nel collegio unico nazionale alle liste concorrenti presentate nell’ambito di 5 circoscrizioni: Italia nord ovest dove si eleggono 20 europarlamentari, Italia Nord Est cui ne spettano 15 così come all’Italia centrale, l’Italia meridionale dove si eleggono 18 rappresentanti e l’Italia insulare (Sardegna e Sicilia) che ne elegge 8. In totale gli europarlamentari italiani sono 76, un numero invariato in una plenaria che invece conterà per la prima volta un totale di 720 seggi: proprio recentemente il Consiglio europeo infatti ha innalzato il numero dei seggi del Parlamento europeo per la legislatura 2024-2029 da 705 a 720 alla luce dei cambiamenti demografici negli Stati membri dell’UE. Il diritto di voto è esercitato dai cittadini con almeno 18 anni. Sono 51,7 milioni gli italiani chiamati al voto sabato e domenica. Per la prima volta e solo per le elezioni europee di quest’anno gli studenti “fuori sede” potranno votare per le liste e i candidati della propria circoscrizione territoriale di origine, senza la necessità di rientrare nel comune di residenza. La nuova modalità di voto, introdotta in forma sperimentale dal decreto elezioni, interesserà 23.734 tra ragazzi e ragazze che hanno avanzato regolare istanza nel termine previsto del 5 maggio scorso.


Per candidarsi al Parlamento europeo l’età minima è di 25 anni. Un candidato può presentarsi in più circoscrizioni. La scheda elettorale è unica, si vota per una delle liste e si possono esprimere da una a tre preferenze. Nel caso di espressione di due o tre preferenze, queste devono riguardare candidati di sesso diverso. Una regola dell’alternanza introdotta con una legge del 2014 per rafforzare la rappresentanza di genere femminile ma che tuttavia rischia di essere depotenziata dalla decisione di Meloni e Schlein di candidarsi: da un lato i nomi delle due leader sicuramente attrarranno voti per i rispettivi partiti, dall’altro rischiano di farlo a scapito di altre donne in lista e dunque della rappresentanza femminile visto che né Meloni né Schlein andranno all’Europarlamento. Come già accaduto nel 2004 e nel 2009, si vota nelle giornata odierna di sabato (dalle 15 alle 23) e domenica (dalle 7 alle 23) anziché di domenica e lunedì. Succede perché la direttiva Ue prevede per le elezioni europee la fine delle operazioni entro domenica 9 giugno. Nelle stesse due giornate andranno al voto 3.715 Comuni italiani, di cui 6 capoluoghi di regione (Bari, Firenze, Campobasso, Cagliari, Perugia e Potenza). E la Regione Piemonte per eleggere il suo Presidente.


Nei Comuni con più di 15mila abitanti è possibile il voto disgiunto, è possibile cioè votare un candidato sindaco e una lista non collegata a lui, e si viene eletti al primo turno solo con il 50% + 1 dei voti. In mancanza della maggioranza assoluta è previsto il ballottaggio dopo due settimane fra i due aspiranti sindaci che hanno ottenuto più voti. Nei comuni con meno di 15mila abitanti non è previsto il voto disgiunto ed è eletto sindaco chi al primo turno prende più voti. Nei casi in cui c’è in corsa un solo candidato, risulterà eletto solo se almeno il 40% della popolazione avrà votato e se avrà ottenuto almeno la metà dei voti validi. Dal 2024 i sindaci dei comuni con meno di 15mila abitanti possono essere rieletti per un terzo mandato mentre quelli dei comuni con meno di 5mila abitanti non hanno più limiti di mandati. Anche alle elezioni comunali è previsto il voto di preferenza (due al massimo) con il rispetto dell’alternanza di genere. Lo spoglio per le elezioni europee inizia domenica alle 23. Per Comunali e Regione Piemonte lo spoglio comincia lunedì alle 14. Sabato l’affluenza sarà resa nota a fine giornata. Domenica viene rilevata alle 12 alle 19 e a chiusura seggi, prima di iniziare il conteggio

Astensionismo convitato di pietra elezioni, brividi ai partiti

Astensionismo convitato di pietra elezioni, brividi ai partitiRoma, 8 giu. (askanews) – Lo spettro dell’astensionismo si aggira un po’ per tutta Europa, impegnata nella decima tornata elettorale della sua storia. Ma incombe in particolar modo sull’Italia, che dall’euro-entusiasmo delle prime elezioni per il Parlamento europeo potrebbe stavolta veder scendere la partecipazione nazionale intorno al 50% e trovarsi sotto alla media Ue.


Nel corso dei decenni l’affluenza media europea per il rinnovo del parlamento dell’Unione ha subìto un calo quasi costante, passando dal 62% del primo voto nel 1979 al poco più del 50% nell’ultima tornata del 2019. Andando a guardare la serie storica (ai 6 paesi fondatori della Ue nel 1958, e agli altri 3 entrati nel 1973, si sono uniti nel frattempo altri 19 paesi), si nota che dopo il 61,9% del 1979, l’affluenza media europea nel 1984 è calata infatti al 58,9%, nel 1989 è scesa al 58,4% e nel 1994 al 56,6%. Nel 1999 poi, è calata drasticamente al 49,5%, nel 2004 al 45,4%, nel 2009 al 42,9%, e nel 2014, dato più basso di sempre, al 42,6%. Poi c’è stato un buon rimbalzo nel 2019, quando è risalita al 50,6%. Come sarà l’affluenza a livello continentale quest’anno, quando domenica sera si chiuderanno le urne? Difficile fare previsioni, sia perché l’uscita nel 2020 del Regno Unito (che alle Europee ha sempre avuto percentuali altissime di astensione), potrebbe condizionare al rialzo il dato, sia perché molto dipende dalle dinamiche interne a ciascun Paese. Secondo una ricerca della Fondazione Bertelsmann, l’affluenza media continuerà la ripresa registrata nel 2019, soprattutto nei Paesi del Nord. Quasi certamente invece, l’Italia sarà in controtendenza. Da noi il calo della partecipazione nelle elezioni Ue ha mostrato un andamento altrettanto calante, ma più marcato che nel resto d’Europa, seppure “viziato” da percentuali iniziali di partecipazione più alte. Nel primo voto del 1979 l’affluenza italiana è stata dell’85,6%; nel 1984 è calata all’82,4% e nel 1989 all’81%. Nel 1994 si è registrato un brusco calo, al 73,6%, e nel 1999 al 69,7%. Nel 2004 l’affluenza è risalita al 71,7% ma già nel 2009 è ripresa a calare attestandosi al 66,4%. Nel 2014 poi, è stata del 57,2% e nel 2019 del 54,5%, collocandosi ancora poco sopra la media europea.


