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Aris: allarme liste attesa, con nuove tariffe raddoppieranno

Aris: allarme liste attesa, con nuove tariffe raddoppierannoRoma, 20 feb. (askanews) – “L’entrata in vigore del nuovo Nomenclatore tariffario per le prestazioni ambulatoriali specialistiche e protesiche, sarà un disastro per i pazienti: le liste di attesa si raddoppieranno”. L’allarme arriva dal Presidente delle strutture gestite da enti ecclesiastici riunite nell’ARIS-Associazione religiosa istituti socio-sanitari, padre Virginio Bebber, in rappresentanza della gran parte degli Istituti socio-sanitari no profit di area cattolica, riconosciuti parte integrante del SSN sin dalla prima legge istitutiva dello stesso. Strutture che operano al fianco del servizio pubblico in virtù di convenzioni con le regioni, alle stesse condizioni del pubblico secondo tariffe stabilite che , sottolineano all’Aris, “sono ferme da venti anni, nonostante il continuo aumento dei prezzi di mercato”. Dunque, secondo l’Associazione “una nuova bufera sta per abbattersi sulle già traballanti spalle della sanità del nostro Paese. E ancora una volta a farne le spese saranno quanti hanno bisogno di assistenza sanitaria”.


“Le tariffe – spiega Bebber – ovvero quanto viene riconosciuto alle strutture che erogano gli esami, sono assolutamente inadeguate, irrealistiche e porteranno in futuro enormi problemi. Un esempio per capire meglio: le visite specialistiche (cardiologiche, ortopediche, neurologiche, ecc.) hanno una tariffa di 22 euro, cifra che è insufficiente a coprire i costi del medico specialista, del personale infermieristico, del servizio di prenotazione, delle utenze e delle pulizie. Ogni visita genera una perdita almeno di 25 euro. Sono molte le prestazioni che hanno tariffe che non coprono neanche i costi diretti di produzione, anzi, rispetto al tariffario precedente, si ha una riduzione complessiva del 30% (facendo il calcolo su tutte le prestazioni). In sintesi: è un sistema non sostenibile”. Per l’Aris le cifre parlano chiaro: “Eseguire, per esempio, una Colonscopia prevede circa 30 minuti di tempo, l’impiego di un medico e due infermieri, l’uso di tecnologie e altri materiali necessari; un lavoro amministrativo. La nuova tariffa prevede 95,90 euro per questa prestazione. Analizzando i costi che deve sostenere la struttura bisogna fare questi conti: 1 medico costa 39 euro; 2 infermieri 35 euro; ricondizionamento apparecchiatura post erogazione 20 euro; gestione certificazione 4 euro; risveglio 2 euro per un totale di 125 euro, ai quali vanno aggiunti: 18 euro per la manutenzione degli strumenti tecnologici, 21 euro per l’ammortamento e 17 per costi amministrativi. Ciò significa che, applicando il nuovo tariffario, la struttura dovrebbe erogare la prestazione richiesta con una perdita di circa 85 euro. Due ore di ambulatorio coprirebbero 4 Colonscopie che per la struttura significherebbero 340 euro di perdita. Se si considera, poi, un intervento leggermente più complesso come l’asportazione di polipi dall’intestino crasso con endoscopia, secondo il nuovo nomenclatore a tariffa 117,05, e si analizzano con gli stessi criteri costi effettivi sopportati dalla struttura, che ammontano a 270 euro, si capisce bene che l’intervento richiesto comporta per la struttura una perdita di circa 153 euro. Così per un Biopsia microistologica mammaria con aspirazione automatica sotto guida stereotassica la Vecchia Tariffa prevedeva 774 euro; la Nuova Tariffa ne prevede 429, dunque la differenza costi ricavi è – 345 euro. Per attività radiologica ambulatoriale una Casa di Cura ha erogato nel 2023, 37.346 prestazioni radiologiche con la vecchia tariffa; le stesse calcolate con la nuova tariffa segnalano una perdita di 67.381 euro”. Le aziende sanitarie convenzionate e non profit ricordano di “non poter contare su un ripianamento dei buchi di gestione a carico delle regioni” e dunque si trovano nella situazione di “dover ridurre le prestazioni per non incrementare le perdite, andando quindi a diminuire i servizi per coloro che hanno bisogno e aumentando le liste di attesa a dismisura”. “È necessario – concludono – che il nuovo tariffario tenga in considerazione questa realtà, e i costi effettivamente sostenuti e che il rimborso sia equo. Per questo chiediamo al governo di: ridefinire le prestazioni in base ai costi reali attuali; ascoltare chi quotidianamente opera con esperienza e professionalità; rinviare l’entrata in vigore del nuovo nomenclatore”.

