Skip to main content
#sanremo #studionews #askanews #ciaousa #altrosanremo

Al voto per 3.708 Sindaci, riflettori su Firenze Bari e Cagliari

Al voto per 3.708 Sindaci, riflettori su Firenze Bari e CagliariRoma, 8 giu. (askanews) – Non solo elezioni europee: in 3.708 comuni, quasi 17 milioni di elettori (16.798.420) sono chiamati a scegliere un nuovo sindaco e circa 42.900 consiglieri comunali. Si voterà anche in sei città capoluogo di regione, Campobasso, Perugia, Potenza, Bari, Cagliari e Firenze. Queste ultime tre sono anche Città Metropolitane. Il comune più grande che andrà al voto è Firenze, con 361.619 abitanti, quello più piccolo è Pedesina, in provincia di Sondrio con 35 anime. Altri 12 comuni che rinnoveranno sindaco e consigli superano i 100mila abitanti: Bari, Prato, Modena, Reggio Emilia, Perugia, Livorno, Cagliari, Ferrara, Sassari, Bergamo, Pescara e Forli’.


I comuni di nuova istituzione che andranno per la prima volta al voto sono quattro: Uggiate con Ronago in provincia di Como, Setteville in provincia di Belluno, Santa Caterina d’Este in provincia di Padova e Sovizzo in provincia di Vicenza. La Lombardia è la regione con il maggior numero di comuni al voto, 961, seguita dal Piemonte con 801. La regione con meno comuni chiamati alle urne è la Sardegna con 27, una delle tre regioni a statuto speciale con il Friuli Venezia Giulia, e la Sicilia. In Valle d’Aosta si voterà solo per rinnovare il Parlamento Ue, mentre per il Trentino Alto Adige si aggiunge Rovereto con il turno di ballottaggio delle comunali, tra Giulia Robol, sostenuta dal centrosinistra e Giampiero Lui, candidato per il centrodestra, senza FdI.


Anche se l’attenzione sarà tutta concentrata sulle elezioni europee, il risultato delle urne delle sei città capoluogo di regione non lascerà indifferenti i leader dei partiti nazionali. Vediamo nel dettaglio la situazione. BARI: per il dopo Antonio Decaro, il centrosinistra non ha trovato la quadra su un candidato unitario e così per la corsa allo scranno più alto di Palazzo di Città ci sono Michele Laforgia, candidato M5s, sostenuto da sei liste e Vito Leccese, indicato dal Pd, appoggiato da Verdi e Azione assieme a otto liste civiche, tra cui Decaro per il sindaco, che corre solo per i Municipi. Il centrodestra invece arriva compatto e punta su Fabio Romito, scelto dai partiti di governo Fratelli d’Italia, Forza Italia, Noi moderati, Udc-Prima l’Italia e alcune altre liste civiche. Ci sono poi Sabino Mangano, ex M5s ed ex consigliere comunale con la sola lista Oltre e Nicola Sciacovelli, anche lui ex consigliere comunale, sostenuto dalle liste Sciacovelli sindaco-Ci piace! e Noi per Bari-Italexit per l’Italia per Sciacovelli sindaco.


CAGLIARI: Zedda contro Zedda. E’ derby (dei nomi) a Cagliari per la carica di sindaco. Alessandra Zedda, per il centrodestra, e Massimo Zedda, per il campo largo del centrosinistra, sono i candidati (non parenti) più accreditati a succedere a Paolo Truzzu di FdI, che ha lasciato Palazzo Civico per la Regione Sardegna. Alessandra Zedda, ex presidente della Giunta regionale sarda, passata da Forza Italia alla Lega è sostenuta da FdI, Lega, FI e altre quattro liste civiche. Massimo Zedda, ex sindaco di Cagliari dal 2011 al 2019, è il candidato dello stesso campo ‘larghissimo’ (10 liste) di centrosinistra che ha portato Alessandra Todde a vincere le regionali. Ci sono poi tre candidati indipendenti: Giuseppe Farris (Movimento CiviCA 2024), Emanuela Corda, ex M5s, (Alternativa), Claudia Ortu (Potere al Popolo e Pci). CAMPOBASSO: il centrodestra, dopo aver conquistato, nel giugno dello scorso anno, la Regione Molise grazie a Francesco Roberti, ora punta anche al comune di Campobasso con Aldo De Benedittis, ex assessore al Bilancio, sostenuto da sei liste: Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Popolari per l’Italia, Noi moderati e Udc. La decisione dei vertici del M5s di non concedere una deroga alla sindaca uscente, Paola Felice, al secondo mandato, ha portato la coalizione di centrosinistra a scommettere su Marialuisa Forte, appoggiata dai Pentastellati, Pd e Alleanza Verdi-Sinistra. Per la corsa a Palazzo San Giorgio c’è anche Pino Ruta, candidato sindaco di tre liste: Costruire democrazia, Unica terra Molise e Confederazione civica.