Domenica dunque, a urne chiuse, l’Italia potrebbe finire per la prima volta sotto la media Ue e trovarsi drammaticamente vicina a una soglia di astensione del 50%. Va detto che in Italia la tendenza all’astensionismo mostra dati più allarmanti alle europee rispetto che alle elezioni politiche (il 36,1% di astenuti nel 2022), segno che la Ue viene percepita come entità più distante. A ben guardare però, le differenze tra i due appuntamenti elettorali scompaiono se si prendono in esame i parametri socioeconomici dei territori più colpiti dall’astensione. Secondo una ricerca Edjnet-Sole 24 ore, sia alle politiche che alle europee i Comuni italiani che hanno registrato maggiore astensionismo hanno in media un indice di vecchiaia più elevato rispetto alla media nazionale e un rapporto di sostanziale parità tra cittadini in età non attiva e quelli in età attiva. Scende anche l’incidenza di laureati (fino a sotto il 30%, contro la media del 36%) e raddoppia l’analfabetismo (da 0,6% a 1,2%). Ma è soprattutto nel confronto sul piano economico che si svelano le radici dell’astensionismo: a fronte di una disoccupazione media nazionale dell’8,8%, nei Comuni più “astensionisti” il tasso supera il 13% e il reddito dichiarato risulta più basso del 23% rispetto alla media nazionale. Si tratta di evidenze che combaciano con una recente analisi del Censis, secondo la quale la ridotta partecipazione elettorale e la scarsa fiducia nelle istituzioni europee sono legate, a livello continentale, al lungo ciclo del “declassamento sociale sperimentato negli ultimi quindici anni da un cittadino europeo su tre: oltre 150 milioni di cittadini – sottolinea il Rapporto sullo stato dell’Unione – che hanno visto ridursi i propri livelli reddituali, che vivono in province periferiche rispetto agli assi produttivi dell’Europa e che a causa di questo inesorabile scivolamento manifestano di conseguenza il profondo malessere dei perdenti, che li porta ad allontanarsi anche dal cuore politico europeo”. Un identikit che, nel caso italiano, sembra coincidere quasi perfettamente con i parametri socioeconomici del Sud.


Lo conferma indirettamente, in una recente intervista a Repubblica, il politologo della Luiss Roberto D’Alimonte, secondo il quale “nel 2019 la differenza” in termini di votanti “tra le regioni del Centro Nord e quelle del Centro Sud fu di 17 punti e stavolta la forbice potrebbe allargarsi” ulteriormente. In questo quadro è inevitabile che l’astensionismo faccia più paura a quei partiti che sono forti al Sud, in primis il M5s, visto che, prosegue D’Alimonte, “in proporzione al totale i voti meridionali rappresentano per il Movimento il 65%; il 49 per Forza Italia, il 35 per Fratelli d’Italia, il 34 per il Pd”. Se tra sabato e domenica andrà a votare solo un elettore italiano su due si porrà un problema politico per tutti partiti, perché, come ha scritto il il Censis, “saremo di fronte a qualcosa che può insidiare gli stessi meccanismi di funzionamento delle democrazie liberali” e poi perché tutti i partiti si troveranno davanti a una metà del paese – ha notato Lina Palmerini sul Sole 24 Ore – che non si sente rappresentata né dalle forze di governo né da quelli di opposizione. Ma forse, paradossalmente, potrebbe aprirsi un problema in più per quelle forze politiche più populiste, che hanno cavalcato il malcontento delle persone finite ai margini – che in Italia si trovano soprattutto al Sud – e che non saranno riuscite a convincerle a recarsi ai seggi.

La doppia sfida di Tajani: Fi al 10% e sorpasso sulla Lega

La doppia sfida di Tajani: Fi al 10% e sorpasso sulla LegaRoma, 8 giu. (askanews) – C’è un primo obiettivo, dichiarato più e più volte. E ce n’è un secondo, coltivato da mesi ma pubblicamente sempre negato. In base a quale traguardo sarà raggiunto – se sarà raggiunto – sarà possibile valutare l’esito di queste elezioni Europee per Forza Italia e, in particolare, per Antonio Tajani. E non soltanto per la sua decisione di candidarsi come capolista in quattro circoscrizioni su cinque, scelta che inevitabilmente lo rende un partecipante di diritto al grande gioco delle preferenze (al quale ha invece scelto di sottrarsi Matteo Salvini).


Ma soprattutto perché è stato proprio lui, mentre gli altri tendono scaramanticamente ad abbassarla, a fissare per il partito una asticella alquanto ambiziosa: il 10%. E lo ha fatto in tempi non sospetti: ottobre del 2023, a Paestum si celebra il Berlusconi day, la prima di molte manifestazioni a metà tra il ricordo del fondatore scomparso dopo 30 anni di monarchia assoluta e il tentativo di guardare avanti. In quella fase, a meno di quattro mesi dalla morte del Cavaliere, Forza Italia sembrava nettamente più vicina a scomparire che a sopravvivere, decisamente lontana da un risultato a doppia cifra come quello fissato dal ministro degli Esteri nel suo intervento dal palco. Sarebbe un risultato superiore sia alle precedenti Europee, in cui Forza Italia prese l’8,8%, sia rispetto alle Politiche (8,3%). Nel frattempo, Antonio Tajani è stato eletto ufficialmente come segretario e ha creato una linea di comando che, dai capigruppo in giù, è a sua immagine e somiglianza. Il dissenso interno è stato sopito e la tregua al momento regge. D’altra parte, è più facile dirsi ‘volemose bene’ quando la ruota della fortuna gira a favore.