Maculopatie, Cittadinanzattiva: subito nei Lea. Una Road Map in 16 punti

Maculopatie, Cittadinanzattiva: subito nei Lea. Una Road Map in 16 puntiRoma, 20 feb. (askanews) – In Italia cecità ed ipovisione affliggono attualmente circa 1.600.000 persone (96 milioni nel mondo, secondo OMS), con un incremento considerevole di incidenza dopo i 50 anni. In particolare le varie forme di degenerazione maculare stanno aumentando sensibilmente a causa dell’invecchiamento della popolazione: secondo recenti stime, in Italia, la forma senile colpisce da un minimo di 130 mila persone ad un massimo di circa 480mila; per quanto riguarda la forma correlata al diabete, circa il 6,8% dei pazienti diabetici, ossia 200mila persone, sviluppa edema maculare diabetico. Ad essere colpiti da maculopatie sono ogni anno circa 63mila persone. Rilevante l’impatto economico della malattia sul Servizio sanitario nazionale: il costo stimato è di 60mila euro per paziente; il maggior dispendio di risorse è associato ai costi sociali, pari al 67,83% della spesa. Il trattamento farmacologico incide per il 16,58% sul totale. Fra i principali problemi riscontrati da chi soffre di questa patologia, come mostrano le segnalazioni giunte ai servizi di tutela di Cittadinanzattiva, le lunghe liste di attesa per l’accesso alle cure, a cominciare da una semplice visita oculistica per la quale nel pubblico si attendono in media 270 giorni; i ritardi nella diagnosi e nel successivo avvio del trattamento farmacologico; la difficoltà di aderire a terapie caratterizzate da frequenti somministrazioni e la mancata personalizzazione delle cure con evidenti ricadute negative per i pazienti ma anche per le strutture sanitarie.


In attesa di Linea Guida di carattere nazionale che garantiscano una maggiore omogeneità di accesso alle prestazioni e alle cure sui territori, la personalizzazione delle cure anche con l’uso di tecnologie innovative (HTA) e l’incremento dei programmi di prevenzione, informazione e screening, Cittadinanzattiva ha presentato oggi una Road Map per la presa in carico della persona affetta da maculopatia. La Road Map definisce 16 punti – divisi per le tre aree fondamentali riferite alla diagnosi, all’appropriatezza ed aderenza terapeutica e all’organizzazione sanitaria territoriale: 1. Garantire una diagnosi precoce e una rapida presa in carico della persona affetta da maculopatia su tutto il territorio nazionale. 2. Prevedere percorsi di screening strutturati e condivisi sui territori. 3. Programmare campagne di comunicazione e informazione indirizzate ai cittadini. 4. Prevedere sistemi di raccordo a 360° della persona, a partire dal medico di base fino ad arrivare all’oftalmologo e al diabetologo. 5. Puntare sulla telemedicina e sulla HTA a supporto del percorso di cura della persona affetta da maculopatia. Appropriatezza e aderenza terapeutica: 6. Favorire la libertà prescrittiva del clinico in termini di terapia adeguata ai bisogni di salute della persona. 7. Favorire trattamenti personalizzati, affinché vi sia aderenza terapeutica e dunque efficacia delle cure. 8. Avviare un’analisi socioeconomica del percorso di cura del paziente con maculopatia. 9. Utilizzare la medicina narrativa per porre in rilievo l’aspetto psicologico e la qualità di vita del paziente. 10.Avviare programmi di informazione-formazione dei pazienti e dei caregiver finalizzati a fornire tutti gli elementi fondamentali per un’aderenza terapeutica ottimale. 11.Prevedere strutture adeguate sul territorio oltre gli ospedali e riorganizzare e ottimizzare le strutture già esistenti. 12.Distribuire il macchinario OCT (Tomografia ottica a radiazione coerente) in modo uniforme ed omogeneo in tutti gli ambulatori pubblici del territorio. 13.Prevedere l’inserimento di Lea regionali per le maculopatie. 14.Migliorare e ottimizzare il coordinamento tra le strutture e i professionisti sul territorio. 15.Implementare l’uso della Telemedicina anche per ridurre le liste d’attesa. 16.Prevedere PDTA regionali sulle maculopatie. “Fino a qualche anno fa si parlava molto poco di maculopatie mentre oggi, anche grazie al lavoro comune che le organizzazioni civiche e le istituzioni, a partire dall’Intergruppo parlamentare, stanno portando avanti – esse sono sicuramente più conosciute; tuttavia il percorso di cura per chi ne soffre resta un percorso ad ostacoli ed è caratterizzato da grandi difformità territoriali. Bisogna quindi proseguire in questo impegno condiviso: abbiamo un disegno di legge (n.483 “Tutela persone affette da patologie oculari cronico-degenerative), già in fase avanzata nel suo iter parlamentare, che riprende alcuni punti fondamentali della nostra Road Map. Ad esempio la necessità di stabilire condizioni standard minime di diagnosi e cura su tutto il territorio, di mettere in relazione i vari specialisti, di utilizzare sempre più e al meglio le nuove tecnologie e la telemedicina”, dichiara Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva. “Per tutto questo è fondamentale il riconoscimento delle maculopatie come patologie croniche e il consequenziale inserimento nel Piano nazionale sulla cronicità; questo permetterebbe ai pazienti e ai loro caregiver di veder riconosciuti tutta una serie di diritti che ad oggi non sono esigibili”.

Allarme smog, l’esperto: un esame per valutare impatto su polmoni

Allarme smog, l’esperto: un esame per valutare impatto su polmoniRoma, 19 feb. (askanews) – Molte delle città italiane sono assediate dallo smog in queste settimane. Un problema che attanaglia Milano, Roma e che non accenna a diminuire, tanto da imporre la necessità per gli amministratori locali di provvedimenti per tamponare l’emergenza. Il livello di Pm10 nell’aria ha sforato per diversi giorni il livello di guardia costringendo a correre ai ripari.


