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Acido ialuronico, plasma e staminali nuove frontiere per l’artrosi

Acido ialuronico, plasma e staminali nuove frontiere per l’artrosiRoma, 21 mar. (askanews) – Combattere l’artrosi si può, anche senza bisturi: dopo i trattamenti infiltrativi con farmaci antinfiammatori e quelli a base di acido ialuronico, oggi la ricerca si concentra su infiltrazioni con i derivati del sangue, i cosiddetti PRP (Plasma Ricco di Piastrine), fino ad arrivare ai trattamenti con le cellule mesenchimali estratte dal midollo osseo o dal grasso sottocutaneo. Parliamo di ortobiologia, metodiche che sfruttano le capacità rigenerative delle cellule del corpo umano con l’obiettivo di stimolare la ricrescita di alcuni tessuti e di attenuare l’infiammazione, trattamenti non chirurgici e mini invasivi che accendono nuove speranze per coloro che fino a qualche anno fa avevano come unica scelta terapeutica l’intervento di sostituzione protesica. Queste tecniche di medicina riparativa e rigenerativa sono applicabili al trattamento conservativo delle articolazioni, ma anche alla fase post-intervento chirurgico, per migliorarne l’esito, favorendo la guarigione dei tessuti.


L’artrosi è una malattia articolare cronico-degenerativa a carattere progressivo che colpisce in Italia circa 4 milioni di persone: “Per il trattamento dell’artrosi, patologia degenerativa che aumenta con l’età – spiega Alberto Momoli, Presidente della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, SIOT e Direttore UOC Ortopedia e Traumatologia, Ospedale San Bortolo, Vicenza – si sono aperte nuove strade per cure più conservative e, grazie alle tecniche di ortobiologia, siamo entrati in una nuova era in ambito ortopedico. Questo tipo di procedure riguarda però le fasi iniziali dell’artrosi, i gradi 2 e 3. Mentre se l’artrosi è di quarto grado non ci sono alternative all’intervento chirurgico. E’ fondamentale l’intervento precoce”. Evidenze scientifiche hanno dimostrato l’efficacia delle infiltrazioni con l’acido ialuronico e con il PRP, e la letteratura più recente anche quelle con le cellule mesenchimali, in particolare nell’articolazione del ginocchio. Fra i trattamenti infiltrativi in prima linea per il trattamento conservativo dell’artrosi di ginocchio c’è l’acido ialuronico che viene iniettato nell’articolazione allo scopo di lubrificarla e nutrire la cartilagine rimanente, una pratica clinica ormai diffusa che mostra benefici anche nell’artrosi dell’anca. Nel caso dell’articolazione del ginocchio, quando la risposta a questa terapia non fosse sufficiente, è possibile ricorrere alle infiltrazioni con i derivati del sangue, PRP. In questo caso, dal sangue del soggetto, opportunamente centrifugato, viene estratto il plasma ricco di piastrine che, iniettato, favorisce il rilascio di fattori di crescita piastrinica, cioè di molecole che consentono ai tessuti di ripararsi e rigenerarsi. Il PRP trova ampia applicazione anche nella rigenerazione dei tendini della spalla. Un’ulteriore possibilità, ancora in fase sperimentale, è offerta dalle cellule staminali mesenchimali estratte dal tessuto adiposo addominale e poi infiltrate nell’articolazione artrosica. “Si tratta di una procedura più complessa rispetto a quella prevista dalla cura con il PRP – precisa Momoli – ma si svolge anch’essa in regime ambulatoriale. In entrambi i casi è importante rivolgersi a centri certificati e con elevati standard qualitativi. Quando usato su persone con artrosi, il trattamento a base di cellule mesenchimali, utile anche in caso di tendiniti, è molto efficace sul ginocchio e un po’ meno sull’anca. Bisogna, comunque tener presente che tale cura è in grado solo di rallentare il processo artrosico, ma non di farlo regredire”.

Leucemia linfatica cronica, verso nuove opzioni trattamento

Leucemia linfatica cronica, verso nuove opzioni trattamentoRoma, 19 mar. (askanews) – Ci potrebbero essere nuove opzioni di trattamento per la leucemia linfatica cronica (LLC), abbinando la cosiddetta “dieta mima digiuno” a terapie mirate. Risultati promettenti in questo senso vengono da un gruppo di ricercatori dell’IFOM di Milano, guidato dal Professor Valter Longo, con la collaborazione del gruppo di ricerca del Dottor Claudio Vernieri, di IFOM e dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, presso il Dipartimento di Oncologia diretto dal Professor Filippo de Braud. I risultati dello studio sostenuto da Fondazione AIRC sono stati pubblicati sulla rivista “Cancer Research”. La leucemia linfatica cronica (LLC) è il tipo di leucemia più diffuso di leucemia nei Paesi occidentali (15-20% di tutti i casi di leucemia) e ha un’incidenza di 1-2 casi all’anno ogni 100.000 individui. “È una malattia complessa – premette Longo – con forme indolenti e aggressive che richiedono approcci terapeutici distinti”. I pazienti che manifestano una forma indolente mostrano una progressione lenta, mentre quelli che affrontano una variante aggressiva hanno un accumulo rapido di linfociti leucemici nel midollo osseo e nei tessuti linfoidi. L’accumulo sostituisce progressivamente le normali cellule ematopoietiche, portando infine a una citopenia ematica, ossia a una carenza di tutti gli altri tipi di cellule e componenti essenziali del sangue, tra cui un’estrema riduzione dei livelli di piastrine e dell’emoglobina, con effetti potenzialmente letali.