Insomma, da quel giorno di giugno dello scorso anno in cui ha assunto la reggenza, Antonio Tajani ha già vinto la sua prima scommessa. Le Europee hanno smesso di essere lo spartiacque tra la vita e la morte del partito e sono diventate addirittura l’occasione per sperare di raggiungere quel famoso secondo obiettivo, ossia il sorpasso sulla Lega di Matteo Salvini. Non è detto che il colpaccio riesca, ma piccoli segnali qui e lì hanno dimostrato che ipotizzarlo non è nemmeno lunare. In particolare, le tre elezioni regionali che si sono tenute in Sardegna, Abruzzo e Basilicata in cui il partito azzurro ha sempre ottenuto consensi superiori a quelli dei leghisti.


Tajani ha costantemente negato che ci fosse una competizione interna alla coalizione e anzi ha ripetuto a più riprese che l’obiettivo era raggranellare voti nella vasta area “tra Meloni e Schlein”. Ma la sfida è nei fatti, come dimostra anche l’arruolamento di ex leghisti nelle file azzurre (come Cota o Reguzzoni) per non dire dei consiglieri sottratti, per esempio, in Regione Lazio. Lo stesso vale per la narrazione, che all’avvicinarsi della scadenza elettorale si è trasformata in un continuo controcanto tra i due vice premier. Salvini dice che ci vuole meno Europa, Tajani sottolinea l’europeismo e l’atlantismo di Forza Italia. Il leader della Lega critica le parole del Quirinale in occasione del 2 giugno, e il ministro degli Esteri gli offre pubblica solidarietà. Matteo si affida all’estermista Vannacci, Antonio sceglie come slogan “Una forza rassicurante”. Il Carroccio può sbandierare l’Autonomia, e gli azzurri ottengono in extremis il varo in Consiglio dei ministri della tanto cara separazione delle carriere. Ma c’è soprattutto la distanza rimarcata tra le due famiglie politiche europee di riferimento. L’appartenenza di Forza Italia al Partito popolare è uno dei pezzi forti dello story telling del segretario azzurro, anche perché con ogni probabilità si confermerà ancora una volta come il primo in Ue. Infatti mai, in queste settimane, Tajani ha mancato di sottolineare la differenza con le formazioni che fanno parte di Identità e democrazia, il gruppo a cui appartiene la Lega. Era vero a maggior ragione nei confronti dei cripto nazisti di Afd prima che fossero espulsi, ma lo è ancora adesso verso Marin Le Pen nonostante attualmente la leader del Rassemblement national abbia cominciato a scavalcare il cordone sanitario retto a Bruxelles intorno alle destre estreme per avviare una interlocuzione anche con i Conservatori e con Giorgia Meloni.


Per il resto, la campagna elettorale di Forza Italia è in buona parte un richiamo al passato. Nei manifesti e nel simbolo, Silvio Berlusconi c’è ancora, al punto che per conquistare i più nostalgici è stato suggerito di scriverne persino il nome sulla scheda: la preferenza ovviamente non ha valore ma è pur sempre un voto a vantaggio della lista. Come dire, non si butta niente. D’altra parte, la competizione con la Lega potrebbe giocarsi anche sul filo dei decimali. Se Berlusconi c’è ancora, almeno in spirito, in carne e contanti ci sono ancora i Berlusconi, soprattutto Pier Silvio e Marina che continuano a sovvenzionare il partito come il resto della famiglia pur svolgendo un ruolo di affettuosa sorveglianza. Almeno per ora.

Meloni attende esito stress test Governo,nodi squadra e Toti dopo G7

Meloni attende esito stress test Governo,nodi squadra e Toti dopo G7Roma, 8 giu. (askanews) – Giorgia Meloni ha definito il voto un “referendum” su due idee di Europa ma il modo in cui ha interpretato la campagna elettorale fa pensare a una tornata vissuta anche come una consultazione su di lei, a poco più di un anno e mezzo dal suo arrivo a Palazzo Chigi.


Dopo qualche tentennamento iniziale, la leader Fdi ha deciso di correre in prima persona e anche se ripete di aver fatto “solo una manifestazione elettorale”, quella di sabato primo gennaio, non si è risparmiata. Nell’ultimo mese ha moltiplicato le apparizioni televisive, i messaggi social e accelerato alcuni dossier: tra gli altri l’inaugurazione del nuovo centro sportivo di Caivano (con la ‘trovata’ del saluto a Vincenzo De Luca); il decreto per il taglio delle liste di attesa della sanità; il viaggio in Albania per il completamento dell’hotspot di Shenjin, che però per essere attivo dovrà attendere il completamento del Cpr di Gjader. Uno “spot elettorale”, per l’opposizione, a cui lei ha replicato che “non posso sospendere l’attività di governo”. Polemiche a parte, Meloni (che sulla scheda ha chiesto di votare semplicemente “Giorgia”) ha più volte sottolineato la necessità, per lei, di sentire il sostegno dei suoi elettori, di confermare il “consenso” che l’ha portata a Palazzo Chigi. La soglia minima che ha dichiarato, quella del 26% conquistata alle politiche 2022, appare alla portata, l’obiettivo è comunque mostrare che nonostante la necessità di governare in un momento complesso e con scarse risorse la sua leadership non è stata intaccata, non ha perso terreno, né nei confronti degli avversari (con un Pd dato in ripresa) né, soprattutto, degli alleati. In questo senso la campagna elettorale ‘aggressiva’ di Matteo Salvini e della Lega ha creato qualche nervosismo (ultimo caso l’attacco al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il 2 giugno), così come l’ha fatta arrabbiare lo ‘scivolone’ sul redditometro del fedelissimo Maurizio Leo.