Ma quali sono i rischi per la nostra salute? “Per le persone, in particolare per chi vive nei grandi centri urbani, l’inquinamento atmosferico è purtroppo una costante – dice Massimiliano Napolitano, Broncopneumologo dell’INI Grottaferrata – . È ormai noto ai più quali siano i rischi di una esposizione prolungata ma è sempre opportuno ricordarlo: asma, infezioni respiratorie, bronchiti acute sempre più frequenti che possono, nel tempo, diventare croniche, bronchioliti, patologie tumorali del polmone. I picchi di Pm10 sono un rischio importante per la salute perché rappresentano la “Frazione toracica”, ovvero la frazione di particelle in grado di attraversare il naso e le prime vie aeree, depositandosi in trachea e grossi bronchi. La Spirometria rappresenta un esame molto utile, e soprattutto di facile esecuzione, per una valutazione preventiva sullo stato del nostro apparato respiratorio”. Un esame diagnostico può valutare danni prima di avere sintomi: la spirometria ed in particolare l’oscillometria a impulsi


L’oscillometria a impulsi (IOS) è l’esame che scopre un danno prima ancora che dia i sintomi. È consigliato anche a chi è convinto di soffrire di ‘tosse nervosa’, che in realtà è spesso dovuta a infiammazione da inquinamento. «È un esame facile da eseguire e non invasivo, adatto anche a bambini ed anziani, e permette di scoprire un danno delle piccole vie aeree respiratorie prima ancora che la normale spirometria ne rilevi la presenza”, conferma Napolitano, che spiega: “è un esame che si esegue in ambulatorio e non richiede una particolare collaborazione da parte del paziente che deve semplicemente respirare attraverso un boccaglio tenendo le mani sulle guance in modo che queste non si gonfino. Una cosa così facile che anche i bambini piccoli e gli anziani possono fare. Un gesto semplice, respirare in un tubo, ma molto rivelatore. Infatti, grazie ad un algoritmo, possiamo valutare qual è la resistenza dell’aria quando passa per le vie respiratorie. In pratica ci dice se ci sono delle ostruzioni e, cosa ancora più importante, se la funzione respiratoria delle vie aeree più periferiche, e cioè dei bronchi di diametro più piccolo, i primi ad essere interessati e soprattutto i più difficili da raggiungere, sono oggetto di ostruzione e quindi infiammazione. Individuare precocemente la presenza di questo problema può davvero fare la differenza sia per conoscere in maniera estremamente precoce il danno funzionale delle vie aeree più periferiche ed evitare che le malattie diventino croniche, sia per monitorare l’efficacia reale delle terapie e quindi adattarle al meglio alla risposta del paziente. Questo esame è complementare ad altri esami diagnostici, non sostitutivo. Il suo valore aggiunto è proprio nell’essere un elemento di integrazione e di supporto per arrivare più velocemente possibile ad un quadro generale delle condizioni respiratorie del paziente». La prevenzione primaria e l’adeguamento degli stili di vita possono essere un fattore importante di difesa. “Modificare alcune nostre abitudini può contribuire a difendere il nostro apparato respiratorio dall’inquinamento – conclude Napolitano – ad esempio monitorare la qualità dell’aria da fonti attendibili, limitare le attività all’aperto nei periodi un cui i livelli di inquinamento sono più alti ed evitare, se possibile, le ore di punta, solitamente caratterizzate da maggior traffico. Anche l’utilizzo della mascherina, con cui abbiamo “familiarizzato” a causa del Covid-19, è un metodo efficace per filtrare l’aria che respiriamo. Consiglio ovviamente aree verdi e parchi, o comunque zone lontane dalle arterie più trafficate, per l’attività outdoor e una dieta ricca di antiossidanti provenienti da frutta e verdura per aiutare l’organismo a combattere possibili infiammazioni causate dall’esposizione a inquinanti”.

Malattie rare: al Bambino Gesù 18 nuovi geni-malattia

Malattie rare: al Bambino Gesù 18 nuovi geni-malattiaRoma, 19 feb. (askanews) – Sono stati 18 i nuovi geni malattia identificati nel 2023 dall’Ospedale e più di 18.000 i bambini e gli adolescenti seguiti e inseriti all’interno delle Rete regionale del Lazio delle malattie rare. Lo comunica il Bambino Gesù in occasione della Giornata Mondiale del 29 febbraio prossimo. Il 21 febbraio si terrà un convegno online insieme all’Osservatorio Malattie Rare (OMaR) e a Orphanet-Italia per discutere l’impatto della ricerca genetica sui malati rari. Secondo Bruno Dallapiccola, direttore scientifico emerito del Bambino Gesù «il primo obiettivo nei confronti dei malati rari e delle loro famiglie è porre fine all’odissea diagnostica che molti di loro sono costretti ad affrontare alla ricerca di un inquadramento».


La rivoluzione tecnologica che ha investito le analisi genetiche e genomiche e il lavoro svolto dalle unità di ricerca di Citogenomica Traslazionale e di Genetica Molecolare e Genomica Funzionale del Bambino Gesù hanno consentito di individuare nel 2023 18 nuovi geni-malattia e sono riusciti a dare una risposta diagnostica a numerose famiglie che fino a quel momento erano prive di un inquadramento. «Si tratta di uno dei contributi più significativi che la ricerca genetica è in grado di offrire – spiega Bruno Dallapiccola , direttore scientifico emerito del Bambino Gesù – che pone fine alle peregrinazioni di molti malati rari e dalle loro famiglie, ed è il primo passo della presa in carico. Possiamo ipotizzare, nella prospettiva di ottenere diagnosi e terapie più precoci, che in un prossimo futuro saranno avviati programmi di screening genomici neonatali, al fine di anticipare e rendere più efficace la gestione globale dei pazienti, anche attraverso i progressi della medicina di precisone che mira a contrastare gli effetti delle mutazioni genomiche. Si tratta di obiettivi realistici, dato che il nostro genoma è una sorta di cartella clinica nella quale è scritta una parte significativa del nostro futuro biologico, in termini di salute e di malattia».