Mentre la forma aggressiva dev’essere trattata immediatamente, per la LLC indolente i medici spesso seguono una strategia di watch and wait (in italiano, letteralmente, “osservare e attendere”). Tale approccio consente di monitorare l’evoluzione clinica dei pazienti e di iniziare trattamenti farmacologici solo in caso di segni di peggioramento. Esistono diverse opzioni terapeutiche per il trattamento della LLC, che vanno dalla chemioterapia all’immunoterapia a diverse terapie mirate. Nonostante i notevoli progressi compiuti negli ultimi dieci anni, la ricerca di nuovi approcci di cura sostenibili ed efficaci rimane imperativa, soprattutto per un sottogruppo di pazienti che presenta forme particolarmente aggressive di LLC, caratterizzate da alterazioni del gene p53. In questo contesto alcuni farmaci sperimentali, come per esempio il bortezomib, stanno emergendo come promettenti.


Già in passato i ricercatori del laboratorio “Longevità & Cancro”, guidato da Valter Longo all’IFOM, avevano dimostrato che la dieta mima digiuno rende chemioterapia, immunoterapia e altri trattamenti più efficaci contro vari tipi di tumori solidi. “In questo nuovo studio” – spiega Longo – “ci siamo invece focalizzati sulla ricerca di una terapia che fosse meno tossica per il trattamento di un tumore del sangue”. Prosegue Longo: “Grazie al lavoro condotto da Franca Raucci e Claudio Vernieri – i due primi autori dell’articolo – abbiamo osservato, in esperimenti con topi affetti da leucemia, che la dieta mima digiuno può neutralizzare in parte i linfociti tumorali. Ciò sembra avvenire in parte grazie alla riduzione dei livelli di fattori di crescita, che di per sé pare rallentare la progressione tumorale”. “In questo studio – precisa Vernieri – sono anche stati esaminati gli effetti di otto cicli consecutivi di dieta mima digiuno in due pazienti affetti da LLC. Abbiamo osservato che, dopo 5-6 anni di approccio watch and wait, per nessuno dei due è stato necessario iniziare un trattamento farmacologico. Si tratta di un risultato preliminare ma promettente”.

Salute, entro il 2030 quasi 40% italiani soffrirà di rinite allergica

Salute, entro il 2030 quasi 40% italiani soffrirà di rinite allergicaRoma, 19 mar. (askanews) – Primavera, stagione apprezzata da molti, complici le giornate più lunghe, il clima temperato, e la possibilità di trascorrere più tempo all’aperto, un fattore che influisce notevolmente sull’umore. Non per tutti, però, è così. “La primavera è anche associata all’arrivo delle allergie respiratorie e al malessere che esse portano con sé, e lo sa bene il 25% della popolazione mondiale che ne soffre durante quello che è diventato ormai un periodo lunghissimo”. Lo ha affermato Giorgio Walter Canonica, General Executive Manager SIAAIC, Società Italiana di Allergologia, Asma e Immunologia Clinica  e Senior Consultant Humanitas Milano che con Assosalute, l’Associazione nazionale farmaci di automedicazione che fa parte di Federchimica, ha affrontato questo e altri aspetti legati al tema delle allergie respiratorie. Dai cambiamenti climatici in atto fino alle buone abitudini e all’utilizzo responsabile dei farmaci di automedicazione, ecco tutti i consigli per gestire al meglio la sintomatologia e minimizzare l’impatto delle allergie sulla vita quotidiana.