FIRENZE: il centrosinistra non è stato capace di trovare una sintesi per il dopo Nardella e così, per la poltrona di sindaco a Palazzo Vecchio, ai nastri di partenza arriva frastagliato con diversi candidati: il Pd, con Sinistra Italiana, +Europa, Azione, Europa Verde, Movimento Laburista, Volt e Movimento Centro, ha scelto Sara Funaro, ex assessore all’Educazione. Matteo Renzi con Italia viva ha messo in campo l’ex vicepresidente regionale, Stefania Saccardi. M5s ha deciso di puntare su Lorenzo Masi, consigliere comunale uscente. Ci sono poi Cecilia Del Re, ex assessore della giunta Nardella, con la lista Firenze Democratica, Dmitrij Palagi, supportato da Rifondazione comunista, Possibile e Potere al Popolo. Tutt’atro discorso nel centrodestra che, grazie ad una decisione unitaria, ha tirato fuori dal cilindro l’ex direttore degli Uffizi, il tedesco, Eike Schmidt, oggi alla guida del Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli. In corsa per la carica di sindaco di Firenze ci sono anche Andrea Asciuti sostenuto dal Movimento Indipendenza di Gianni Alemanno e dal Popolo della Famiglia, Alessandro De Giuli con Firenze Rinasce, Francesco Zini, con Firenze Cambia e Francesca Marrazza, con Ribella Firenze. PERUGIA: il centrodestra schiera Margherita Scoccia (FdI) per continuare a guidare il comune di Perugia, dopo i 10 anni targati Andrea Romizi. Scoccia, attuale assessora all’Urbanistica, è sostenuta da otto liste tra cui Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. A sinistra un campo largo scommette su Vittoria Ferdinandi, psicologa clinica, nel 2021 nominata Cavaliere al merito della Repubblica per il suo impegno a favore delle persone con disturbi mentali. Ferdinadi è appoggiata da sette liste tra cui Pd, M5s, Avs e Azione. In corsa per la carica di sindaco ci sono anche Massimo Monni (Perugia Merita), l’ex senatore Leonardo Caponi (Pci), e l’ex calciatore del Perugia e della Juventus, Davide Baiocco (Forza Perugia, Alternativa Riformista – Italexit). POTENZA: squadra che vince non si cambia. E così il centrodestra per le comunali a Potenza si ripresenta con lo stesso campo allargato, ad Azione e Italia viva, che ha portato al bis di Vito Bardi alla presidenza della Regione. Per la corsa a sindaco, la coalizione di centrodestra propone Francesco Fanelli, esponente della Lega, ex vicepresidente della giunta regionale uscente. Discorso diverso nel centrosinistra, che non avendo raggiunto un’intesa, si presenta frastagliato e senza il simbolo del Pd sulla scheda elettorale: c’è Francesco Giuzio, ex consigliere comunale, appoggiato dalla lista Basilicata Possibile; c’è Pierluigi Smaldone, ex consigliere comunale, sostenuto da Potenza Ritorna, M5s e Città nuova; c’è Vincenzo Telesca, ex consigliere comunale, candidato sindaco per Uniamoci per Potenza-Telesca sindaco, La Potenza dei Cittadini-Potenza democratica, Insieme per Potenza, Basilicata Casa Comune, Potenza prima e da una parte del Pd. COME SI VOTA I seggi saranno aperti ogg (dalle 15 alle 23) e domani (dalle 7 alle 23), in concomitanza con le elezioni europee e le regionali del Piemonte, come deciso dal governo con il Ddl Elezioni. L’inizio delle operazioni di scrutinio è fissato alle 14 di lunedì 10 giugno. Nei comuni fino a 15.000 abitanti si vota con un turno unico. Gli elettori possono esprimere una preferenza per il sindaco e una per la lista dei consiglieri comunali collegata al candidato alla carica di sindaco prescelto. Viene eletto il sindaco che ottiene la maggioranza dei voti. In caso di parità di voti si procede ad un turno di ballottaggio fra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti, da effettuarsi la seconda domenica successiva. In caso di ulteriore parità viene eletto il più anziano di età. Nei comuni con più di 15.000 abitanti l’elettore ha tre possibilità di voto: tracciare un segno solo sul simbolo di una lista, assegnando la propria preferenza alla lista contrassegnata e al candidato sindaco collegato; tracciare un segno sul simbolo di una lista (partito), tracciando contestualmente un segno sul nome di un candidato sindaco non collegato alla lista votata, quest’ultimo caso è il cosiddetto ‘voto disgiunto’; tracciare un segno solo sul nome del candidato sindaco, votando così solo per il candidato sindaco e non per la lista o le liste a quest’ultimo collegate. Inoltre ogni elettore può esprimere, nelle apposite righe affiancate al simbolo della lista, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome di non più di due candidati (un uomo e una donna, pena l’annullamento della seconda preferenza) compresi nella lista da lui votata. Chi ottiene la maggioranza assoluta dei voti validi (50%+1) al primo turno diventa sindaco. Se nessun candidato raggiunge questa soglia si rivota domenica 23 giugno (dalle 7 alle 23) e lunedì 24 giugno (dalle 7 alle 15) per il ballottaggio, scegliendo tra i due candidati che al primo turno hanno ottenuto il maggior numero di voti. Al secondo turno viene eletto sindaco il candidato che ottiene il maggior numero di voti.

In Piemonte corsa a cinque, Cirio in pista per il bis

In Piemonte corsa a cinque, Cirio in pista per il bisTorino, 8 giu. (askanews) – Complici la concomitanza con le europee e il mancato accordo Pd-M5s che avrebbe reso il Piemonte più contendibile, la campagna elettorale delle regionali subalpine ha fatto fatica ad emergere nelle cronache nazionali. Eppure dall’esito di questa corsa a cinque con 13 liste non mancheranno indicazioni politiche generali sullo stato di salute di partiti e coalizioni. Da una parte il centrodestra punta con fiducia verso il bis di Alberto Cirio, ma con rapporti di forza che rischiano di essere talmente diversi da terremotare l’attuale giunta regionale. Dall’altra il centrosinistra dovrà fare i conti con un sistema elettorale in gran parte maggioritario, che premia la capacità di tenere unite le coalizioni, e confermare o meno la sua tenuta almeno a Torino, grande città produttiva del Nord dove primeggia da 25 anni.


Il presidente uscente, che nel 2019 sfiorò la maggioranza assoluta (49,86%) contro il 35,8% del centrosinistra e il 13,61% del M5s, si presenta oggi con il sostegno delle quattro componenti nazionali della coalizione (Fi, Fdi, Lega e Noi Moderati), ma anche di Azione, che non è presente con il proprio simbolo ma con un proprio candidato nella lista civica del presidente. Il centrosinistra, che dopo un lacerante braccio di ferro interno ai dem tra bonacciniani e schleiniani ha candidato alla presidenza l’ex assessore regionale e comunale a Torino Gianna Pentenero, tiene insieme Pd, Avs, le liste civiche Piemonte ambientalista e solidale e Pentenero Presidente, ma anche l’altra costola della diaspora centrista, cioè la lista Stati Uniti d’Europa di Emma Bonino e Matteo Renzi. Sul fronte pentastellato la sfidante è Sarah Disabato, capogruppo 35enne a Palazzo Lascaris e coordinatrice regionale del partito, fedelissima dell’ex sindaca di Torino Chiara Appendino che l’ha accompagnata in un tour elettorale in camper di due settimane. Sono infine candidati alla presidenza due outsider: la storica attivista No Tav e ex grillina Francesca Frediani, candidata di Piemonte Popolare dopo due mandati in Consiglio regionale, e l’avvocato Alberto Costanzo, già in campo con Italexit alle politiche e in corsa questa volta per la lista antisistema Libertà di Cateno De Luca e dell’ex viceministra grillina Laura Castelli.