Secondo il National Institutes of Health (NIH) , la percentuale di pazienti senza diagnosi sulla popolazione generale dei malati rari è pari al 6%. In Italia, su circa 2 milioni di persone affette da malattie rare, i pazienti rari senza diagnosi sarebbero oltre 100.000. Presso l’Ospedale è attivo dal 2016 un ambulatorio dedicato alle malattie rare senza diagnosi che è oggi in grado di fornire una risposta diagnostica al 70% dei pazienti seguiti. L’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù è un centro di riferimento per le malattie rare, sia a livello nazionale, attraverso la Rete regionale delle malattie rare del Lazio, sia a livello internazionale attraverso la partecipazione alle Reti di Riferimento Europee (ERN, European Reference Networks).


La Rete Regionale delle Malattie Rare del Lazio è costituita da 21 Istituti i cui Centri sono riferimento per tutte le malattie rare incluse nei LEA (921 gruppi/malattie rare). Nella Rete Regionale del Lazio risultano iscritti più di 62.000 soggetti con malattie rare, di questi, 1 su 4 (il 26%) appartiene all’età pediatrica. Quelli seguiti dal Bambino Gesù e iscritti nelle Rete sono stati 18.300 nel 2023: il 60% residenti nel Lazio, il 39% fuori Regione e l’1% all’estero. L’Ospedale è sede di 23 centri di riferimento regionali. Il Bambino Gesù è il primo centro pediatrico europeo per numero di affiliazioni alle ERN, essendo accreditato a 20 delle 24 ERN a oggi istituite. Le ERN riuniscono centri clinici di riferimento, selezionati in base alla loro attività e alla specifica competenza nei rispettivi ambiti. Ad oggi partecipano a queste reti oltre 300 ospedali in 26 Paesi europei.

Long covid pediatrico, individuati i “sintomi chiave”

Long covid pediatrico, individuati i “sintomi chiave”Roma, 19 feb. (askanews) – Una squadra di esperti, capitanata dal King’s College di Londra, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)e alla quale ha preso parte anche la Pediatria della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, ha messo a punto la lista dei sintomi ‘chiave’ del Long Covid pediatrico e indicato attraverso quali strumenti misurarli. È uno studio che rappresenta un grande sforzo di armonizzazione globale per raccogliere dati in maniera omogenea e velocizzare così il progresso delle conoscenze e la definizione delle migliori strategie di intervento per il Long Covid dei bambini e dei ragazzi. La messa a terra di questo linguaggio comune, questo ‘esperanto’ della scienza impronterà tutti le future ricerche sul Long Covid. Lo studio è pubblicato su European Respiratory Journal.


È una ricerca che scrive una nuova pagina di medicina sul Covid-19, che impronterà tanto la clinica quanto la ricerca. Condotto dal King’s College di Londra insieme all’OMS, con la partecipazione di un panel di esperti internazionali, tra i quali il dottor Danilo Buonsenso, docente di Pediatria all’Università Cattolica e dirigente medico dell’Unità Operativa Complessa di Pediatria della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, questo studio ha individuato, mettendoli nero su bianco, i sintomi chiave della condizione che va sotto il nome di Long-COVID/Post COVID-19 nei bambini e nei ragazzi, arrivando anche a un consenso (con la metodologia del ‘Delphi consensus’) su come misurarli. Mentre la maggior parte delle persone che contrae il Covid-19 guarisce rapidamente, un numero significativo di persone sviluppa dei sintomi persistenti o ricorrenti, per periodi più o meno lunghi. Bambini e ragazzi non fanno eccezione, ma la maggior parte delle ricerche condotte finora nell’area del Long COVID si è finora focalizzata sugli adulti, mentre gli studi in età pediatrica sono meno numerosi. È il motivo per cui, la reale prevalenza del Long Covid in età pediatrica e adolescenziale è praticamente sconosciuta. Ciò non toglie tuttavia che questa condizione possa comportare un significativo carico su chi ne è affetto e sui servizi sanitari. La ricerca, appena pubblicata su European Respiratory Journal, ha definito un insieme di caratteristiche ‘chiave’ (COS, Core Outcome Set) e di misure associate (COMS, Core Outcome Measurement Set) per la valutazione del Long Covid nei bambini e nei ragazzi. Gli esperti, che hanno messo a punto queste ‘istruzioni per l’uso’ per il Long Covid pediatrico, raccomandano che vengano utilizzate anche nelle ricerche che verranno condotte in futuro per uniformare il linguaggio e la metodologia di lavoro, al fine di accelerare la comprensione e lo sviluppo di trattamenti ‘evidence-based’ per i Long Covid. Utilizzare in tutto il mondo un ‘linguaggio’ scientifico comune, aumenta il valore dei dati raccolti, consentendo di confrontarli tra loro in maniera omogenea e di confrontarne di risultati tra studi diversi per arrivare poi a mettere a punto delle linee guida.