Domani sera si vedrà come è andata e si capirà se ci saranno riflessi sul governo, anche in virtù del risultato di Lega (con Salvini che ha scommesso sul fattore Vannacci, anche contro molti ‘senatori’ del partito) e di Forza Italia. Fonti di governo ritengono “improbabile” – comunque vada – che ci possano essere ripercussioni immediate: la prossima settimana, a Borgo Egnazia, è in programma il summit G7 e tutti i riflettori saranno puntati su di lei, la terza donna a presiederlo dopo Margaret Thatcher e Angela Merkel. Poi Meloni volerà subito in Svizzera per la conferenza di pace sull’Ucraina, e quindi a Bruxelles, per la cena dei leader che avrà al centro la trattativa sui ‘top jobs’ della nuova legislatura europea. Un dossier che non sarà facile per la presidente del Consiglio, che ha sempre ripetuto, in campagna elettorale, di puntare a una maggioranza di centrodestra a Bruxelles. I sondaggi, però, sembrano tutti concordare per uno scenario che porti a una nuova maggioranza Ursula, forse però senza la stessa von der Leyen alla guida della Commissione. In questo caso la premier – che dovrebbe anche lasciare la guida di Ecr – dovrà decidere come schierarsi. Pochi giorni e, a fine mese, sarà di nuovo a Bruxelles per il primo Consiglio europeo dopo il voto. Anche l’agenda di luglio è già piena di impegni internazionali: il vertice Nato a Washington, la riunione della Comunità politica europea vicino a Oxford, probabilmente il viaggio a Pechino a fine mese. Un tour de force che, in qualche modo, dovrebbe avere l’effetto di ‘congelare’ la situazione dell’esecutivo da qua alle ferie estive. A settembre, però, potrebbe partire il rimpasto, a maggior ragione se un ministro dovesse essere ‘promosso’ a commissario europeo (Giancarlo Giorgetti ne sarebbe felice, anche Francesco Lollobrigida ci spererebbe, Antonio Tajani può essere una carta mentre Raffaele Fitto è considerato ‘incedibile’) o se ci dovessero essere sviluppi nella vicenda giudiziaria di Daniela Santanchè. In quel caso sarà però un lavoro molto complesso: toccare l’assetto del governo significherebbe infatti modificare un equilibrio delicato, soprattutto alla vigilia di una manovra di bilancio che tra ristrettezze economiche e nuovi parametri europei sarà un passaggio da far tremare i polsi.


Un problema che però non potrà essere rimandato è quello della Regione Liguria. Meloni ha evitato accuratamente di essere tirata dentro la partita, affermando che spetta al governatore Giovanni Toti – in custodia cautelare ai domiciliari – decidere se dimettersi. Ma difficilmente la linea dell’attesa potrà andare avanti ancora a lungo e non sarà semplice gestirla evitando frizioni dentro il centrodestra.

Al voto per 3.708 Sindaci, riflettori su Firenze Bari e Cagliari

Al voto per 3.708 Sindaci, riflettori su Firenze Bari e CagliariRoma, 8 giu. (askanews) – Non solo elezioni europee: in 3.708 comuni, quasi 17 milioni di elettori (16.798.420) sono chiamati a scegliere un nuovo sindaco e circa 42.900 consiglieri comunali. Si voterà anche in sei città capoluogo di regione, Campobasso, Perugia, Potenza, Bari, Cagliari e Firenze. Queste ultime tre sono anche Città Metropolitane. Il comune più grande che andrà al voto è Firenze, con 361.619 abitanti, quello più piccolo è Pedesina, in provincia di Sondrio con 35 anime. Altri 12 comuni che rinnoveranno sindaco e consigli superano i 100mila abitanti: Bari, Prato, Modena, Reggio Emilia, Perugia, Livorno, Cagliari, Ferrara, Sassari, Bergamo, Pescara e Forli’.


I comuni di nuova istituzione che andranno per la prima volta al voto sono quattro: Uggiate con Ronago in provincia di Como, Setteville in provincia di Belluno, Santa Caterina d’Este in provincia di Padova e Sovizzo in provincia di Vicenza. La Lombardia è la regione con il maggior numero di comuni al voto, 961, seguita dal Piemonte con 801. La regione con meno comuni chiamati alle urne è la Sardegna con 27, una delle tre regioni a statuto speciale con il Friuli Venezia Giulia, e la Sicilia. In Valle d’Aosta si voterà solo per rinnovare il Parlamento Ue, mentre per il Trentino Alto Adige si aggiunge Rovereto con il turno di ballottaggio delle comunali, tra Giulia Robol, sostenuta dal centrosinistra e Giampiero Lui, candidato per il centrodestra, senza FdI.


Anche se l’attenzione sarà tutta concentrata sulle elezioni europee, il risultato delle urne delle sei città capoluogo di regione non lascerà indifferenti i leader dei partiti nazionali. Vediamo nel dettaglio la situazione. BARI: per il dopo Antonio Decaro, il centrosinistra non ha trovato la quadra su un candidato unitario e così per la corsa allo scranno più alto di Palazzo di Città ci sono Michele Laforgia, candidato M5s, sostenuto da sei liste e Vito Leccese, indicato dal Pd, appoggiato da Verdi e Azione assieme a otto liste civiche, tra cui Decaro per il sindaco, che corre solo per i Municipi. Il centrodestra invece arriva compatto e punta su Fabio Romito, scelto dai partiti di governo Fratelli d’Italia, Forza Italia, Noi moderati, Udc-Prima l’Italia e alcune altre liste civiche. Ci sono poi Sabino Mangano, ex M5s ed ex consigliere comunale con la sola lista Oltre e Nicola Sciacovelli, anche lui ex consigliere comunale, sostenuto dalle liste Sciacovelli sindaco-Ci piace! e Noi per Bari-Italexit per l’Italia per Sciacovelli sindaco.