Le riniti allergiche, sebbene non siano un fenomeno nuovo, hanno registrato un peggioramento negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani e i bambini in età pediatrica, ma non solo: “In questi anni iniziano a emergere studi sull’insorgenza e sulla diffusione delle allergie anche dopo i settant’anni”, afferma il Professore. Le cause della maggiore incidenza delle allergie respiratorie sono diverse: “Dalla fine della pandemia”, prosegue, “si è assistito a una esplosione delle allergie respiratorie, complice il minor uso della mascherina, che per molto tempo ha avuto un effetto protettivo dall’inalazione dei pollini, allergeni, virus e inquinanti”. L’aumento delle allergie avrà un impatto significativo sulla salute e sulla qualità della vita di molte persone. Infatti, il Professore rivela che “secondo le proiezioni, tra il 35% e il 40% della popolazione italiana soffrirà di rinite allergica entro il 2030”. Non solo la pandemia ha avuto un impatto significativo sulla nostra salute e sul nostro benessere, ma anche il cambiamento climatico e l’inquinamento stanno emergendo come minacce crescenti, anche se necessitano ancora di molte analisi per valutarne l’impatto sulle allergie respiratorie. “Dobbiamo affrontare la prossima stagione con le dita incrociate. Se il trend continua a essere lo stesso, complici anche i livelli di inquinamento presenti nell’aria, dobbiamo attenderci sicuramente una primavera molto impattante per coloro che sono allergici”, sottolinea. Gli effetti del cambiamento climatico, in particolare l’aumento della temperatura, influiscono sulla stagione di pollinazione, che, rispetto al passato, è più lunga: “Gli allergici alla Parietaria, infatti, faranno i conti con le allergie da febbraio a novembre, non è più, dunque, una condizione stagionale ma perenne”, commenta il Professore, “il cambiamento climatico, che ne è la causa, ha comportato un aumento del numero di pollini sia nella quantità che nella durata del fenomeno”. A questo, poi, va aggiunto il danneggiamento della mucosa respiratoria da parte dell’inquinamento ambientale, “agevolando la penetrazione degli allergeni e stimolando la risposta allergica. Più aumenta l’inquinamento e più il danno della mucosa diventa importante, contribuendo così a potenziare la risposta anomala che causa i sintomi dell’allergia”, mette in guardia il Professore. Ecco, dunque i 5 consigli dell’esperto. 1. La protezione dall’esposizione agli allergeni, pollini e inquinanti ad esempio tramite l’uso della mascherina, è sempre consigliata. 2. Attenzione al meteo. I fenomeni metereologici quali temporali e precipitazioni abbondanti, con conseguenti scariche elettriche che possono rompere i pollini, possono peggiorare la condizione allergica. Meglio dunque evitare le passeggiate in presenza di questi eventi. 3. Trattamento farmacologico preventivo. Bisogna prendere consapevolezza dei segnali d’allarme. I farmaci di automedicazione, contraddistinti dal bollino rosso che sorride sulla confezione, possono essere utilizzati non appena compaiono i primi sintomi. Tra questi si consigliano i farmaci antistaminici e antiallergici disponibili come spray nasali, colliri e compresse. Su questi ultimi si consigliano quelli di ultima generazione, che sono sempre una sicurezza assoluta e consentono di proseguire con serenità le attività quotidiane. Oggi esistono anche le combinazioni di steroidi nasali con antistaminici che sicuramente hanno cambiato la strategia terapeutica della rinite allergica. 4. Diagnostica corretta. Per una prima diagnosi è opportuno un consulto con il medico di medicina generale. Se la patologia è riferibile al fenomeno di tipo allergico, per individuarne la causa è sempre meglio affidarsi all’allergologo che definirà poi la terapia farmacologica più idonea o, in caso di situazioni gravi, indirizzerà verso l’immunoterapia specifica. 5. Pulizia degli ambienti. In casa, è fondamentale prestare attenzione agli acari della polvere e alla forfora degli animali da compagnia. Per i primi, si consiglia di utilizzare per materassi e cuscini delle fodere anti-acari, rappresentando questi la fonte principale degli acari.  Per gli animali conviene lavarli una volta alla settimana al fine di rimuovere il più possibile gli allergeni dal loro pelo e tenerli lontano da divani e mobili imbottiti, che possono trattenere gli allergeni. 

Bambino Gesù: inaugurata la nuova Sala di Elettrofisiologia di Palidoro

Bambino Gesù: inaugurata la nuova Sala di Elettrofisiologia di PalidoroRoma, 19 mar. (askanews) – Una nuova sala di elettrofisiologia, con la tecnologia più avanzata, per diagnosticare e trattare le aritmie cardiache di bambini e adolescenti, è stata inaugurata presso la sede di Palidoro dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, dove ogni anno vengono eseguite circa 1500 procedure di elettrofisiologia e cardiostimolazione.


Il progetto di ristrutturazione della sala di elettrofisiologia è stato realizzato grazie al coinvolgimento della funzione Servizi Tecnici dell’Ospedale e ha consentito di rinnovare la strumentazione dotando la sede di Palidoro delle tecnologie più avanzate attualmente disponibili per la diagnosi e il trattamento delle aritmie cardiache associate o meno a cardiomiopatie, canalopatie e cardiopatie congenite. La sala è stata dotata di un nuovo apparecchio angiografico che consente di effettuare, insieme all’uso di poligrafi tridimensionali, le procedure di ablazione transcatetere per l’eliminazione delle aritmie veloci e l’impianto di pacemaker e defibrillatori. La nuova apparecchiatura impiantata nella Sala permette di integrare tutta la strumentazione impiegata nella realizzazione delle procedure (poligrafo convenzionale per l’elettrofisiologia endocavitaria, sistemi di mappaggi cardiaci elettroanatomici tridimensionali e dispositivi di erogazione della energia ablativa, sia a radiofrequenza che a crioenergia). È possibile anche visualizzare in un unico maxi schermo i segnali video di tutte le apparecchiature di sala. La nuova sala garantisce inoltre la piena operatività anche in condizioni di blackout dell’energia elettrica.


