Il futuro della Siria, il modello Libano e il ruolo della Turchia
Il futuro della Siria, il modello Libano e il ruolo della TurchiaRoma, 9 dic. (askanews) – All’indomani della caduta di Damasco e della rocambolesca fuga di Bashar al Assad a Mosca, la Siria “liberata” dalle forze antigovernative si interroga già sul suo futuro. Ed è in buona compagnia. Tutte le principali cancellerie europee e internazionali sono al lavoro perché la transizione dei poteri sia quanto più rapida, lineare e pacifica possibile. La parola d’ordine è “evitare il caos” in un Paese dilaniato da anni di guerra civile e facilmente penetrabile da chi intenda trasformarlo in un teatro di guerra per procura o, peggio, in un nuovo luogo di rinascita per i jihadisti dell’Isis. Diversi sono i Paesi che possono giocare un ruolo per una vera rinascita della Siria e molti guardano con interesse a quanto, ad esempio, potrà o saprà fare la Turchia di Recep Tayyip Erdogan.
Il ministro degli Esteri di Ankara, Hakan Fidan, ha chiesto la “formazione di un governo inclusivo” ed ha auspicato che i principali attori internazionali, in particolare le Nazioni Unite, “tendano la mano al popolo siriano”. Il capo della diplomazia turca ha assicurato che il suo Paese è “pronto a fornire il sostegno necessario” per garantire unità e sicurezza. “Vogliamo vedere una Siria in cui i diversi gruppi etnici e religiosi vivano in pace”, ha commentato. “Continueremo a lavorare per garantire il ritorno sicuro e volontario dei siriani e la ricostruzione del Paese”. Quali siano le reali intenzioni del grande gruppo di insorti siriani di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), nato da una costola di al Qaida, e del suo leader Abu Mohammed al Jolani, non è ancora chiaro. Secondo indiscrezioni del New York Times, negli ultimi giorni, i ribelli avrebbero comunicato segretamente con gli Stati Uniti, e sarebbero stati messi in guardia contro l’eventualità di allearsi con i militanti dell’Isis. Insomma, le prime mosse di al Jolani avrebbero in qualche modo deluso le previsioni di molti analisti. Il capo dei ribelli infatti ha deciso di non imporre la legge islamica né si è pronunciato in favore della persecuzione delle minoranze, in particolare quella cristiana. Appena arrivato a Damasco, rovesciato il regime più che ventennale di Assad, al Jolani ha invece chiesto a tutti i combattenti di deporre le armi, favorendo l’avvio di una nuova fase, apparentemente pacifica. “Non accetteremo e non permetteremo affatto che il caos delle armi appaia o spari per le strade”, ha detto.
Il modello Afghanistan, ipotizzato da qualcuno, sembra insomma piuttosto lontano. Almeno al momento. Mentre una delle ipotesi possibili è che i ribelli di Hayat Tahrir al-Sham guardino più verso il Libano e possano trasformarsi in un futuro più o meno prossimo in un partito che ricordi vagamente il movimento sciita libanese Hezbollah, ovvero una formazione fondamentalmente religiosa inserita in un quadro statale i cui poteri politici siano equamente suddivisi su base confessionale. Nell’attesa di capire quale strada intraprendere, al Jolani ha intanto deciso di attribuire il ruolo di custode della prima transizione al premier di Assad, Mohammed Ghazi al Jalali. Il primo ministro del regime continua a mantenere contatti con i ribelli di Hts ed ha assicurato di avere ricevuto garanzie del fatto che nessun siriano subirà danni o sarà discriminato dalle forze antigovernative per il proprio credo, la cultura o l’etnia. La disgregazione della Siria resta comunque un pericolo concreto, in particolare nelle aree a Nord-Est del Paese, controllate dai curdi. I segnali inviati dalla comunità curda in queste regioni lasciano pensare a una certa disponibilità al dialogo, ma per loro la sfida resta duplice: oltre al necessario confronto con la nuova leadership di Damasco, devono guardarsi dagli attacchi dell’Esercito nazionale siriano, formazione alleata di Hayat Tahrir al-Sham, composta soprattutto da turcomanni finanziati e armati da Ankara, proprio in funzione anticurda.
Con i responsabili dei ribelli hanno iniziato a parlare anche i vertici di Teheran. La Repubblica islamica, alleata di Assad e indebolita dalla sua uscita di scena, ha aperto una linea di comunicazione diretta con le forze antigovernative per “impedire una traiettoria ostile” tra i due Paesi. Da parte sua la Russia, che ha dato asilo politico ad Assad e ai suoi familiari, ha definito “prematuro” parlare della propria presenza militare in Siria, aggiungendo però che si tratta di “un argomento da discutere con coloro che saranno al potere”. Quindi il Cremlino ha espresso la volontà di mantenere il dialogo sulla Siria con tutti i Paesi della regione, compresa la Turchia. “Stiamo dialogando con altri stati della regione, anche sulle questioni siriane. La Siria attraverserà un periodo molto difficile associato all’instabilità. Naturalmente, è molto importante mantenere il dialogo con tutti i Paesi della regione. Siamo impegnati in questo, ci consulteremo e analizzeremo”, ha detto il portavoce Dmytri Peskov, senza commentare nulla “sull’andirivieni” di Assad. “Il mondo intero è rimasto sorpreso da quello che è successo. Non facciamo eccezione”, ha aggiunto. Anche dall’Italia è arrivato un appello alla “stabilità” nel Paese. Il rischio è che possa “diventare una nuova Libia, ma senza il petrolio”, ha avvertito il ministro degli Esteri Antonio Tajani in un’intervista a Repubblica. Il titolare della Farnesina ha ammesso che “non sarà facile mettere d’accordo” tutte le forze attive in Siria dopo la caduta del governo di Assad, anche se per ora hanno deciso di lasciare al Jalali al suo posto per garantire la transizione. Secondo il ministro, comunque, “pensare ad una forza di interposizione non è una soluzione praticabile”. In Siria, invece, si trovano già i carri armati e le truppe israeliane. Dopo la caduta di Assad, Israele ha preso il controllo del versante siriano del Monte Hermon e questa mattina l’esercito dello Stato ebraico ha annunciato di avere schierato truppe nella “zona cuscinetto” sulle alture del Golan. Le forze di difesa israeliane hanno precisato tuttavia che non interverranno negli “eventi interni in Siria” e che la presenza dei militari rappresenta una misura “limitata”, e “temporanea”, volta a garantire la sicurezza dello Stato ebraico.