Le urne diranno anche il peso del fattore giustizia, viste le inchieste che hanno colpito esponenti di Pd e M5s in campagna elettorale. La prima tegola è quella caduta sulla testa dell’83enne Salvatore Gallo, esponente dei dem piemontesi ed ex socialista, indagato per peculato, estorsione e violazione delle norme elettorali. L’aspirante consigliere del M5s Marco Allegretti è invece indagato per truffa e dopo avere appreso dalla stampa del suo coinvolgimento in due diverse indagini si è subito ritirato dalla competizione, anche se potrebbe risultare comunque eletto. Le Lega è invece scivolata sul video-tutorial della sua consigliera regionale uscente e ricandidata Sara Zambaia nel quale suggeriva il voto disgiunto mettendo una croce “su un candidato presidente che non sia Cirio”, puntando preferibilmente “per simpatia” su Disabato. L’esponente leghista ha poi precisato che si trattava di un filmato “privato” registrato per rispondere a una precisa richiesta di alcuni elettori del M5s e della sinistra che volevano sostenere il proprio candidato presidente, esprimendo allo stesso tempo, come ammesso dalla legge elettorale, preferenza per la candidata della Lega. In ogni caso se non si tratta di boicottaggio ai danni di Cirio è per lo meno un infortunio, tanto che ha richiesto l’intervento di Matteo Salvini per assicurare la fedeltà del suo partito.


Pentenero e Disabato hanno puntato molte delle loro carte sulla proposta di rendere gratuiti i mezzi pubblici per i giovani e sui problemi della sanità pubblica piemontese, a partire dalle liste di attesa che sarebbero un quinto del totale nazionale. Un fardello che Cirio ha rivendicato di avere già alleggerito tanto che “nel 2022 la Corte dei Conti ha certificato il recupero come il migliore d’Italia”. A far molto discutere è stato poi l’annuncio, fortemente voluto da Fdi, dell’apertura all’ospedale Sant’Anna della “stanza dell’ascolto” dei pro-vita per cercare di aiutare le donne a superare le cause che potrebbero indurle ad abortire. “Noi difendiamo il diritto delle donne di scegliere sul proprio corpo” ha tuonato Elly Schlein nel suo affollato comizio torinese in piazza Solferino. Quanto al tema Mirafiori l’assist a Cirio, ma anche al sindaco dem di Torino Stefano Lo Russo, è arrivato dall’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, che a fine maggio ha annunciato ai sindacati, a due settimane dal voto, che produrrà la 500 ibrida nella fabbrica torinese dal 2026. Da lunedì pomeriggio occhi puntati infine non solo sul nome del nuovo (o vecchio) presidente che uscirà dalle urne, ma anche sulla percentuale del suo successo, visto che la nuova legge elettorale regionale assegna un premio di maggioranza variabile alla coalizione vincente: almeno il 55% dei seggi in caso di vittoria con una percentuale inferiore al 45%, 60% dei seggi in caso di vittoria con una percentuale compresa fra il 45% e il 60% inclusi, 64% dei seggi con un consenso superiore al 60%.

L’attesa di Mattarella, tra appelli al voto e il timore disaffezione

L’attesa di Mattarella, tra appelli al voto e il timore disaffezioneRoma, 8 giu. (askanews) – E’ dello scorso dicembre, in occasione degli auguri alle alte cariche dello Stato, l’allarme lanciato da Sergio Mattarella sulla “preoccupante flessione della partecipazione al voto”. Il trend iniziato con le politiche del 2022 non si è arrestato con le successive amministrative e regionali e il capo dello Stato ha iniziato mesi addietro a sollevare il tema dell’importanza di questo voto europeo preoccupato da una astensione che si annuncia come la più alta nella storia elettorale del nostro paese.


Appelli che si sono intensificati nelle ultime settimane e che sono culminati con quel riferimento, ispirato dalla Costituzione, al voto di giugno come la “consacrazione della sovranità europea” che gli ha procurato un durissimo attacco da parte della Lega: “tra pochi giorni, con l’elezione del Parlamento Europeo, consacreremo la sovranità dell’Unione Europea cui abbiamo deciso di dar vita con gli altri popoli liberi del continente”, ha detto il Presidente della Repubblica nel messaggio ai prefetti in occasione della festa della Repubblica. A fine anno quindi il capo dello Stato aveva richiamato le istituzioni alla loro responsabilità sulla “preoccupante flessione della partecipazione al voto, essenziale per la legittimazione delle istituzioni. Fiducia, partecipazione, democrazia sono anelli inseparabili di un’unica catena. Sottolineano il valore dell’attivo coinvolgimento nella vita della Repubblica in tutti i suoi aspetti: tutti siamo chiamati a fare la nostra parte”.


Il suo pensiero si è poi rivolto in modo più esplicito all’appuntamento europeo in occasione della Festa dell’Europa il 9 maggio: “Tra qualche settimana i cittadini dei ventisette Stati membri saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento Europeo. Un grande esercizio di democrazia in cui centinaia di milioni di elettori hanno l’opportunità – e la connessa responsabilità – di rendersi protagonisti del loro futuro”. Per Mattarella la partecipazione al voto è l’occasione “per plasmare il governo di un’Unione Europea unita, in pace, dinamica, capace di armonizzare secondo principi di solidarietà i diversi punti di vista dei suoi popoli”. Il voto per l’Europa, ha sottolineato ancora Mattarella, è “presidio della nostra sicurezza. Con lo stesso coraggio e la medesima determinazione di cui diedero prova i Padri fondatori dell’Europa unita – conclude – dobbiamo prendere nelle nostre mani il destino della civiltà europea, per contribuire a rendere più giusto il mondo in cui viviamo”. Il capo dello Stato si è fatto anche promotore, lo scorso 11 maggio, insieme ai presidenti di Germania e Austria di un appello congiunto per le elezioni europee: “Nel 2024 si svolgono elezioni in Paesi che rappresentano più della metà della popolazione mondiale. Sarà un anno cruciale per la democrazia in Europa e in molte parti del mondo. In un futuro non troppo lontano, potremmo arrivare a considerarlo come un anno decisivo che avrà stabilito la rotta per i decenni a venire”, hanno scritto Sergio Mattarella Frank-Walter Steinmeier e Alexander Van der Bellen.


“Più di quattrocento milioni di cittadini europei possono scegliere i loro rappresentanti al Parlamento europeo a cui affidare la costruzione della nostra futura Europa. Dobbiamo riflettere collettivamente su quali prospettive future vogliamo garantire e su come intendiamo affrontare le sfide di vasta portata che ci attendono. Come presidenti della Repubblica, chiediamo ai nostri cittadini di prendere parte a questa decisione e di andare a votare!”, è il forte appello lanciato dai tre capi di Stato. Ma gli appelli al voto non celano la consapevolezza che anche l’Europa, in particolare le sue istituzioni, devono saper fare la propria parte nel coinvolgere i cittadini e “fare in modo che l’Unione diventi un soggetto protagonista della scena internazionale”. Mattarella ha ben chiaro, e nei suoi discorsi lo ripete spesso, che l’Europa non può “rimanere in una condizione in cui sia solo spettatore anche di eventi che sono negati per l’Unione stessa. Questa è una stagione che richiede il coraggio di riforme incisive e coraggiose”. Tra le riforme essenziali ci sono sicuramente “le modalità del processo decisionale, perchè i problemi in questo mondo si presentano velocemente e richiedono risposte tempestive: l’Unione europea non è in questa condizione, non è in condizione di assumere risposte tempestive perchè i problemi non aspettano”.