Malattie rare: sindrome COL4A1-A2, in Italia la prima Conferenza Europea

Malattie rare: sindrome COL4A1-A2, in Italia la prima Conferenza EuropeaRoma, 19 feb. (askanews) – La sindrome COL4A1-A2 è così rara e così poco conosciuta da non avere nemmeno un nome. Negli Stati Uniti la chiamano la “sindrome di Gould” dal ricercatore che, per primo l’ha scoperta. E’ una malattia che colpisce i geni COL4A1 e COL4A2 ed è proprio per colpa di quella mutazione che ci sono neonati che già presentano ictus ischemici o emorragici. E’ interessato il cervello ma non solo. La sindrome è complessa, variegata, ha così tanti aspetti e sintomi che se non la conosci non sai nemmeno di doverla andare a cercare. Non c’è una cura. Ma c’è la speranza che qualcosa inizi a muoversi. Almeno nella conoscenza. Grazie all’Associazione Famiglie Sindrome COL4A1-A2 – unica in Europa – che ha organizzato a Roma, al Senato, la prima Conferenza Europea sulla sindrome COL4A1-A2 alla quale prenderanno parte i massimi esperti italiani e mondiali. Douglas Gould compreso.


«La sindrome COL4A1-A2 è una malattia rara ma anche molto sotto diagnosticata. E’ difficile per una famiglia arrivare ad una diagnosi perché si manifesta in modo davvero multiforme in quanto colpisce soprattutto a livello cerebrale ma non solo. E non solo i bambini. E’ complicato per gli stessi medici venirne a capo. E anche una volta avuta la diagnosi è difficile per le famiglie poter gestire la situazione perché gli specialisti da coinvolgere sono tanti e non c’è, ad oggi, una rete. Per questo abbiamo deciso di organizzare questa Conferenza, per fare il punto sulle conoscenze e iniziare a gettare le basi delle Linee Guida» spiegano Simona e Francesca Manodoro, presidente e vicepresidente dell’Associazione ma anche zia e mamma di Samuele, un bambino di 11 anni colpito da una grave forma della sindrome. «Ancora oggi arrivare ad una diagnosi di sindrome del COL4A1-A2 non è immediato – spiega Simona Orcesi, Responsabile del Centro di Neurologia della Prima Infanzia all’Istituto IRCCS Fondazione C.Mondino di Pavia e Professore Associato in Neuropsichiatria Infantile dell’Università di Pavia – perché è necessario che qualcuno metta insieme il puzzle dei tanti sintomi e decida di andare a cercare una possibile causa genetica. Il primo campanello d’allarme viene dai sintomi e dalla risonanza magnetica ma la conferma viene solo dalla genetica, oggi dall’analisi Ngs (Next Generation Sequencing). Ci sono pazienti in cui, grazie a questa analisi genetica che è in grado di analizzare tutto il DNA codificante (il cosiddetto “esoma”), è stata trovata la mutazione del gene COL4A1 o COL4A2 anche se non si stava cercando proprio questa in particolare, perché nessuno ci aveva pensato. Il quadro è così complesso e allo stesso tempo così sconosciuto che non esiste una casistica ben definita che ci permette di classificare sintomi e decorso. Allo stato attuale riteniamo che nei bambini con cataratta congenita precoce, emorragia cerebrale perinatale senza una causa o calcificazioni cerebrali, per esempio, è opportuno sospettare la sindrome COL4A1/A2. A volte davanti ad un neonato con emorragia cerebrale ci si limita a dare la colpa ad un parto difficile e non si indaga ulteriormente». Questa malattia genetica molto rara può manifestarsi già durante il periodo prenatale o anche in età adulta. Può manifestarsi con quadri gravi ad insorgenza precoce a casi lievi paucisintomatici. Le manifestazioni, molto variabili, sono soprattutto a carico del Sistema Nervoso Centrale (emi-tetra-paresi, crisi epilettiche, disabilità intellettiva di grado variabile, disturbi motori, cefalea) e derivano da alterazioni vascolari. Ci possono, inoltre, essere associati manifestazioni a livello oculare (come per esempio, cataratta congenita, glaucoma, arteria retinica tortuosa, atrofia ottica), renale (cisti, ematuria e glomerulopatia), epatico (cisti), cardiovascolare (anomalie del ritmo cardiaco, prolasso della valvola aortica mitralica), ematologico (anemia emolitica) e fenomeno di Raynaud. E’ indubbio che l’organo più colpito sia il cervello, infatti una delle conseguenze più frequenti è l’alterazione del collagene dei vasi cerebrali che determina stroke/emorragie e alterazioni della sostanza bianca (leucoencefalopatie). Inoltre molti dei pazienti soffrono di epilessia. Le conseguenze cliniche più frequenti sono: difficoltà motorie, disturbi visivi – sia causati da problemi oculari che da lesioni cerebrali che coinvolgono le vie visive, disturbi del linguaggio e problemi cognitivi. Per la sindrome COL4A1-A2 ad oggi non ci sono cure.

Roma, Campus Bio-Medico: ‘Education Box’ su epilessia e soccorso crisi

Roma, Campus Bio-Medico: ‘Education Box’ su epilessia e soccorso crisiRoma, 16 feb. (askanews) – Continuano anche nel 2024 gli Education Box, incontri aperti al pubblico a ingresso gratuito, promossi dalla Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma per diffondere la cultura della prevenzione e l’educazione clinica tra pazienti e caregiver. Il primo appuntamento di questo nuovo ciclo si terrà martedì 20 febbraio e sarà dedicato all’epilessia, di cui in questi giorni ricorre la Giornata internazionale: il prof. Mario Tombini e il dott. Giovanni Assenza, neurologi della Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, approfondiranno cause, meccanismi e trattamenti di questa patologia e illustreranno le principali nozioni di intervento e gli accorgimenti da assumere quando si assiste a una crisi epilettica.