«Grazie alla nuova sala, con la sua innovativa tecnologia e la capacità di integrazione di tutti gli strumenti, migliorerà ulteriormente l’attività di elettrofisiologia e cardiostimolazione dell’Ospedale – ha spiegato il dottor Fabrizio Drago, responsabile di Cardiologia e Aritmologia delle sedi di Palidoro, Santa Marinella e San Paolo dell’Ospedale – la nuova configurazione, come la possibilità di seguire in unico schermo i monitor di tutte le apparecchiature, migliorerà l’efficienza dei processi riducendo le possibili complicanze, consentendo una maggiore velocità e il miglioramento delle cure». L’elettrofisiologia cardiaca si occupa di studiare e trattare i disturbi connessi al funzionamento elettrico del cuore. La storia ha inizio al Bambino Gesù lontano 1988, con il primo studio elettrofisiologico transesofageo in un adolescente con sindrome di Wolff-Parkinson-White, effettuato dal dottor Fabrizio Drago. Nel corso degli anni, l’attività si è sviluppata progressivamente sia dal punto di vista diagnostico che interventistico, guadagnando riconoscimento a livello internazionale nel 2002, con la pubblicazione dei primi casi al mondo di ablazione transcatetere tridimensionale senza uso di raggi X, e nel 2005, con la prima esperienza al mondo di crioablazione endocardica per il trattamento delle tachiaritmie cardiache, un trattamento terapeutico alternativo all’ablazione termica con radiofrequenza che talora presenta complicanze in sedi cardiache molto sensibili.


Attualmente al Bambino Gesù si effettuano tutti gli interventi previsti per la diagnosi e per la cura dei disturbi aritmici nel bambino. Nell’ambito della diagnosi, l’Ospedale effettua studi elettrofisiologici transesofagei a riposo e sotto sforzo, studi elettrofisiologici endocavitari e mappaggi elettro-anatomici 3D, impianti di apparecchi sottocutanei di registrazione della attività elettrica cardiaca (ILR). Sul fronte della elettrofisiologia interventistica vengono realizzate ablazioni transcatetere 3D con uso di radiofrequenza o con uso di crioenergia. Per quanto riguarda infine la cardiostimolazione, vengono effettuati impianti endocardici ed epicardici di pace-maker (PM), di defibrillatori impiantabili (ICD) e impianti sottocutanei di ICD. Nel 2023 presso il Bambino Gesù sono state effettuate circa 1500 procedure di elettrofisiologia e cardiostimolazione. Negli ultimi 30 anni sono state 150 le pubblicazioni scientifiche su numerose riviste internazionali.

SSN, Nursind: più autonomia a infermieri per ridurre liste attesa

SSN, Nursind: più autonomia a infermieri per ridurre liste attesaRoma, 19 mar. (askanews) – “Rafforzare l’assistenza territoriale e al tempo stesso ridurre le liste d’attesa. Sono due obiettivi che sarebbero alla portata se solo si volesse intervenire sul piano normativo con alcune modifiche mirate, dimostrando quel coraggio che fino a ora è mancato alle istituzioni. Si tratterebbe di innovazioni, tra l’altro, i cui costi ricadrebbero sul finanziamento standard del contratto di lavoro e non richiederebbero risorse aggiuntive”. È questo, in sintesi, il senso del ragionamento che il segretario del Nursind, Andrea Bottega, ha portato al tavolo dell’Intergruppo parlamentare per la prevenzione e la cura delle malattie autoimmuni, nel corso della riunione di oggi dedicata proprio al tema dell’assistenza territoriale. “La modalità con cui si gestiscono i bisogni sanitari ha mostrato tutti i suoi limiti già durante la pandemia. Bisogna prenderne atto e voltare pagina se si vuole davvero disegnare la sanità del futuro – continua Bottega -. Altrimenti si rischia di rimanere schiacciati dagli attuali eccessi burocratici, con il duplice effetto negativo di oberare, da una parte, i medici con attività che sarebbero a tutti gli effetti di competenza infermieristica e di svilire, dall’altra, il lavoro dell’infermiere che, da professione sempre meno attrattiva, non ha certo bisogno di veder ulteriormente limitata la propria autonomia e inibita la valorizzazione economica”. Un esempio su tutti, prosegue il segretario Nursind, “ce lo offre l’esperienza lavorativa in ambito chirurgico ospedaliero. La gestione delle ferite, tra medicazioni e rimozione punti, occupa ogni giorno uno o più medici per metà giornata. Un lasso di tempo che potrebbe essere dedicato alle prime visite, smaltendo quindi le liste d’attesa, se solo si attribuisse la gestione delle ferite post dimissione ad un infermiere appositamente formato. Ma lo stesso vale per altre figure quali il tecnico di radiologia o di laboratorio”. Quindi Bottega si sofferma sulle soluzioni che potrebbero essere messe in campo e che, rimarca, “sono state condivise anche dalla Commissione Salute delle Regioni in epoca pre-Covid”. Tra queste: “Dare avvio alle lauree specialistiche abilitanti per esempio in infermieristica pediatrica, sanità pubblica, infermieristica di famiglia, semplificando in tal modo anche le classi di laurea; istituire un nomenclatore tariffario per le attività infermieristiche con la possibilità di istituire degli ambulatori infermieristici autonomi; dare la possibilità agli infermieri di prescrivere i presidi di comune uso assistenziale”. Ma anche, “rivedere la normativa sull’utilizzo degli apparecchi radiologici per dare la possibilità al tecnico di radiologia di eseguire in autonomia gli esami diretti”, oltre che “modificare la legge 42 del 1999 sulle Disposizioni in materia di professioni sanitarie e dare forza di legge agli accordi Stato-Regioni che vanno a regolamentare aspetti specifici dell’assistenza”. “I fondi del Pnrr sono un’occasione da non sprecare per riformare la sanità territoriale – conclude il segretario del Nursind -. È stata normata la figura specifica dell’infermiere di famiglia, basterebbe partire da qui: quale opportunità migliore, infatti, dal momento che ancora non ne sono state definite le competenze, per allargare il perimetro delle sue attività?”.