’Vota Giorgia’, all-in di Meloni.Europee come referendum su di sé

’Vota Giorgia’, all-in di Meloni.Europee come referendum su di séRoma, 8 giu. (askanews) – Sarà pure scaramanzia, magari mista a un po’ di opportuna prudenza, a spingerla a non fissare un asticella, a non dichiarare quale percentuale si aspetta di conquistare. Ma anche se continua a ripetere il mantra del “basta un voto in più rispetto alle Politiche”, queste Europee per Giorgia Meloni sono comunque una sfida da all-in.


Una consultazione nazionale, per di più basata su un sistema proporzionale, a quasi due anni dall’inizio del mandato, avrebbe il valore di elezione di mid term per qualsiasi governo. Ma se il voto per le istituzioni di Bruxelles si è trasformato in un “referendum” sull’esecutivo e chi lo guida è proprio perché così ha voluto la presidente del Consiglio, gettando il guanto della sfida sin dal momento in cui ha annunciato che avrebbe guidato le liste di Fratelli d’Italia in tutte le circoscrizioni. Sin dalla scelta di personalizzare a tal punto la competizione elettorale da chiedere ai suoi elettori di esprimere la preferenza indicando solo il suo nome di battesimo, “Vota Giorgia”. “Mi interessa solo il giudizio dei cittadini, ed è un giudizio che rispetto e rispetterò sempre”, ha urlato dal palco allestito sul lungomare di Pescara per la conferenza programmatica. Una impostazione ‘con me o contro di me’ che si è ripetuta nell’unico comizio in senso stretto al quale ha partecipato dopo aver promesso che non avrebbe sottratto “nemmeno un minuto” al suo lavoro di presidente del Consiglio. Queste elezioni, ha detto nel suo intervento di chiusura della campagna elettorale da piazza del Popolo, sono un “referendum” tra due idee d’Europa.


E se così è, inevitabilmente, l’esito finale non potrà che essere una vittoria o una sconfitta: il pareggio, in questo caso, non è contemplato. Anche perché lo schema di gioco scelto da Meloni si basa su una doppia scommessa: la conferma (o addirittura la crescita) del consenso in Italia e la conquista di un peso determinante in Europa. Per Fdi il target di riferimento non è chiaramente quello delle precedenti Europee, quando il partito conquistò il 6,4% e sei eurodeputati. In questo caso la soglia sotto la quale non bisogna andare è quella del 26% delle Politiche. Secondo i calcoli fatti a via della Scrofa, una sostanziale conferma di quella percentuale porterebbe all’elezione di almeno 24 parlamentari europei, di cui 2 nelle Isole, 6 a Nord Ovest e al Sud e 5 rispettivamente a Nord est e al Centro. Ma quanto sarà nutrita la pattuglia dipenderà non solo dai voti ottenuti ma anche da altri fattori, primo tra tutti il superamento o meno della soglia del 4% di partiti come Avs, Stati uniti d’Europa e Azione e dalla eventuale ripartizione dei resti. Difficilmente però, a differenza di quanto ha detto la stessa premier, si creerà una situazione talmente favorevole da consentirle di guidare la “prima forza” a Bruxelles. Maggiori chance ci sono, invece, che il gruppo dei Conservatori europei – di cui Meloni è presidente – arrivi terzo dopo gli inarrivabili Popolari e Socialisti ma davanti a Identità e democrazia (che comprende anche Le Pen e Salvini) e Renew di Macron.


Nella narrazione meloniana si ribadisce che Fratelli d’Italia non farà mai parte di una maggioranza con i Socialisti e, anzi, che ci sarà la possibilità di creare in Europa una coalizione come quella italiana. Una opzione che, secondo tutte le previsioni, appare più che remota ma che è servita alla presidente del Consiglio per marcare il fronte identitario e allontanare da sé il sospetto di inciucismo per i buoni rapporti tenuti negli ultimi mesi con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. In questa prospettiva va letto anche il recente riavvicinamento con Marin Le Pen e quel sottolineare, dopo mesi di frizioni, i “molti punti in comune”. Ma se si va oltre una fredda lettura dei dati, c’è molto altro che i numeri possono raccontare. Da Fratelli d’Italia, per esempio, si insiste molto sul fatto che confermare il dato delle Politiche sarebbe già una grande conquista per un governo in carica in una congiuntura economica non favorevole e con due guerre alle porte dell’Europa. E, tuttavia, c’è una ragione se all’inizio di questa avventura l’obiettivo sperato (pur se mai dichiarato) era quello del 30%. Le ultime due elezioni per le istituzioni di Bruxelles, infatti, hanno registrato una forte polarizzazione del voto che non era stata prevista dai sondaggi. E’ accaduto nel 2014 quando Matteo Renzi ha sfondato il tetto del 40% e nel 2019 quando la Lega è arrivata al 34% raddoppiando i voti delle Politiche.


Anche per questo, oltre che per un crescente timore dell’effetto Vannacci, nelle ultime due settimane di campagna elettorale – privilegiando interviste in tv o dirette sui social – la presidente del Consiglio ha portato avanti una narrazione decisamente all’attacco e fortemente basata sui temi identitari. Va letta così la scelta di mettere in sovraimpressione a un suo video la scritta tele Meloni, o gli attacchi diretti a Elly Schelin per polarizzare la sfida, persino la battuta su “quella stronza della Meloni” fatta al presidente della Regione Campania. Insomma, una specie di chiamata alle armi del proprio elettorato per cercare di combattere il vero fantasma che agita i sogni dei partiti: l’astensione. A via della Scrofa non hanno dubbi: tanto più cresce il partito del non voto, tanto più a essere penalizzata sarà proprio Fratelli d’Italia.

Europee,esame di maturità per Schlein: è conta con Meloni e M5s

Europee,esame di maturità per Schlein: è conta con Meloni e M5sRoma, 8 giu. (askanews) – Per Elly Schlein è un po’ l’esame di maturità, le europee di oggi e domani saranno il primo vero test a livello nazionale per la leader Pd, tanto più dopo la scelta di scendere in campo come capolista in due circoscrizioni. Sono tante le sfide ballo per la leader democratica, a cominciare da quella più ovvia con la rivale-premier Giorgia Meloni chiamata, candidata in tutte le circoscrizioni e chiamata a sua volta ad test cruciale dopo un anno e mezzo di governo. Ma il voto sarà decisivo anche per mettere alla prova quella “identità ritrovata” del Pd che la Schlein rivendica con orgoglio come risultato della sua segreteria e per regolare un po’ di conti anche nel rissoso campo del centrosinistra. Tante partite in un solo voto, una prova cruciale che in un modo o nell’altro potrebbe segnare anche un cambio di fase all’interno dello stesso Pd.