“L’informazione è uno strumento fondamentale per diffondere conoscenza, consapevolezza e quindi aiuto concreto per i pazienti – commenta Mario Tombini -. La ricorrenza e spesso l’imprevedibilità delle crisi rappresentano una delle principali sfide per chi convive con questa patologia e per i caregiver. Rendere accessibile la conoscenza di nozioni anche tecniche di base utili a intervenire prontamente è quindi sempre più importante. Non solo, iniziative divulgative come gli Education Box sono molto importanti per diffondere consapevolezza circa alcuni falsi miti e luoghi comuni legati alle crisi epilettiche che purtroppo ancora persistono nell’immaginario comune, contribuiscono allo stigma legato a questa patologia e che ostacolano il percorso di recupero psicosociale del paziente”. La Fondazione Policlinico Universitario Campus Bio-Medico è impegnata nella ricerca, cura e assistenza dei pazienti con epilessia ed epilessia farmacoresistente. L’Unità operativa complessa di Neurologia è punto di riferimento per il trattamento dell’epilessia nel centro Italia. Nel 2022 il Centro per la diagnosi e cura dell’Epilessia del Policlinico ha ottenuto il riconoscimento dalla Lega Italiana Contro l’Epilessia (LICE) dei più alti standard delle prestazioni diagnostiche erogate a un numero elevato di adulti con epilessia. I clinici e ricercatori afferenti al centro sono, inoltre, attivamente impegnati da molti anni in diversi ambiti di ricerca applicata ai disturbi epilettici: ricerca di biomarcatori clinici e neurofisiologici (EEG) in grado di predire la risposta ai farmaci anticrisi e farmacoresistenza, analisi e caratterizzazione dei sintomi psicologici e dello stigma che si associano all’epilessia, tecniche di neuromodulazione e nuovi trial farmacologici per il trattamento dei pazienti con epilessia farmacoresistente. La prevalenza dell’epilessia in Italia è circa 0,8%: si stimano nel Lazio circa 45.000 persone, la metà delle quali nella città di Roma.

Ebola, MSF: vaccino dimezza mortalità tra persone infettate da virus

Ebola, MSF: vaccino dimezza mortalità tra persone infettate da virusRoma, 16 feb. (askanews) – A dieci anni dalla peggiore epidemia di Ebola della storia, che colpì tre paesi dell’Africa Occidentale provocando più di 11.300 morti, uno studio osservazionale condotto da Epicentre, il centro di ricerca medica ed epidemiologica di Medici Senza Frontiere (MSF), dimostra che la vaccinazione contro Ebola può dimezzare il tasso di mortalità. I risultati dello studio pubblicati su The Lancet Infectious Diseases evidenziano che la mortalità tra i pazienti non vaccinati è stata del 56% contro il 25% di coloro che avevano ricevuto il vaccino. Lo studio, realizzato in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Ricerca Biomedica (INRB) e il Ministero della Salute della Repubblica Democratica del Congo (RDC), analizza i dati raccolti durante la decima epidemia di Ebola in RDC su 2.279 casi confermati di Ebola ricoverati in una struttura sanitaria tra il 27 luglio 2018 e il 27 aprile 2020 e si riferisce a tutti i pazienti, indipendentemente dal sesso e dall’età. Finanziato da MSF, lo studio si focalizza sull’unico vaccino contro Ebola raccomandato durante le epidemie. Sviluppato per essere somministrato in singola dose, è raccomandato principalmente per la vaccinazione ad anello delle persone ad alto rischio di esposizione durante le epidemie. Questa strategia prevede la vaccinazione dei contatti (le persone che hanno avuto un contatto con un individuo infetto da virus Ebola), i contatti dei contatti, gli operatori sanitari e gli operatori in prima linea. Uno studio clinico di fase 3 condotto in Guinea ha dimostrato che il vaccino protegge notevolmente dall’infezione da virus Ebola. Tuttavia, alcune persone, nonostante fossero vaccinate da più di 10 giorni, periodo considerato sufficiente a sviluppare l’immunità, sono state comunque infettate dal virus Ebola durante la decima epidemia in RDC. Ciò sottolinea l’importanza di valutare non solo l’efficacia del vaccino contro l’infezione, ma anche il suo impatto sulla mortalità. Tuttavia, l’impatto del vaccino sulla mortalità durante un’epidemia non era ancora stato valutato, nonostante durante la decima epidemia Ebola in RDC sia emerso che alcune persone si sono infettate con Ebola nonostante fossero state vaccinate da più di 10 giorni, il periodo considerato sufficiente per sviluppare l’immunità. Sebbene l’obiettivo rimanga quello di vaccinare le persone il più precocemente possibile durante le epidemie, ovvero prima dell’esposizione al virus Ebola, i risultati dello studio di Epicentre di MSF mostrano che il vaccino diminuisce notevolmente la mortalità anche quando viene somministrato “tardi” , cioè, dopo l’esposizione al virus. Inoltre, lo studio non ha riscontrato nessun effetto antagonista tra la vaccinazione e il trattamento contro Ebola. ” La vaccinazione dopo il contatto con una persona affetta dal virus Ebola, anche se somministrata poco prima della comparsa dei sintomi, conferisce comunque una protezione significativa contro la morte” spiega Rebecca Coulborn, epidemiologa del centro Epicentre di MSF, “il rischio ridotto di morte grazie alla vaccinazione si aggiunge alla riduzione del rischio data dal trattamento specifico contro Ebola, indipendentemente dal ritardo prima del trattamento”. L’ebola è stata scoperta nel 1976 nella Repubblica Democratica del Congo (RDC). Esistono diverse varianti della malattia, con la specie Zaire che è stato il più comune nell’ultimo decennio. Le epidemie più recenti hanno toccato in particolare la Repubblica Democratica del Congo (la dodicesima epidemia nel 2021) e l’Uganda (2019 e 2022). Durante l’epidemia di Ebola in Africa Occidentale (Liberia, Guinea e Sierra Leone) nel 2014 sono state contagiate 28.646 persone.