CAGLIARI: Zedda contro Zedda. E’ derby (dei nomi) a Cagliari per la carica di sindaco. Alessandra Zedda, per il centrodestra, e Massimo Zedda, per il campo largo del centrosinistra, sono i candidati (non parenti) più accreditati a succedere a Paolo Truzzu di FdI, che ha lasciato Palazzo Civico per la Regione Sardegna. Alessandra Zedda, ex presidente della Giunta regionale sarda, passata da Forza Italia alla Lega è sostenuta da FdI, Lega, FI e altre quattro liste civiche. Massimo Zedda, ex sindaco di Cagliari dal 2011 al 2019, è il candidato dello stesso campo ‘larghissimo’ (10 liste) di centrosinistra che ha portato Alessandra Todde a vincere le regionali. Ci sono poi tre candidati indipendenti: Giuseppe Farris (Movimento CiviCA 2024), Emanuela Corda, ex M5s, (Alternativa), Claudia Ortu (Potere al Popolo e Pci). CAMPOBASSO: il centrodestra, dopo aver conquistato, nel giugno dello scorso anno, la Regione Molise grazie a Francesco Roberti, ora punta anche al comune di Campobasso con Aldo De Benedittis, ex assessore al Bilancio, sostenuto da sei liste: Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Popolari per l’Italia, Noi moderati e Udc. La decisione dei vertici del M5s di non concedere una deroga alla sindaca uscente, Paola Felice, al secondo mandato, ha portato la coalizione di centrosinistra a scommettere su Marialuisa Forte, appoggiata dai Pentastellati, Pd e Alleanza Verdi-Sinistra. Per la corsa a Palazzo San Giorgio c’è anche Pino Ruta, candidato sindaco di tre liste: Costruire democrazia, Unica terra Molise e Confederazione civica.


FIRENZE: il centrosinistra non è stato capace di trovare una sintesi per il dopo Nardella e così, per la poltrona di sindaco a Palazzo Vecchio, ai nastri di partenza arriva frastagliato con diversi candidati: il Pd, con Sinistra Italiana, +Europa, Azione, Europa Verde, Movimento Laburista, Volt e Movimento Centro, ha scelto Sara Funaro, ex assessore all’Educazione. Matteo Renzi con Italia viva ha messo in campo l’ex vicepresidente regionale, Stefania Saccardi. M5s ha deciso di puntare su Lorenzo Masi, consigliere comunale uscente. Ci sono poi Cecilia Del Re, ex assessore della giunta Nardella, con la lista Firenze Democratica, Dmitrij Palagi, supportato da Rifondazione comunista, Possibile e Potere al Popolo. Tutt’atro discorso nel centrodestra che, grazie ad una decisione unitaria, ha tirato fuori dal cilindro l’ex direttore degli Uffizi, il tedesco, Eike Schmidt, oggi alla guida del Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli. In corsa per la carica di sindaco di Firenze ci sono anche Andrea Asciuti sostenuto dal Movimento Indipendenza di Gianni Alemanno e dal Popolo della Famiglia, Alessandro De Giuli con Firenze Rinasce, Francesco Zini, con Firenze Cambia e Francesca Marrazza, con Ribella Firenze. PERUGIA: il centrodestra schiera Margherita Scoccia (FdI) per continuare a guidare il comune di Perugia, dopo i 10 anni targati Andrea Romizi. Scoccia, attuale assessora all’Urbanistica, è sostenuta da otto liste tra cui Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. A sinistra un campo largo scommette su Vittoria Ferdinandi, psicologa clinica, nel 2021 nominata Cavaliere al merito della Repubblica per il suo impegno a favore delle persone con disturbi mentali. Ferdinadi è appoggiata da sette liste tra cui Pd, M5s, Avs e Azione. In corsa per la carica di sindaco ci sono anche Massimo Monni (Perugia Merita), l’ex senatore Leonardo Caponi (Pci), e l’ex calciatore del Perugia e della Juventus, Davide Baiocco (Forza Perugia, Alternativa Riformista – Italexit). POTENZA: squadra che vince non si cambia. E così il centrodestra per le comunali a Potenza si ripresenta con lo stesso campo allargato, ad Azione e Italia viva, che ha portato al bis di Vito Bardi alla presidenza della Regione. Per la corsa a sindaco, la coalizione di centrodestra propone Francesco Fanelli, esponente della Lega, ex vicepresidente della giunta regionale uscente. Discorso diverso nel centrosinistra, che non avendo raggiunto un’intesa, si presenta frastagliato e senza il simbolo del Pd sulla scheda elettorale: c’è Francesco Giuzio, ex consigliere comunale, appoggiato dalla lista Basilicata Possibile; c’è Pierluigi Smaldone, ex consigliere comunale, sostenuto da Potenza Ritorna, M5s e Città nuova; c’è Vincenzo Telesca, ex consigliere comunale, candidato sindaco per Uniamoci per Potenza-Telesca sindaco, La Potenza dei Cittadini-Potenza democratica, Insieme per Potenza, Basilicata Casa Comune, Potenza prima e da una parte del Pd. COME SI VOTA I seggi saranno aperti ogg (dalle 15 alle 23) e domani (dalle 7 alle 23), in concomitanza con le elezioni europee e le regionali del Piemonte, come deciso dal governo con il Ddl Elezioni. L’inizio delle operazioni di scrutinio è fissato alle 14 di lunedì 10 giugno. Nei comuni fino a 15.000 abitanti si vota con un turno unico. Gli elettori possono esprimere una preferenza per il sindaco e una per la lista dei consiglieri comunali collegata al candidato alla carica di sindaco prescelto. Viene eletto il sindaco che ottiene la maggioranza dei voti. In caso di parità di voti si procede ad un turno di ballottaggio fra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti, da effettuarsi la seconda domenica successiva. In caso di ulteriore parità viene eletto il più anziano di età. Nei comuni con più di 15.000 abitanti l’elettore ha tre possibilità di voto: tracciare un segno solo sul simbolo di una lista, assegnando la propria preferenza alla lista contrassegnata e al candidato sindaco collegato; tracciare un segno sul simbolo di una lista (partito), tracciando contestualmente un segno sul nome di un candidato sindaco non collegato alla lista votata, quest’ultimo caso è il cosiddetto ‘voto disgiunto’; tracciare un segno solo sul nome del candidato sindaco, votando così solo per il candidato sindaco e non per la lista o le liste a quest’ultimo collegate. Inoltre ogni elettore può esprimere, nelle apposite righe affiancate al simbolo della lista, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome di non più di due candidati (un uomo e una donna, pena l’annullamento della seconda preferenza) compresi nella lista da lui votata. Chi ottiene la maggioranza assoluta dei voti validi (50%+1) al primo turno diventa sindaco. Se nessun candidato raggiunge questa soglia si rivota domenica 23 giugno (dalle 7 alle 23) e lunedì 24 giugno (dalle 7 alle 15) per il ballottaggio, scegliendo tra i due candidati che al primo turno hanno ottenuto il maggior numero di voti. Al secondo turno viene eletto sindaco il candidato che ottiene il maggior numero di voti.

