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Ippica, a Piazza di Siena siglato l’accordo tra MASAF e FISE

Ippica, a Piazza di Siena siglato l’accordo tra MASAF e FISERoma, 25 mag. (askanews) – Esattamente due anni fa, il 25 maggio 2022, la purosangue inglese Frabematt scendeva in pista per la sua ultima corsa, il Premio Costa dei Trabocchi di Tagliacozzo. Nata cinque anni fa e allenata da Claudia Vicari, due anni dopo Frabematt è stata la protagonista di un ideale passaggio di consegne, tra il fantino Manuel Porcu e il giocatore di polo Patricio Rattagan, e che simboleggia l’avvio di un nuovo progetto. Nell’Ovale che ospita lo CSIO di Piazza di Siena, il Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste (MASAF) e la Federazione Italiana Sport Equestri (FISE) hanno firmato un accordo per il recupero di cavalli a fine carriera e per il riaddestramento agli sport equestri.


Il cavallo, montato da Manuel Porcu (fantino che in carriera ha vinto 350 corse), dopo un giro di pista è stato quindi affidato alle mani di Patricio Rattagan, ideatore e protagonista di Italia Polo Challenge (circuito di arena polo in corso al Galoppatoio di Villa Borghese), nonché esperto nel recupero e nel riaddestramento dei cavalli purosangue. Dalla sella da ippica a quella da polo: è da Piazza di Siena che inizia la seconda vita di Frabematt, e lo stesso succederà con tanti altri cavalli coinvolti nel progetto. “Abbiamo stretto un accordo estremamente importante – le parole del Sottosegretario del MASAF, Patrizio Giacomo La Pietra -, perché stiamo cercando di dare una prospettiva all’animale guardando sempre al suo benessere, dandogli la possibilità di essere utilizzato in attività di carattere sportivo, terapeutico e sociale. Sono questi i tre pilastri su cui stiamo lavorando”. “Grazie allo staff del MASAF, al Sottosegretario Patrizio La Pietra, all’ingegner Remo Chiodi e a tutti coloro che hanno reso possibile questo accordo – ha aggiunto il presidente della FISE, Marco Di Paola -. Abbiamo collaborato a questo importante progetto che vuole dare una seconda vita ai cavalli dell’ippica, e che potranno essere in breve tempo convertiti agli sport olimpici all’interno del nostro Centro Equestre Federale dei Pratoni del Vivaro. In questo modo, i cavalli potranno regalare tanti sorrisi anche ai giovani delle scuole federali a cui saranno assegnati dopo la preparazione, anche per un’attività terapeutica di cui i cavalli sanno essere straordinari protagonisti”.

Museo Marino Marini di Firenze presenta Il Tesoro di Terrasanta

Museo Marino Marini di Firenze presenta Il Tesoro di TerrasantaMilano, 24 mag. (askanews) – Il Museo Marino Marini di Firenze apre le porte a una mostra che racconta oltre cinque secoli di arte sacra attraverso i capolavori commissionati dalle corti cattoliche europee per essere donati alla basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Un autentico tesoro che è stato catalogato dall’Ordine dei Frati Minori a partire dal 2013. Nel corso della conferenza stampa è stata presentata la mostra “Il Tesoro di Terrasanta al Museo Marino Marini. La bellezza del sacro: l’Altare dei Medici e i doni dei Re”, in programma dal 12 settembre 2024 al 8 gennaio 2025.