Alzheimer, prime linee guida europee: ‘bussola’ contro labirinto diagnosi

Alzheimer, prime linee guida europee: ‘bussola’ contro labirinto diagnosiRoma, 15 feb. (askanews) – Una radicale modifica nell’approccio diagnostico: da oggi c’è una nuova guida nel labirinto della diagnosi dei disturbi cognitivi e dell’Alzheimer. Le prime raccomandazioni intersocietarie europee realizzate dagli esperti delle maggiori Società Scientifiche del settore e coordinate da specialisti dell’Università di Genova – IRCCS Ospedale Policlinico San Martino, dell’Università di Ginevra e dell’IRCCS Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli di Brescia, consentiranno di arrivare prima e meglio a dare un nome al problema di chi manifesta i primi segni di un deterioramento cognitivo, riconoscendo se si tratti di Alzheimer, come avviene in un caso su due, o di un’altra forma di demenza. Le raccomandazioni, appena pubblicate sulla prestigiosa rivista The Lancet Neurology, per la prima volta non sono centrate sulla malattia, ma sul paziente e i suoi sintomi. A partire da 11 diverse modalità con cui si presentano i segni di un deterioramento cognitivo, in 4 passi successivi e con test differenti a seconda del profilo del singolo paziente, si potrà d’ora in poi arrivare a individuare la patologia responsabile in tempi più rapidi e con minori sprechi di risorse. Il percorso diagnostico, oltre ad analisi del sangue, test cognitivi, risonanza magnetica o TAC e in alcuni casi elettroencefalogramma che sono previsti nel primo step, cambia a seconda dei pazienti e può includere o meno l’analisi di specifici marcatori nel liquido cerebrospinale, PET o SPECT di differenti tipologie, scintigrafie. In un prossimo futuro, quando a questi esami sarà verosimilmente possibile associare anche l’utilizzo di biomarcatori rilevabili nel sangue, l’iter previsto da queste nuove raccomandazioni potrebbe ridurre fino al 70% gli esami strumentali inutili per diagnosi precise, affidabili e tempestive che allo stesso tempo ridurranno i costi per il Servizio Sanitario.


“Queste raccomandazioni nascono dall’esigenza di avere indicazioni condivise, internazionali e ben documentate ma soprattutto centrate sulla presentazione clinica dei sintomi, sul paziente anziché sulla malattia – spiega Flavio Nobili, co-coordinatore dello studio e Professore di Neurologia all’Università di Genova – IRCCS Ospedale Policlinico San Martino – .Il paziente con un deficit cognitivo iniziale ha circa il 50% di probabilità di avere l’Alzheimer oppure un’altra delle varie patologie che causano disturbi neurocognitivi. Per districarsi fra le tante cause e arrivare a una diagnosi, oltre ai test cognitivi oggi esistono molti esami strumentali, dalla TAC, alla risonanza magnetica, all’esame del liquor, il liquido cerebrospinale: per ciascuna metodica esistono linee guida e ambiti di applicazione a seconda delle diverse malattie, ma quando il neurologo ha di fronte per la prima volta il paziente non sa ancora di che patologia soffra, perciò è difficile utilizzare linee guida pensate per individuare l’una o l’altra patologia. Ecco perché serviva costruire raccomandazioni basate principalmente ‘sul sintomo’ e non sulla malattia”. Lo studio pubblicato su The Lancet Neurology è il risultato del lavoro di 22 esperti internazionali afferenti alle 11 maggiori Società Scientifiche europee nel campo della neurologia, psicogeriatria, radiologia e medicina nucleare. Nell’arco di circa tre anni, con la supervisione di sei ulteriori esperti dell’argomento riconosciuti a livello internazionale e con il supporto di un rappresentante dell’Associazione dei pazienti e dei loro familiari Alzheimer Europe, sono state condivise e approvate raccomandazioni sui percorsi diagnostici da intraprendere in persone con segni di pre-demenza o demenza iniziale, basate sulla letteratura scientifica e l’esperienza clinica dei professionisti coinvolti.