In Piemonte corsa a cinque, Cirio in pista per il bis

In Piemonte corsa a cinque, Cirio in pista per il bisTorino, 8 giu. (askanews) – Complici la concomitanza con le europee e il mancato accordo Pd-M5s che avrebbe reso il Piemonte più contendibile, la campagna elettorale delle regionali subalpine ha fatto fatica ad emergere nelle cronache nazionali. Eppure dall’esito di questa corsa a cinque con 13 liste non mancheranno indicazioni politiche generali sullo stato di salute di partiti e coalizioni. Da una parte il centrodestra punta con fiducia verso il bis di Alberto Cirio, ma con rapporti di forza che rischiano di essere talmente diversi da terremotare l’attuale giunta regionale. Dall’altra il centrosinistra dovrà fare i conti con un sistema elettorale in gran parte maggioritario, che premia la capacità di tenere unite le coalizioni, e confermare o meno la sua tenuta almeno a Torino, grande città produttiva del Nord dove primeggia da 25 anni.


Il presidente uscente, che nel 2019 sfiorò la maggioranza assoluta (49,86%) contro il 35,8% del centrosinistra e il 13,61% del M5s, si presenta oggi con il sostegno delle quattro componenti nazionali della coalizione (Fi, Fdi, Lega e Noi Moderati), ma anche di Azione, che non è presente con il proprio simbolo ma con un proprio candidato nella lista civica del presidente. Il centrosinistra, che dopo un lacerante braccio di ferro interno ai dem tra bonacciniani e schleiniani ha candidato alla presidenza l’ex assessore regionale e comunale a Torino Gianna Pentenero, tiene insieme Pd, Avs, le liste civiche Piemonte ambientalista e solidale e Pentenero Presidente, ma anche l’altra costola della diaspora centrista, cioè la lista Stati Uniti d’Europa di Emma Bonino e Matteo Renzi. Sul fronte pentastellato la sfidante è Sarah Disabato, capogruppo 35enne a Palazzo Lascaris e coordinatrice regionale del partito, fedelissima dell’ex sindaca di Torino Chiara Appendino che l’ha accompagnata in un tour elettorale in camper di due settimane. Sono infine candidati alla presidenza due outsider: la storica attivista No Tav e ex grillina Francesca Frediani, candidata di Piemonte Popolare dopo due mandati in Consiglio regionale, e l’avvocato Alberto Costanzo, già in campo con Italexit alle politiche e in corsa questa volta per la lista antisistema Libertà di Cateno De Luca e dell’ex viceministra grillina Laura Castelli.


Le urne diranno anche il peso del fattore giustizia, viste le inchieste che hanno colpito esponenti di Pd e M5s in campagna elettorale. La prima tegola è quella caduta sulla testa dell’83enne Salvatore Gallo, esponente dei dem piemontesi ed ex socialista, indagato per peculato, estorsione e violazione delle norme elettorali. L’aspirante consigliere del M5s Marco Allegretti è invece indagato per truffa e dopo avere appreso dalla stampa del suo coinvolgimento in due diverse indagini si è subito ritirato dalla competizione, anche se potrebbe risultare comunque eletto. Le Lega è invece scivolata sul video-tutorial della sua consigliera regionale uscente e ricandidata Sara Zambaia nel quale suggeriva il voto disgiunto mettendo una croce “su un candidato presidente che non sia Cirio”, puntando preferibilmente “per simpatia” su Disabato. L’esponente leghista ha poi precisato che si trattava di un filmato “privato” registrato per rispondere a una precisa richiesta di alcuni elettori del M5s e della sinistra che volevano sostenere il proprio candidato presidente, esprimendo allo stesso tempo, come ammesso dalla legge elettorale, preferenza per la candidata della Lega. In ogni caso se non si tratta di boicottaggio ai danni di Cirio è per lo meno un infortunio, tanto che ha richiesto l’intervento di Matteo Salvini per assicurare la fedeltà del suo partito.