Insuccesso ostetrico ricorrente: “responsabili” anche i papà

Insuccesso ostetrico ricorrente: “responsabili” anche i papàRoma, 18 mar. (askanews) – C’è anche la complicità della qualità del liquido seminale in storie di donne che incorrono in aborti spontanei ricorrenti, cioè nella perdita di due o più gravidanze successive. L’insuccesso ostetrico, oggi attribuito in prevalenza a fattori femminili, come squilibri ormonali e metabolici, malformazioni uterine, infezioni del tratto genitale, alterazioni della coagulazione, avrebbe una potenziale spiegazione nell’uomo. Recenti studi retrospettivi multicentrici, che proseguiranno anche grazie a finanziamenti di Fondazione Humanitas per la Ricerca, coordinati dai ricercatori del Centro Multidisciplinare di Patologia della Gravidanza di Humanitas San Pio X, sotto la guida di Nicoletta Di Simone, Professore Ordinario di Ginecologia e Ostetricia in Humanitas University, dimostrano la co-responsabilità in episodi di abortività spontanea ricorrente anche di anomalie del liquido seminale (ad esempio un inadeguato numero di spermatozoi, la loro morfologia alterata e la motilità ridotta), così come di possibili frammentazioni del DNA spermatico o e, non ultimo, di infezioni.


Infezioni e DNA sono “fattori di rischio” nuovi e di grande importanza, tanto da indicare una strada per poter cambiare in un prossimo futuro l’approccio diagnostico-terapeutico all’insuccesso ostetrico, che ad oggi nel 40% dei casi resta ancora idiopatico, cioè non associato a una causa specifica. “Partiamo dalle infezioni genito-urinarie – esordisce la Professoressa Di Simone – che stanno registrando in epoche recenti una sempre maggiore incidenza, e fra queste l’infezione da Human Papilloma Virus (HPV), responsabile come è noto dell’insorgenza di patologie oncologiche a danno dell’apparato genito-urinario, quali il tumore della cervice uterina, o di malattie sessualmente trasmissibili. Ma ci sarebbe una implicazione anche nella capacità di concepimento: recenti studi condotti presso il nostro centro attestano un’associazione tra infezione maschile da HPV e storie di insuccesso ostetrico nel primo trimestre di gravidanza. Si tratta di una informazione importante che apre a nuove possibilità terapeutiche che dovranno essere attentamente studiate e valutate. Inoltre, di particolare interesse è anche l’evidenza di una relazione fra aumentato indice di frammentazione del DNA spermatico e la maggiore incidenza di abortività ricorrente, che ha escluso alcuni fattori prima ritenuti responsabili o confondenti”. Oggi definire il ruolo dell’indice di frammentazione del DNA spermatico in coppie con problemi di infertilità è possibile grazie a un test, poco invasivo ma molto efficace, che si effettua direttamente sul liquido spermatico con un semplice prelievo. “Negli ultimi anni – prosegue Di Simone – è cresciuto l’interesse per l’integrità del DNA degli spermatozoi e il suo ruolo in spermiogramma con valori di qualità nella norma: come abbiamo riassunto in una recente review sul tema, andrebbe valutata la possibilità di utilizzare questo parametro come nuovo strumento per comprendere il potenziale contributo maschile alla fertilità e alle problematiche connesse. Le prime evidenze, dopo analisi condotte su diverse tipologie di uomini, coloro con comprovata fertilità, con almeno due gravidanze portate a termine con successo, o comprovata infertilità, cioè mancato raggiungimento di una gravidanza dopo 12 mesi o più di rapporti sessuali regolari non protetti, e uomini appartenenti a coppie con storia di abortività ricorrente, mostrano un’associazione significativa tra indice di frammentazione del DNA spermatico e aborti spontanei ricorrenti”.