La Schlein lo sa e non a caso ha investito tutte le sue energie in questa campagna elettorale, il suo giro d’Italia in oltre cento tappe è stato un vero tour de force percorso per sconfiggere innanzitutto un “avversario”, come ha spiegato più volte: l’astensionismo. La leader Pd sa che alle elezioni vince innanzitutto chi riesce a mobilitare i suoi, gli spostamenti da uno schieramento all’altro sono sempre marginali e la vera sfida è rimotivare quelle frange di elettorato demotivate dopo anni di Pd al governo, di politiche fin troppo pragmatiche, alla fine percepite come di mera conservazione dell’esistente. “Siamo qui anche per riparare ai nostri errori”, ha ripetuto spesso la Schlein durante i suoi comizi, citando per esempio la mancata cancellazione della Bossi-Fini tra le colpe del “Pd di governo”. I temi della campagna elettorale sono scelti dalla leader democratica proprio per parlare a quegli elettori delusi: la sanità, innanzitutto, “che il governo Meloni sta tagliando”, il “salario minimo, perché sotto i 9 euro l’ora non è lavoro ma sfruttamento”, il “congedo paritario retribuito” per entrambi i genitori. Più sullo sfondo è rimasto il tema dell’Ucraina, delicato per il Pd, diviso tra atlantismo e pacifismo. La Schelin conferma il sostegno a Kiev ma aggiunge la richiesta di un “maggiore sforzo diplomatico e politico dell’Ue” per facilitare una soluzione al conflitto. E, soprattutto, ogni volta che ne parla aggiunge subito la richiesta di cessate il fuoco in Medio oriente e del riconoscimento dello stato di Palestina. Così come quando parla di difesa comune europea si affretta a precisare “ma no ad una economia di guerra”. La leader Pd, del resto, non intende lasciare praterie a Giuseppe Conte nell’elettorato pacifista, ha scelto di candidare Marco Tarquinio – indisponendo l’ala più atlantista del partito – pur di dare un segnale anche a quel mondo.


L’obiettivo è superare almeno il 20%, staccando di diversi punti M5s, anche se la Schlein in pubblico si è sempre ben guardata dall’indicare cifre: “L’asticella porta jella”, ripete. Ma la soglia del 20% è nelle cose: il Pd di Enrico Letta nel 2019 prese il 19,1% e dunque il minimo sindacale è migliorare quel risultato. Tenendo conto che nel 2019 Nicola Zingaretti ottenne il 22,7%, con ancora Matteo Renzi e Carlo Calenda nel Pd ma con Articolo 1 di Roberto Speranza e Pier Luigi Bersani ancora fuori. Superare il 20% e magari attestarsi intorno al risultato del 2019 metterebbe il Pd ben al di sopra delle ambizioni di Giuseppe Conte e assegnerebbe di fatto alla Schlein il ruolo di “perno” della coalizione. La segretaria sa che l’ala moderata del partito difficilmente avrà la forza di mettere in discussione la guida del Pd, ma sa anche molti guardano con attenzione a figure come Paolo Gentiloni e a Beppe Sala come possibili “federatori”. Ecco allora che le tante partite legate a questo voto si intrecciano tutte insieme: conterà il distacco tra Fdi e Pd, perché si aprirebbe una fase nuova se la Meloni dovesse mostrare qualche sintomo di fatica e il distacco tra i due partiti si riducesse in maniera significativa. Ma, appunto, sarà determinante anche il divario con M5s nel quadro degli equilibri nel campo delle opposizioni. Un anno e mezzo fa la Schlein festeggiò con una citazione, “non ci hanno visti arrivare”. Stavolta l’effetto-sorpresa non è possibile, gli occhi sono tutti puntati su di lei.

Conte alleato-concorrente del Pd, con l’ombra del 10%

Conte alleato-concorrente del Pd, con l’ombra del 10%Roma, 8 giu. (askanews) – Collaborazione o competizione, alleanze o scontri? È soprattutto nel rapporto col Partito democratico che si è determinato il riposizionamento del Movimento 5 stelle nella stagione della gestione di Giuseppe Conte. Prima la rottura ai tempi dell’agenda Draghi, poi la stagione di qualche battaglia comune in Parlamento e dei patti a macchia di leopardo nelle elezioni regionali e amministrative. È questa ricerca di un difficile equilibrio politico che gli elettori dovranno giudicare nelle urne aperte sabato 8 e domenica 9 giugno per il rinnovo del Parlamento europeo.


Nel tour teatrale-elettorale che affianca i più tradizionali comizi di piazza, il leader M5S mette in scena in modo anche grafico una delle due facce della medaglia del rapporto col Pd. Pur essendo largamente dedicato a “smascherare” le mancanze di Giorgia Meloni e della sua maggioranza di governo (fino all’accusa di “codardia” per le astensioni in sede Onu sui massacri a Gaza), lo spettacolo che vede Conte protagonista unico sul palco dedica un paio di stoccate mirate al Partito democratico. Sono due slide che accompagnano il racconto del leader M5S sulle posizioni assunte nell’europarlamento dai principali partiti italiani. Una sull’uso dei fondi Ue per il riarmo e le forniture militari all’Ucraina, l’altra sul nuovo patto di stabilità. In entrambi i casi il messaggio è riassunto da due riquadri: nel primo tutti insieme Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Pd, nel secondo il solo Movimento 5 stelle; nella prima votazione tutti favorevoli, M5S contrario: “Il partito delle armi – sibila Conte – non conosce differenze fra destra e sinistra, arruola tutte le forze politiche; quasi tutte, noi siamo qui”. Ma anche nella seconda votazione lo schema è lo stesso: tutti astenuti, M5S contrario. Alle europee si vota col sistema proporzionale, è abbastanza naturale la ricerca di una maggiore distanza dal Pd, ma è pur vero che la misura di questa distanza spesso non è chiara neppure ai suoi fedelissimi: quando l’ex premier ha sostenuto la decisione del candidato sindaco di Bari Michele Laforgia di far saltare le primarie di centrosinistra che lo vedevano contrapposto al candidato del Pd Vito Leccese, racconta una fonte interna che conosce bene le mosse di Conte, lo ha saputo prima la segretaria dem Elly Schlein, alla quale il leader stellato telefonò, che i vicepresidenti del M5S.