Pentenero e Disabato hanno puntato molte delle loro carte sulla proposta di rendere gratuiti i mezzi pubblici per i giovani e sui problemi della sanità pubblica piemontese, a partire dalle liste di attesa che sarebbero un quinto del totale nazionale. Un fardello che Cirio ha rivendicato di avere già alleggerito tanto che “nel 2022 la Corte dei Conti ha certificato il recupero come il migliore d’Italia”. A far molto discutere è stato poi l’annuncio, fortemente voluto da Fdi, dell’apertura all’ospedale Sant’Anna della “stanza dell’ascolto” dei pro-vita per cercare di aiutare le donne a superare le cause che potrebbero indurle ad abortire. “Noi difendiamo il diritto delle donne di scegliere sul proprio corpo” ha tuonato Elly Schlein nel suo affollato comizio torinese in piazza Solferino. Quanto al tema Mirafiori l’assist a Cirio, ma anche al sindaco dem di Torino Stefano Lo Russo, è arrivato dall’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, che a fine maggio ha annunciato ai sindacati, a due settimane dal voto, che produrrà la 500 ibrida nella fabbrica torinese dal 2026. Da lunedì pomeriggio occhi puntati infine non solo sul nome del nuovo (o vecchio) presidente che uscirà dalle urne, ma anche sulla percentuale del suo successo, visto che la nuova legge elettorale regionale assegna un premio di maggioranza variabile alla coalizione vincente: almeno il 55% dei seggi in caso di vittoria con una percentuale inferiore al 45%, 60% dei seggi in caso di vittoria con una percentuale compresa fra il 45% e il 60% inclusi, 64% dei seggi con un consenso superiore al 60%.

L’attesa di Mattarella, tra appelli al voto e il timore disaffezione

L’attesa di Mattarella, tra appelli al voto e il timore disaffezioneRoma, 8 giu. (askanews) – E’ dello scorso dicembre, in occasione degli auguri alle alte cariche dello Stato, l’allarme lanciato da Sergio Mattarella sulla “preoccupante flessione della partecipazione al voto”. Il trend iniziato con le politiche del 2022 non si è arrestato con le successive amministrative e regionali e il capo dello Stato ha iniziato mesi addietro a sollevare il tema dell’importanza di questo voto europeo preoccupato da una astensione che si annuncia come la più alta nella storia elettorale del nostro paese.


Appelli che si sono intensificati nelle ultime settimane e che sono culminati con quel riferimento, ispirato dalla Costituzione, al voto di giugno come la “consacrazione della sovranità europea” che gli ha procurato un durissimo attacco da parte della Lega: “tra pochi giorni, con l’elezione del Parlamento Europeo, consacreremo la sovranità dell’Unione Europea cui abbiamo deciso di dar vita con gli altri popoli liberi del continente”, ha detto il Presidente della Repubblica nel messaggio ai prefetti in occasione della festa della Repubblica. A fine anno quindi il capo dello Stato aveva richiamato le istituzioni alla loro responsabilità sulla “preoccupante flessione della partecipazione al voto, essenziale per la legittimazione delle istituzioni. Fiducia, partecipazione, democrazia sono anelli inseparabili di un’unica catena. Sottolineano il valore dell’attivo coinvolgimento nella vita della Repubblica in tutti i suoi aspetti: tutti siamo chiamati a fare la nostra parte”.


Il suo pensiero si è poi rivolto in modo più esplicito all’appuntamento europeo in occasione della Festa dell’Europa il 9 maggio: “Tra qualche settimana i cittadini dei ventisette Stati membri saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento Europeo. Un grande esercizio di democrazia in cui centinaia di milioni di elettori hanno l’opportunità – e la connessa responsabilità – di rendersi protagonisti del loro futuro”. Per Mattarella la partecipazione al voto è l’occasione “per plasmare il governo di un’Unione Europea unita, in pace, dinamica, capace di armonizzare secondo principi di solidarietà i diversi punti di vista dei suoi popoli”. Il voto per l’Europa, ha sottolineato ancora Mattarella, è “presidio della nostra sicurezza. Con lo stesso coraggio e la medesima determinazione di cui diedero prova i Padri fondatori dell’Europa unita – conclude – dobbiamo prendere nelle nostre mani il destino della civiltà europea, per contribuire a rendere più giusto il mondo in cui viviamo”. Il capo dello Stato si è fatto anche promotore, lo scorso 11 maggio, insieme ai presidenti di Germania e Austria di un appello congiunto per le elezioni europee: “Nel 2024 si svolgono elezioni in Paesi che rappresentano più della metà della popolazione mondiale. Sarà un anno cruciale per la democrazia in Europa e in molte parti del mondo. In un futuro non troppo lontano, potremmo arrivare a considerarlo come un anno decisivo che avrà stabilito la rotta per i decenni a venire”, hanno scritto Sergio Mattarella Frank-Walter Steinmeier e Alexander Van der Bellen.


“Più di quattrocento milioni di cittadini europei possono scegliere i loro rappresentanti al Parlamento europeo a cui affidare la costruzione della nostra futura Europa. Dobbiamo riflettere collettivamente su quali prospettive future vogliamo garantire e su come intendiamo affrontare le sfide di vasta portata che ci attendono. Come presidenti della Repubblica, chiediamo ai nostri cittadini di prendere parte a questa decisione e di andare a votare!”, è il forte appello lanciato dai tre capi di Stato. Ma gli appelli al voto non celano la consapevolezza che anche l’Europa, in particolare le sue istituzioni, devono saper fare la propria parte nel coinvolgere i cittadini e “fare in modo che l’Unione diventi un soggetto protagonista della scena internazionale”. Mattarella ha ben chiaro, e nei suoi discorsi lo ripete spesso, che l’Europa non può “rimanere in una condizione in cui sia solo spettatore anche di eventi che sono negati per l’Unione stessa. Questa è una stagione che richiede il coraggio di riforme incisive e coraggiose”. Tra le riforme essenziali ci sono sicuramente “le modalità del processo decisionale, perchè i problemi in questo mondo si presentano velocemente e richiedono risposte tempestive: l’Unione europea non è in questa condizione, non è in condizione di assumere risposte tempestive perchè i problemi non aspettano”.