Queste informazioni stanno cambiando l’approccio all’insuccesso ostetrico: “è fondamentale – conclude Di Simone – affrontare le problematiche di infertilità non limitatamente al singolo individuo, ma alla coppia, ovvero mettendo sullo steso piano il contributo sia del partner maschile sia femminile. Ciò presuppone il coinvolgimento e la disponibilità di entrambi i partner ad affrontare insieme un percorso diagnostico terapeutico, motivo per il quale è necessario che la problematica venga approcciata in un’ottica di multidisciplinarietà, anche dal punto di vista della ricerca scientifica. La possibilità di effettuare una diagnosi ed una terapia adatta in un momento così delicato e di equilibrio precario come quello all’inizio della vita embrionale richiede dedizione ad una ricerca attenta ed accurata. E i risultati oggi li abbiamo: questo approccio ha permesso, nel tempo, di raggiungere un tasso di gravidanze spontanee, senza ricorrere a tecniche di fecondazione in vitro, elevato. Il 67% di coppie oggi stringono un bimbo fra le loro braccia”.

Università Cattolica, linee guida per il Long covid

Università Cattolica, linee guida per il Long covidRoma, 18 mar. (askanews) – Una «nuova emergenza di sanità pubblica» su cui a oggi in Italia siamo ancora poco attrezzati. Dagli aspetti pneumologici ai problemi cardiovascolari e alle sindromi metaboliche, fino alle malattie neuro-psichiatriche: sono solo alcuni sintomi di pazienti affetti dalla PASC, ovvero le sequele post acute dell’infezione da Sars-Cov-2, che l’OMS stima attorno al 6 percento tra coloro che hanno contratto l’infezione.


Ad avanzare una prima proposta concreta per la presa in carico di pazienti affetti dal Long-Covid è l’eBook dal titolo “Linee guida per il follow-up delle sequele da COVID-19”, curato da Claudio Lucifora e pubblicato dalla casa editrice Vita e Pensiero dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in occasione della Giornata Nazionale in memoria delle vittime del Covid, che si celebra oggi lunedì 18 marzo. «Nel maggio del 2023, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato ufficialmente conclusa l’emergenza pandemica del Covid19», spiega Claudio Lucifora, direttore del Centro di ricerca sul Lavoro “Carlo Dell’Aringa” (Crilda) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e coordinatore del progetto PASCNET, i cui risultati della prima fase sono raccolti proprio nell’eBook. «Le statistiche raccolte dall’OMS ci ricordano che dall’inizio della pandemia ci sono stati, in tutto il mondo, oltre 765.222.932 casi di contagio, con quasi sette milioni di morti. Nella sola Lombardia, i contagi sono stati oltre 4 milioni con quasi 50 mila decessi. Sebbene, per il momento, possiamo considerare vinta la sfida pandemica del Covid19, ancora molte persone, anche a distanza di anni dal contagio, convivono con gli effetti debilitanti del Long-Covid o, come meglio definito nella letteratura medica, la “PASC”». Ora, continua Lucifora, «tra i sintomi più frequentemente riportati ci sono dolori muscolari, problemi gastrointestinali, stanchezza, vuoti di memoria o di linguaggio. La cosiddetta nebbia o “brain fog” che, nei casi più gravi, possono compromettere l’assolvimento delle normali funzioni quotidiane», continua Lucifora. Per colmare questo gap è nato il progetto PASCNET “La sindrome post-Covid: far fronte a una nuova emergenza di sanità pubblica con una gestione innovativa e il network building”, di cui l’Università Cattolica del Sacro Cuore è capofila, ed è finanziato dalla Fondazione Cariplo nell’ambito del bando “Networking, ricerca e formazione sulla sindrome post-Covid”. Un progetto scientifico che coinvolge in una nuova alleanza diversi attori del Servizio sanitario nazionale: le Agenzie di tutela della salute, le Aziende socio-sanitarie territoriali e gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, e una rappresentanza dei medici di medicina generale. «I risultati della prima fase del progetto, ottenuti grazie alla collaborazione tra i clinici dei principali enti di cura e ricerca lombardi, sono pubblicati nel volume che, di fatto, presenta una prima proposta di linee guida, per il follow-up di pazienti affetti da sintomi legati al Long-Covid», dichiara Lucifora. «La scommessa è che le linee guida raccolte nel volume possano essere di supporto alla pratica clinica, contribuire a ottimizzare la presa in carico dei pazienti affetti dalle sequele post-acute dell’infezione da Covid, ma soprattutto offrire delle prospettive di guarigione e migliorare la loro salute».