Conte stavolta ha un compito più arduo rispetto a quello che lo attendeva nel 2022, dopo scissione capeggiata da Luigi Di Maio e la rottura col governo Draghi, quando molti sondaggi davano i 5 stelle a rischio sul confine psicologico del 10 per cento e invece le urne a settembre segnarono un robusto recupero oltre il 15. Uno dei sondaggi più interessanti fra quelli pubblicati nelle ultime settimane di campagna elettorale, quello di Bidimedia diviso per circoscrizioni, aveva rivelato la distanza abissale fra le percentuali di consenso che gli elettori riservano ai 5 stelle: al Nord sotto il 10, primo partito al Sud col 27,7 e nelle isole col 23,4 per cento. La media farebbe un tranquillizzante 15,2 se non fosse per un dettaglio: dove il Movimento va forte, l’affluenza attesa alle europee è molto più bassa che al Nord; e alle europee non ci sono i collegi uninominali, dove quelle percentuali renderebbero il M5S l’asse portante del “campo largo”. Ecco perché stavolta il rischio di fermarsi attorno al 10 per cento è reale, lo stesso Conte deve ammettere che sarebbe “un risultato basso”: prospettiva che suscita un qualche nervosismo, raccontano, ai vertici del Movimento. Sepolti in un passato irripetibile i quasi 11 milioni di voti e l’oltre 32 per cento raccolti nelle politiche del 2018, appare arduo oggi anche riportare alle urne delle europee i 4 milioni e 300mila voti delle ultime politiche. Conte ha portato avanti una politica di apertura delle liste a personalità esterne: la campionessa di calcio e nota opinionista sportiva Carolina Morace, Giuseppe Antoci ex presidente del Parco dei Nebrodi, Ugo Biggeri tra i fondatori di Banca Etica. Altra figura di punta, ma ormai del tutto interna al Movimento, è Pasquale Tridico, economista, ex presidente dell’Inps, tra i più convinti sostenitori del reddito di cittadinanza, misura simbolo della stagione di governo del M5S. Dove andranno gli eletti? Conte non si è mai sbottonato sul futuro gruppo nell’europarlamento, promettendo “sorprese” future tutte da verificare. Attualmente i 5 stelle sono senza gruppo e quindi, in base alle norme Ue, fortemente ridimensionati nella loro attività istituzionale. In passato hanno tentato l’avventura con gli euroscettici, poi un approccio fallito al gruppo dei Verdi europei, che sulla guerra e il riarmo hanno posizioni diametralmente opposte alle loro.


Il leader si è assunto il rischio di non candidarsi in prima persona, “per non prendere in giro gli elettori”, contrariamente alla gran parte dei leader degli altri partiti. Ma alla fine, non sarà su questo che potrà aprirsi la discussione interna fra i 5 stelle, finora piuttosto sottotono: se gli elettori non gli consentiranno di restare lontano da quel minaccioso 10 per cento ipotizzato da qualche intervistatore, un chiarimento si renderà necessario. Nel Movimento c’è chi sostiene che il vecchio brand “antisistema” non funziona più e non può essere resuscitato solo sotto elezioni con le polemiche anti-Pd. D’altronde, anche il rischio di fare della creatura che fu di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio una sorta di junior partner del Nazareno potrebbe essere solo un modo per avviarsi definitivamente alla chiusura dell’unico tentativo serio degli ultimi decenni di sfidare il bipolarismo all’italiana.

Salvini il pacifista: obiettivo 10% per maggioranza Ue a destra

Salvini il pacifista: obiettivo 10% per maggioranza Ue a destraMilano, 8 giu. (askanews) – La fine della guerra tra Russia e Ucraina e la fine della maggioranza Ursula. Sono le due carte che Matteo Salvini ha deciso di giocarsi per risollevare le percentuali della Lega alle Europee, con il generale Vannacci a fare da centravanti di sfondamento per imporre i temi leghisti nel dibattito. Una partita che per la Lega si giocherà in due tempi: in primo luogo non scendere sotto l’8,9% ottenuto alle ultime Politiche, e poi riuscire a condizionare la formazione della maggioranza che esprimerà la prossima Commissione Europea.


Per ottenere il primo risultato, Salvini ha scelto una campagna di forte contrapposizione con gli alleati: i continui attacchi ad Ursula von der Leyen, le critiche alle “eurofollie green” volute dalla Commissione uscente hanno l’obiettivo da un lato di denunciare la “complicità” di Forza Italia che della maggioranza Ursula fa parte, dall’altra di stoppare il tentativo di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia di inserirsi nei nuovi equilibri europei sfruttando proprio il rapporto costruito con von der Leyen. Ecco allora che il bersaglio delle ultime settimane è diventato “il bombarolo Macron”, e gli alleati che volessero preferirlo a Marine Le Pen, l’alleata della Lega in Europa. E per facilitare una maggioranza di centrodestra-destra, Salvini e Le Pen hanno scaricato la zavorra di Alternative fur Deutschland, il principale – ma non unico – ostacolo all’ipotesi di una maggioranza che comprenda anche il gruppo sovranista di Identità e Democrazia. Perchè se le scaramucce tra alleati in campagna elettorale fanno parte del gioco in una competizione tutta proporzionale, i futuri equilibri europei potrebbero invece incidere sulla solidità della maggioranza italiana, visto che proprio la frattura sulla maggioranza Ursula tra Lega e M5s portò alla caduta del governo gialloverde nel 2019. Situazione diversa, col centrodestra italiano, alleato da anni al governo e negli enti locali, e che è sopravvissuto nel corso del tempo a ogni tipo di divisione, in Europa e a livello nazionale: governo Conte I, governo Draghi, maggioranza Ursula… Ma sicuramente una spaccatura che vedesse la Lega all’opposizione in Europa e FdI e Fi in maggioranza non gioverebbe alla tranquillità della coalizione.


Tanto più con le voci che vorrebbero il leghista Giancarlo Giorgetti tra i possibili nomi per il commissario italiano. Salvini non a caso assicura che resterà a fare il ministro dell’Economia. Ma non è un mistero che da tempo Giorgetti spinge per una collocazione più moderata della Lega in Europa, e un’eventuale spaccatura interna potrebbe acuire le tensioni anche nel Carroccio. Ma su entrambi i fronti Salvini ostenta tranquillità: “Il governo durerà fino al 2027”, è il mantra, e anche sul suo ruolo di segretario della Lega non ha dubbi: “Resteremo saldamente seconda forza della coalizione”, assicura. Del resto, nei 40 anni di storia della Lega i segretari sono stati solo 3, Salvini compreso. E un eventuale avvicendamento richiederebbe modalità (una piattaforma alternativa e la conta al congresso) che il Carroccio non ha mai attuato. Ancora più improbabile nel momento in cui Salvini dovesse riuscire a tenere il Carroccio sopra il dato delle Politiche.