Infezioni ospedaliere e antibiotico resistenza, Simit: cambiare norme

Infezioni ospedaliere e antibiotico resistenza, Simit: cambiare normeRoma, 15 feb. (askanews) – Le Infezioni Correlate all’Assistenza provocate da germi multiresistenti agli antibiotici rappresentano un problema prioritario di sanità pubblica in tutto il mondo. L’Italia non fa eccezione e, anzi, presenta dati particolarmente preoccupanti. La Società di Malattie Infettive e Tropicali propone una serie di iniziative con gli obiettivi di acquisire consapevolezza, usare correttamente gli antibiotici, cambiare l’attuale assetto in maniera costante, uniformare l’applicazione delle norme sul territorio nazionale. A questo si rivolgono i progetti “Insieme” e “Resistimit” presentati alla Camera dei Deputati con una larga rappresentanza di parlamentari e dirigenti del Ministero della Salute assieme alle società scientifiche e a rappresentanti delle associazioni del territorio. I temi sono stati approfonditi nel successivo Convegno promosso dalla SIMIT “Insieme contro le Infezioni Correlate all’Assistenza”. Strategica la proposta di legge presentata a febbraio 2023 in collaborazione con l’Associazione culturale Fülop per dare seguito a questi scopi.


Antibiotico-resistenza e Infezioni Correlate all’Assistenza – ICA sono fenomeni in crescita in tutta Europa, con l’Italia che è tra i Paesi con le peggiori performance. Tra le principali cause vi è l’eccessivo uso di antibiotici, sia a livello umano che nel mondo animale, ma anche la scarsa conoscenza del tema e la mancanza di buone pratiche come l’igiene delle mani. Per questo occorrono programmi e strategie mirate che favoriscano un uso corretto degli antibiotici (Antimicrobial Stewardship) e un efficace piano di controllo e prevenzione delle ICA. “Nel mondo si stimano 5 milioni di morti associate all’antibiotico resistenza, di cui 1 milione 300mila direttamente attribuibili ad essa. I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità stimano nel 2050 una mortalità per germi multiresistenti agli antibiotici superiori alle patologie oncologiche, con 10 milioni di decessi a livello globale – sottolinea Massimo Andreoni, Direttore Scientifico SIMIT -. In Italia si calcolano 11mila morti l’anno, record europeo, un terzo di tutti i decessi. Le ICA hanno un impatto enorme sul SSN, con 2,7 milioni di posti letto l’anno occupati. Il conto economico contempla costi diretti che ammontano a circa 2,4 miliardi di euro. Circa l’8% dei pazienti ricoverati contrae un’infezione di questo tipo. Tuttavia, è possibile inaugurare un nuovo percorso che permetterebbe di ridurre di almeno il 30% l’impatto di queste infezioni”. Il controllo delle ICA deve essere affrontato in ogni ambito dove queste si verificano: per questo è fondamentale un approccio multidisciplinare, che coinvolga non solo l’infettivologo ma anche ogni altro specialista ospedaliero. La prevenzione delle infezioni rappresenta una componente complementare alla corretta somministrazione degli antibiotici. Il problema principale è che nel nostro Paese spesso abbiamo usato gli antibiotici come sostituto del controllo delle infezioni mentre solo attraverso l’integrazione di queste componenti possiamo vincere questa battaglia contro l’antibiotico-resistenza. Per questo è importante creare una collaborazione con tutti gli attori coinvolti. “Per rendere operative le strategie di contrasto alle Infezioni Correlate all’Assistenza occorrono un coordinamento tra istituzioni, direzioni sanitarie e clinici; un inquadramento in progetti nazionali; un monitoraggio continuativo e un sistema permanente, poiché si tratta di fenomeni in continua evoluzione – sottolinea Cristina Mussini, Vicepresidente SIMIT -. Da queste esigenze nasce Insieme, un progetto con cui SIMIT si propone come braccio operativo nell’applicazione del PNCAR, uniformando a livello nazionale le politiche di controllo delle infezioni ospedaliere. Proprio per evitare applicazioni eterogenee abbiamo costituito un gruppo di esperti che possano promuovere la formazione, organizzare controlli negli ospedali e audit che raccolgono le criticità. Nel primo workshop, a Modena, che ha coinvolto 14 ospedali distribuiti su tutto il territorio nazionale, abbiamo formato e addestrato il gruppo di progetto e creato una survey allo scopo di evidenziare le criticità principali per l’implementazione dei programmi di contrasto alle infezioni nosocomiali negli ospedali. Questo questionario lanciato e diffuso dalla SIMIT ha visto la partecipazione di oltre 40 ospedali. Dalle risposte abbiamo rilevato la difficoltà di interazione tra i diversi gruppi di lavoro, la mancanza di personale dedicato e di sistemi integrati di sorveglianza nei laboratori, la necessità di diffondere ulteriormente pratiche standard come, ad esempio, l’igiene delle mani del personale sanitario, che deve essere rafforzata in almeno la metà degli ospedali. Più della metà degli ospedali non ha un sistema integrato di monitoraggio delle principali infezioni diffuse nelle chirurgie, legate agli accessi vascolari, alle infezioni del tratto urinario, alle polmoniti, alle protesi articolari con difficoltà nell’attuare interventi di prevenzione specifici (bundle) degli stessi. Migliorare la situazione è possibile, basti pensare che con l’applicazione di strategie adeguate possono prevenire fino al 50% delle ICA. Serve dunque sia un’azione culturale che generi consapevolezza, sia una strategia operativa che realizzi un’inversione di rotta che acquisti continuità”. L’altro progetto avviato dagli infettivologi è la piattaforma clinica Resistimit, finalizzata a combattere i microrganismi multiresistenti agli antibiotici con due strumenti: la realizzazione di un registro dinamico nazionale inquadrato in un solido sistema di sorveglianza; un software per la messa in rete di questi dati, che tramite intelligenza artificiale diventeranno utile strumento anche per definire futuri scenari.