Papà italiani i più vecchi d’Europa, Andrologi: si riduce qualità seme

Papà italiani i più vecchi d’Europa, Andrologi: si riduce qualità semeRoma, 18 mar. (askanews) – Diventare papà per la prima volta è un’esperienza che gli uomini italiani continuano a spostare sempre più avanti nel tempo, più di quanto si faccia negli altri Paesi europei. I più recenti dati Istat indicano, infatti, che in Italia si diventa papà mediamente a 35,8 anni, mentre in Francia a 33,9 anni, in Germania a 33,2, in Inghilterra e Galles a 33,7 anni. Un fenomeno sempre più frequente rispetto al passato che riguarderebbe circa il 70% dei nuovi papà italiani: ciò significa che 1 uomo su 3 è ancora senza figli oltre i 36 anni d’età. Una tendenza a ritardare la paternità che non è priva di conseguenze: numerose evidenze scientifiche dimostrano che le caratteristiche funzionali dello spermatozoo, cioè motilità, morfologia e anche i danni al DNA, peggiorano con l’età. A tutto questo si aggiunge al fatto che con l’avanzare dell’età aumenta il tempo di esposizione agli inquinanti ambientati esterni, come le microplastiche che negli ultimi anni hanno dimostrato essere un problema rilevante per la fertilità maschile. In più i cambiamenti climatici con l’aumento della temperatura globale hanno anch’essi un impatto negativo sulla fertilità maschile, dimostrato dalla riduzione volumetrica dei testicoli nella popolazione generale. Per questo, in vista della Festa del Papà, gli esperti della Società Italiana di Andrologia (SIA) puntano i riflettori sull’importanza di anticipare la paternità e, dove non possibile, di preservare la fertilità fin da giovani, principalmente attraverso un sano stile di vita, ma anche con il contributo di sostanze di estrazione naturali in grado di offrire protezione contro i danni del tempo e degli inquinanti ambientali esterni.


“In Italia l’età in cui si fa il primo figlio è aumentata di 10 anni, passando dai 25 anni della fine degli anni ’90 ai circa 36 attuali, che pongono il nostro Paese in cima alla classifica dell’età media del concepimento in Europa. Un fenomeno che riguarda quasi il 70% dei nuovi papà italiani. Ne consegue che 1 uomo su 3, superata questa soglia, è ancora senza figli. Questo significa che nel giro di pochi decenni si è passati da una situazione nella quale solo una ridotta minoranza arrivava senza figli all’età di 35 anni, a una nella quale la maggioranza della popolazione maschile rinvia oltre questa soglia anagrafica la prima esperienza di paternità – dichiara Alessandro Palmieri, Presidente SIA e Professore di Urologia alla Università Federico II di Napoli -. Un accentuato ritardo maschile che può essere imputato a vari motivi di ordine culturale, economico e biologico, ma anche dall’allungamento della vita che nella donna non influenza, invece, la possibilità riproduttiva rimasta ferma intorno ai 50 anni. Tutto questo concorre nel rendere gli uomini più propensi a un rinvio della paternità, toccando anche estremi che arrivano a superare addirittura i 45-50 anni, per cui saranno padri-nonni prima che il figlio diventi maggiorenne – sottolinea -. La nostra società sta assegnando alla riproduzione un ruolo tardivo dimenticando che la fertilità, sia maschile che femminile, ha il suo picco massimo tra i 20 e i 30 anni e che la potenzialità fecondante del maschio è in netto declino – precisa Palmieri -. Oggi con le difficoltà economiche, tutti si trovano costretti a ritardare e aspettare di sistemarsi prima di fare figli. Con l’avanzare dell’età però la fertilità diminuisce perché anche gli spermatozoi ‘invecchiano’ e bisogna insegnare alle giovani generazioni l’importanza di una fertilità sana al momento giusto che va preservata fin da giovani”.

Alzheimer, nei supermercati tornano le azalee per la ricerca Airalzh

Alzheimer, nei supermercati tornano le azalee per la ricerca AiralzhRoma, 18 mar. (askanews) – Da Giovedì 21 a Domenica 31 Marzo, in tutti i Supermercati e Ipermercati Coop aderenti sul territorio italiano, torna la campagna “Non ti scordar di Te” grazie alla quale si può sostenere Airalzh Onlus dando un contributo alla Ricerca contro la malattia di Alzheimer. In occasione della Pasqua, infatti, sarà possibile acquistare una o più piante di azalea. Per ogni pianta venduta, 1 Euro sarà devoluto ad Airalzh Onlus (Associazione Italiana Ricerca Alzheimer), Associazione toscana con sede a Barberino di Mugello, unica a promuovere la Ricerca medico-scientifica, a livello nazionale, sulla malattia di Alzheimer e altre forme di demenza.