Avs tenta lo sbarco in Europa: con Salis, Lucano, Marino, Orlando

Avs tenta lo sbarco in Europa: con Salis, Lucano, Marino, OrlandoRoma, 8 giu. (askanews) – “Continuiamo a crescere”, supereremo il 4% e sbarcheremo a Strasburgo. Lo ripetono come un mantra Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, sperando che vengano confermati i sondaggi e il trend registrato nelle recenti consultazioni locali. Superare la soglia minima, nonché psicologica, prevista dalle elezioni europee è una sfida importante per la coppia rosso-verde che auspica di avere una fiche da ‘giocare’, come “ruolo di cerniera fra le forze di opposizione”, nella partita per la costruzione di un’alternativa al governo Meloni monopolizzata dalla competizione tra Pd e M5S.


Entrambi non si sono candidati (è una “truffa quella di Meloni e Schlein” che sanno che resteranno in Italia) e si dicono convinti che il loro programma, ‘il Coraggio di Osare’, sarà premiato perché l’Alleanza verdi e sinistra, nata in vista delle politiche del 2022, ha dato prova di “affidabilità”, non ‘scoppiando’ dopo l’esito delle urne (come invece è successo alla coppia Renzi-Calenda). Ora l’alleanza, sostengono, è un “progetto politico” che ha rimesso a punto la sua identità tra Verdi e Sinistra italiana contestando il “governo più di destra nella storia della Repubblica”, che “non riesce a dirsi antifascista”, che “crea nuovi reati penali per sopprimere il dissenso”, spiegano. Contro un centrodestra che mette in “pericolo” la Costituzione nel “mercimonio” tra Fdi e Lega e, ora Fi, su Premierato, autonomia differenziata e riforma della Giustizia.


L’Europa si trova a un “bivio cruciale”, osservano nel loro programma. In tempi di “guerre e instabilità”, “corsa agli armamenti”, frenata sul green deal, “ritorno all’austerity e negazione dello Stato di diritto”, Bonelli e Fratoianni guardano ad un’Europa “costruttrice di pace” in un “mondo multipolare”, un’Europa “coesa e solidale” con un reddito minimo europeo, che investa sulla transizione energetica e le rinnovabili, un’Europa fondata sul lavoro e che tuteli i diritti umani e sociali. I candidati capolista ambiscono ad esserne la rappresentazione plastica: Ilaria Salis, Ignazio Marino, Mimmo Lucano, Leoluca Orlando e Cristina Guarda. I primi quattro corrono come indipendenti, ‘soffiati’ al Pd di Elly Schlein che ne aveva esplorato eventuali disponibilità. Avs crede nella capacità di catalizzare consensi dell’insegnante Ilaria Salis. Agli arresti domiciliari in Ungheria dopo mesi di detenzione in attesa di processo, Salis ha affidato il suo biglietto da visita a una serie di cartoline su Instagram: “non sono una politica di professione, ho sempre fatto politica dal basso: nei movimenti, nelle lotte sociali e fra le persone comuni. Continuerò a dare respiro e forza ai temi e alle battaglie che hanno caratterizzato la mia storia”, con una bussola: “l’antifascismo”. Afferma di volere “opporsi alle umiliazioni, alle privazioni e ai soprusi” che i detenuti “subiscono nelle carceri d’Italia e d’Europa”.


I migranti e il Sud per Mimmo Lucano. Deluso dalle politiche Dem a guida Minniti (‘padre’ del Codice sulle navi Ong e fautore degli accordi con la Libia), l’ex sindaco di Riace si è visto riconoscere con sentenza che il suo modello di accoglienza era dettato dal desiderio di “aiutare gli ultimi”. “O c’è Riace, la nostra Riace, o c’è la loro Cutro”, sostiene. “È tempo di passare da un’ottica di emergenza a una visione di accoglienza inclusiva e sostenibile, per costruire comunità più forti e aperte”. L’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, fatto fuori dalla sua stessa maggioranza, il Pd ai tempi di Matteo Renzi premier, da chirurgo negli States, torna in politica, in sella alla sua bici, per difendere la Sanità pubblica e per lottare contro i cambiamenti climatici con un ‘pallino’: bloccare l’inceneritore “più grande di Europa” nella Capitale guidata dal dem Roberto Gualtieri.


Leoluca Orlando, sindaco durante la Primavera di Palermo, rivendica le battaglie contro la mafia, sostiene di ispirarsi a Giuseppe Dossetti e Alexandre Langer, ricorda il rapporto “antico” di “amicizia e affetto” con Nichi Vendola, e si toglie qualche sassolino: il Pd ha ceduto al “veto dei capicorrente locali”, ha replicato a chi lo accusava di essere alla ricerca di uno spazio politico. Infine Cristina Guarda, che sui social si descrive così: “imprenditrice agricola e la più giovane eletta in Consiglio regionale Veneto. Ecologista instancabile e politica per la Giustizia climatica”. Nei limitati spazi di visibilità di un partito che alle politiche ha avuto poco più del 3,5%, Bonelli e Fratoianni potranno fare un bilancio del sodalizio rodato in questi mesi, tra esposti (sul Ponte sullo stretto di Messina e la strage di Cutro), qualche distinguo, video-duetti e battaglie parlamentari (con 10 deputati tra cui gli stessi Bonelli e Fratoianni e quattro senatori). Augurandosi che il partito dell’astensione e la new-entry ‘Pace, terra e dignità’ di Michele Santoro e Raniero La Valle non peschino nel loro bacino elettorale.

Corsa solitaria Calenda verso l’orizzonte Renew: noi “Siamo Europei” credibili

Corsa solitaria Calenda verso l’orizzonte Renew: noi “Siamo Europei” credibiliFirenze, 6 giu. (askanews) – Nella faida che per mesi ha travagliato il centro – con nascita, morte, risurrezione e definitivo scioglimento, con annessi insulti personali, del Terzo Polo – Carlo Calenda e’ rimasto solo. Volutamente. Il “mai più con Renzi”, proclamato già dall’estate scorsa, con la formazione centrista ai titoli di coda, ha retto alla tentazione di una lista unica di centro riformista ed europeista per le Europee. Non è servito a niente nemmeno il presunto pressing del presidente francese Emmanuel Macron e dei vertici di Renew Europe per un rassemblement che tenesse uniti i moderati italiani: Calenda l’ha liquidato come una “una palla, non esiste” e ha ribadito in tutte le salse di “non poter fare una lista dove prendo i voti di Totò Cuffaro” né “con persone pagate da Stati stranieri quando andiamo in Europa a dire che chi siede al Parlamento europeo deve essere indipendente”. Ogni riferimento ai fatti o persone non è puramente casuale.