’Vota Giorgia’, all-in di Meloni.Europee come referendum su di sé

’Vota Giorgia’, all-in di Meloni.Europee come referendum su di séRoma, 8 giu. (askanews) – Sarà pure scaramanzia, magari mista a un po’ di opportuna prudenza, a spingerla a non fissare un asticella, a non dichiarare quale percentuale si aspetta di conquistare. Ma anche se continua a ripetere il mantra del “basta un voto in più rispetto alle Politiche”, queste Europee per Giorgia Meloni sono comunque una sfida da all-in.


Una consultazione nazionale, per di più basata su un sistema proporzionale, a quasi due anni dall’inizio del mandato, avrebbe il valore di elezione di mid term per qualsiasi governo. Ma se il voto per le istituzioni di Bruxelles si è trasformato in un “referendum” sull’esecutivo e chi lo guida è proprio perché così ha voluto la presidente del Consiglio, gettando il guanto della sfida sin dal momento in cui ha annunciato che avrebbe guidato le liste di Fratelli d’Italia in tutte le circoscrizioni. Sin dalla scelta di personalizzare a tal punto la competizione elettorale da chiedere ai suoi elettori di esprimere la preferenza indicando solo il suo nome di battesimo, “Vota Giorgia”. “Mi interessa solo il giudizio dei cittadini, ed è un giudizio che rispetto e rispetterò sempre”, ha urlato dal palco allestito sul lungomare di Pescara per la conferenza programmatica. Una impostazione ‘con me o contro di me’ che si è ripetuta nell’unico comizio in senso stretto al quale ha partecipato dopo aver promesso che non avrebbe sottratto “nemmeno un minuto” al suo lavoro di presidente del Consiglio. Queste elezioni, ha detto nel suo intervento di chiusura della campagna elettorale da piazza del Popolo, sono un “referendum” tra due idee d’Europa.


E se così è, inevitabilmente, l’esito finale non potrà che essere una vittoria o una sconfitta: il pareggio, in questo caso, non è contemplato. Anche perché lo schema di gioco scelto da Meloni si basa su una doppia scommessa: la conferma (o addirittura la crescita) del consenso in Italia e la conquista di un peso determinante in Europa. Per Fdi il target di riferimento non è chiaramente quello delle precedenti Europee, quando il partito conquistò il 6,4% e sei eurodeputati. In questo caso la soglia sotto la quale non bisogna andare è quella del 26% delle Politiche. Secondo i calcoli fatti a via della Scrofa, una sostanziale conferma di quella percentuale porterebbe all’elezione di almeno 24 parlamentari europei, di cui 2 nelle Isole, 6 a Nord Ovest e al Sud e 5 rispettivamente a Nord est e al Centro. Ma quanto sarà nutrita la pattuglia dipenderà non solo dai voti ottenuti ma anche da altri fattori, primo tra tutti il superamento o meno della soglia del 4% di partiti come Avs, Stati uniti d’Europa e Azione e dalla eventuale ripartizione dei resti. Difficilmente però, a differenza di quanto ha detto la stessa premier, si creerà una situazione talmente favorevole da consentirle di guidare la “prima forza” a Bruxelles. Maggiori chance ci sono, invece, che il gruppo dei Conservatori europei – di cui Meloni è presidente – arrivi terzo dopo gli inarrivabili Popolari e Socialisti ma davanti a Identità e democrazia (che comprende anche Le Pen e Salvini) e Renew di Macron.


Nella narrazione meloniana si ribadisce che Fratelli d’Italia non farà mai parte di una maggioranza con i Socialisti e, anzi, che ci sarà la possibilità di creare in Europa una coalizione come quella italiana. Una opzione che, secondo tutte le previsioni, appare più che remota ma che è servita alla presidente del Consiglio per marcare il fronte identitario e allontanare da sé il sospetto di inciucismo per i buoni rapporti tenuti negli ultimi mesi con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. In questa prospettiva va letto anche il recente riavvicinamento con Marin Le Pen e quel sottolineare, dopo mesi di frizioni, i “molti punti in comune”. Ma se si va oltre una fredda lettura dei dati, c’è molto altro che i numeri possono raccontare. Da Fratelli d’Italia, per esempio, si insiste molto sul fatto che confermare il dato delle Politiche sarebbe già una grande conquista per un governo in carica in una congiuntura economica non favorevole e con due guerre alle porte dell’Europa. E, tuttavia, c’è una ragione se all’inizio di questa avventura l’obiettivo sperato (pur se mai dichiarato) era quello del 30%. Le ultime due elezioni per le istituzioni di Bruxelles, infatti, hanno registrato una forte polarizzazione del voto che non era stata prevista dai sondaggi. E’ accaduto nel 2014 quando Matteo Renzi ha sfondato il tetto del 40% e nel 2019 quando la Lega è arrivata al 34% raddoppiando i voti delle Politiche.


Anche per questo, oltre che per un crescente timore dell’effetto Vannacci, nelle ultime due settimane di campagna elettorale – privilegiando interviste in tv o dirette sui social – la presidente del Consiglio ha portato avanti una narrazione decisamente all’attacco e fortemente basata sui temi identitari. Va letta così la scelta di mettere in sovraimpressione a un suo video la scritta tele Meloni, o gli attacchi diretti a Elly Schelin per polarizzare la sfida, persino la battuta su “quella stronza della Meloni” fatta al presidente della Regione Campania. Insomma, una specie di chiamata alle armi del proprio elettorato per cercare di combattere il vero fantasma che agita i sogni dei partiti: l’astensione. A via della Scrofa non hanno dubbi: tanto più cresce il partito del non voto, tanto più a essere penalizzata sarà proprio Fratelli d’Italia.