Le azalee, assieme alle rose in vaso (per la festa della Mamma) e dei ciclamini (per Natale) rientrano nella campagna “Non ti scordar di Te” con cui Coop – dal 2016 – promuove diverse iniziative sul territorio con l’obiettivo di raccogliere fondi a favore di Airalzh Onlus e della Ricerca scientifica. Dal 2016 oltre 3 milioni di Euro sono stati impiegati da Airalzh Onlus per finanziare 82 Assegni di Ricerca, 26 progetti di Ricerca relativi al Bando AGYR (Airalzh Grants for Young Researchers) e 2 progetti, frutto della collaborazione fra Airalzh e la Fondazione Armenise Harvard, rivolto a Ricercatori “mid-career”. Altri 300mila Euro sono a budget per il Bando AGYR 2024 di cui, da poco, si sono aperte le fasi per presentare la propria candidatura.


Grazie a “Non ti scordar di Te”, Coop Italia rinnova il proprio impegno nel sostenere, assieme ad Airalzh, la Ricerca contro l’Alzheimer. Una pianta di azalea che può contribuire nella Ricerca e nel dare speranza ad oltre 3 milioni di persone tra pazienti, famigliari e caregiver.

Dermatite atopica, tornano gli open day: consulti gratuiti in tutta Italia

Dermatite atopica, tornano gli open day: consulti gratuiti in tutta ItaliaRoma, 15 mar. (askanews) – Si riaprono le porte della dermatologia di oltre 40 Centri universitari ed ospedalieri in occasione della campagna di sensibilizzazione sulla Dermatite Atopica dell’adulto “Dalla parte della tua pelle”, promossa dalla SIDeMaST, Società Italiana di Dermatologia e Malattie Sessualmente Trasmesse e giunta alla sua quarta edizione. Un’iniziativa che consentirà ai cittadini di tutta Italia di ricevere, dal 23 marzo al 15 aprile 2024, consulenze dermatologiche gratuite. La campagna – realizzata con il Patrocinio di ADOI (Associazione Dermatologi-Venereologi Ospedalieri Italiani e della Sanità Pubblica) e ANDeA (Associazione Nazionale Dermatite Atopica) e con il contributo non condizionante di Sanofi – sull’onda del successo dello scorso anno ha ampliato la sua offerta: rispetto ai 28 centri che nel 2023 hanno aderito all’iniziativa, mettendo sotto la lente più di 1300 pazienti, quest’anno quelli coinvolti saranno più di 40, da Nord al Sud del Paese. Grazie ai consulti realizzati durante gli “Open Day” sarà possibile, in caso di diagnosi positiva, indirizzare i pazienti verso i Centri di riferimento SIDeMaST sul territorio affinché intraprendano il percorso terapeutico più adatto ad ognuno di loro. Per accedere ai consulti la prenotazione è obbligatoria al numero verde 800086875 attivo 7 giorni su 7 dalle 10 alle 18, a partire dalle ore 14.00 di venerdì 15 marzo 2024. Info al sito web: https://www.sidemast.org/dalla-parte-della-tua-pelle-2024.


“La campagna ‘Dalla parte della tua pelle’ – spiega Giuseppe Argenziano, Presidente SIDeMaST – ha un immenso valore etico e strategico per la nostra società. Si tratta non solo di avvicinare sempre di più le persone che soffrono di questa malattia invalidante ai dermatologi che hanno il compito di curarla al meglio, ma anche di sensibilizzare la popolazione tutta alle misure di prevenzione della dermatite atopica.” Gli fa eco Marco Ardigò, Membro del Consiglio Direttivo SIDeMaST e Responsabile per le Campagne di sensibilizzazione: “Questa nuova edizione della campagna, rispetto agli anni precedenti, estende in modo significativo il progetto ad altri centri dermatologici italiani, al fine di raggiungere il maggior numero possibile di pazienti sul territorio nazionale. L’obiettivo è sia di sensibilizzare i cittadini al tema della dermatite atopica, sia di avvicinare i pazienti ai centri specializzati italiani in grado di offrire assistenza diagnostica e proposte terapeutiche innovative”


“La dermatite atopica – conclude Maria Concetta Fargnoli, Vicepresidente SIDeMaST – interessa circa il 20% dei bambini ed il 2-5% degli adulti. Nell’adulto si manifesta con secchezza, arrossamento, escoriazioni ed ispessimento della pelle, accompagnati da intenso prurito. Si localizza prevalentemente a livello del volto e del collo, pieghe antecubitali (piega del gomito), cavi poplitei (dietro al ginocchio) e mani ma può interessare anche zone più estese del corpo. Il prurito è il sintomo più importante, può essere molto intenso ed interferire con il sonno, le attività quotidiane, lo studio e le capacità lavorative. Le manifestazioni cliniche spesso localizzate in zone visibili ed il prurito condizionano negativamente la vita personale e le relazioni sociali del paziente con importanti ricadute sulla loro qualità di vita e sulla sfera psicologica”.