Così Calenda corre alle elezioni Europee alla guida della lista Siamo Europei che riunisce, appunto, Azione e altri otto tra partiti e movimenti politici: il Partito Repubblicano Italiano; il Movimento Repubblicani Europei; la Piattaforma Civica Popolare Riformatrice; la Democrazia Liberale; il Team K, un partito della provincia autonoma di Bolzano; l’Associazione Socialista Liberale; i Popolari Europeisti Riformatori di Elena Bonetti, uscita da Italia Viva ed entrata in Azione; e NOS, il partito del fondatore di Will Media Alessandro Tommasi. Con un programma in dieci punti – “siamo gli unici insieme a Forza Italia ad averne uno” e il nostro “è stato giudicato il più credibile”, ha rivendicato – il leader di Azione è capolista ovunque tranne che nella circoscrizione Nord Ovest, guidata da Elena Bonetti, ex ministro per le Pari opportunità e la Famiglia nei governi Conte II e Draghi. In più di un’occasione Calenda ha esaltato la “qualità e la competenza” dei candidati della lista. C’è anche Federico Pizzarotti come terzo nome nel Nord-Est, l’ex sindaco di Parma ha lasciato +Europa proprio in disaccordo per l’alleanza con Renzi. A Nord Ovest spunta Giuseppe Zollino, docente dell’università di Padova, insieme alla pro rettrice vicaria dell’università Statale di Milano Maria Pia Abbracchio e il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser. Al Centro Azione schiera l’ex dem Alessio D’Amato, assessore alla salute nella giunta Zingaretti durante la difficile pandemia da Covid 19.


Calenda inizialmente aveva lanciato, inascoltato insieme al segretario di Forza Italia Antonio Tajani, la proposta a tutti i leader di non candidarsi capolista ma poi “la discesa in campo della premier Giorgia Meloni con la sua piattaforma anti-europea e sovranista ha cambiato completamente lo scenario”. Quindi si è candidato, se eletto non andrà a Bruxelles ma tutti i suoi candidati – ha assicurato – non solo lo faranno ma confluiranno “a differenza di altri che si sparpaglieranno in più partiti” “tutti nel gruppo di Renew Europe”. Il nemico da sconfiggere è il populismo, nelle sue varie forme. “L’idea di Europa della Meloni è la fine dell’Europa. Contro questo modello da ‘discepola di Orbán´ combatteremo alle elezioni europee. L’Italia è un grande Paese fondatore dell’Ue, non l’Ungheria degli amici di Putin. Mobilitiamoci”, il grido di battaglia dell’ex ministro. Mai dichiarati – come del resto gran parte degli altri leader – gli obiettivi percentuali della partita per le Europee. C’è ovviamente da superare lo sbarramento del 4%, ma questo non sembra preoccupare Calenda che in campagna elettorale ha ricordato più volte come l’andare “da solo” alle Comunali a Roma nell’autunno 2021 gli avesse portato proprio bene: allora la sua lista civica ottenne il 19,8% dei consensi.

Renzi-Bonino più diversi non si può, ma fanno coppia per Stati Uniti Europa

Renzi-Bonino più diversi non si può, ma fanno coppia per Stati Uniti EuropaFirenze, 8 giu. (askanews) – L’icona radicale, già europarlamentare, e l’ex “tutto”. Ex premier, ex segretario del Pd, ex sindaco di Firenze. Emma Bonino e Matteo Renzi sono i due, diversissimi, registi della lista di scopo per le elezioni Europee denominata Stati Uniti d’Europa. Nessuno, per loro, si è azzardato a tirare fuori la definizione di “strana coppia”. Forse perché banale o forse perché espressione fin troppo abusata in occasione di un’altra coppia, di cui era parte ancora Renzi: quella con Carlo Calenda, finita con un velenoso divorzio. Ma, al di là delle provenienze opposte – cattolica quella di Renzi, laica e Radicale quella di Bonino – i due sono accomunati da qualcosa in questa tornata elettorale: la voglia di “rimettersi in gioco”. E a loro si sono uniti anche i socialisti del Nuovo Psi di Vincenzo Maraio.


Le trattative per la lista di scopo hanno tenuto un po’ col fiato sospeso e del resto la fine ingrata del Terzo Polo si è portata dietro il veto di Calenda a nuove alleanze con Renzi e, a cascata, qualche smottamento come l’uscita di Federico Pizzarotti da +Europa, proprio in dissenso con la decisione di Emma Bonino di stringere un patto elettorale con Italia Viva. Se i componenti della galassia pannelliana si sono dispersi in diverse direzioni e alleanze Stati Uniti d’Europa sfoggia comunque un carattere fortemente radicale: in lista non c’è soltanto Emma Bonino ma anche Rita Bernardini, Marco Taradash e l’ex presidente dell’Unione delle camere penali, Giandomenico Caiazza, insieme all’adesione dei Radicali italiani. Nessuno si è illuso che la navigazione potesse essere semplice tanto che ci è già scappata la prima schermaglia tra i due leader. Al no secco di Matteo Renzi a un secondo mandato per l’attuale presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen Bonino ha ribattuto: “Io direi al mio alleato Renzi di stare più calmo e di aspettare l’esito delle elezioni”. Per Bonino, che ricorda come “trent’anni fa con Pannella sognassimo gli Stati Uniti d’Europa”, queste elezioni sono una svolta per fare crescere ancora “la patria europea e non l’Europa delle patrie”.


Quanto a Renzi, che conferma che se eletto si trasferirà a Bruxelles – perché candidarsi “come fanno gli altri leader e non andarci è una truffa, una cosa da ladri di democrazia” – confessa che il suo obiettivo è di “prendere un voto in più di Matteo Salvini, simbolo di un’Europa al contrario”. E appena arrivato in Ue lavorerà per portare Mario Draghi alla guida della Commissione europea. “L’ex premier sta bene su tutto – spiega -. Se dopo le elezioni ai Popolari toccherà la Commissione e a Renew il Consiglio, allora lo proporrò per il Consiglio”. Nelle liste l’ex premier è all’ultimo posto in quattro dei cinque collegi (tranne il Nord-Est) mentre Emma Bonino è capolista al Nord-Ovest, Graham Robert Watsonal al Nord-Est, Giandomenico Caiazza al Centro (con Bonino seconda), Enzo Maraio al Sud e Rita Bernardini nelle Isole. Tra i candidati nel Nord-Ovest c’è anche il giornalista e conduttore Alessandro Cecchi Paone.