Dedicata ai doni dei sovrani, l’esposizione comprende 109 opere di arte sacra di inestimabile valore, tra le quali spicca l’Altare del Calvario alla basilica gerosolimitana. Quest’opera, di cui fa parte l’Ornamento donato da Ferdinando I de’Medici, realizzato da Domenico Portigiani, Giambologna e Pietro Francavilla, tra il 1588 e il 1590, rappresenta uno dei manufatti di maggior valore artistico e spirituale che adornano la navata latina del Santo Sepolcro. Dopo quasi cinque secoli, per la prima volta, l’Ornamento ha lasciato Gerusalemme per fare ritorno in Italia, dove sarà restaurato ed esposto a Firenze per tutta la durata della mostra. “La scelta di portare la mostra al Museo Marino Marini di Firenze – ha spiegato Carlo Ferdinando Carnacini, Presidente della Fondazione Marini San Pancrazio – è dettata dalla presenza della Cappella Rucellai, capolavoro dell’architettura rinascimentale realizzato nel XV secolo da Leon Battista Alberti e ispirato proprio al Sepolcro di Terra Santa. Ospitare i tesori di uno dei luoghi simbolo delle tre confessioni religiose, meta di migliaia di pellegrini ogni anno, rappresenta un motivo di grande orgoglio per il nostro museo. In questo connubio tra arte contemporanea, tradizione e pellegrinaggio, il Museo Marino Marini di Firenze si conferma come un centro culturale di eccellenza a livello internazionale, capace di promuovere il dialogo tra linguaggi artistici differenti e di avvicinare un pubblico eterogeneo alla bellezza e alla complessità dell’arte.” La presentazione è stata moderata dalla giornalista Claudia Conte, consigliera della Fondazione Marini San Pancrazio, e ha visto anche il lancio di un breve video-documentario sui lavori di restauro dell’Altare del Calvario che svela in anteprima alcune altre opere di rilevante pregio artistico che andranno a comporre il corpus di opere della Mostra “Il Tesoro di Terrasanta al Museo Marino Marini”.


Nell’ambito dell’incontro è intervenuto anche l’on. Federico Mollicone, Presidente della Commissione Cultura alla Camera dei Deputati, che ha dichiarato: “Crediamo che la cultura debba essere una risposta unitaria allo scontro e alla violenza e questa iniziativa culturale lo dimostra. Come Parlamento siamo aperti ad una collaborazione istituzionale per continuare operazioni di valorizzazione e promozione dei tesori della Terra Santa, per la riscoperta delle nostre radici e dare seguito alla politica attiva della diplomazia culturale.” Tra i capolavori della mostra spiccano anche i doni offerti da Carlo di Borbone, re di Napoli, a testimonianza della munificenza dei committenti e della profonda devozione. Di particolare rilievo il paliotto d’altare in argento e oro, realizzato in 1731 dal maestro orafo napoletano Gennaro De Blasio, che si aggiunge ad altre opere inedite, mai esposte in precedenza, come le due tele raffiguranti San Francesco d’Assisi e Sant’Antonio da Padova, dipinte da Francesco De Mura nel XVIII secolo. L’intera collezione di opere, posta sotto la tutela della Custodia di Terra Santa, costituisce un tesoro di oggetti religiosi, gioielli, ornamenti e paramenti sacri, codici e baldacchini che i francescani hanno preservato e catalogato nel corso di oltre cinque secoli, e che ritorneranno a Gerusalemme nel 2026 per l’istituzione Terra Sancta Museum Art and History, nel convento di San Salvatore.

”Henri Cartier-Bresson e il mondo delle immagini”

”Henri Cartier-Bresson e il mondo delle immagini”Roma, 23 mag. (askanews) – Invisibile, eppure così riconoscibile. Henri Cartier-Bresson è una sagoma in controluce mentre parla a Romeo Martinez, direttore della rivista Camera dal 1954 al 1964 e storico della fotografia. Immagini e parole più uniche che rare che riprendono vita nel documentario Rai con testi di Giorgio Bocca e regia di Nelo Risi “Primo piano. Henri Cartier-Bresson e il mondo delle immagini”, andato in onda una sola volta, nel 1964, e riscoperto da Rai Teche e Rai Cultura che lo ripropongono lunedì 27 maggio alle 19.20 su Rai 5 per la serie “Dorian”.


Per tutta l’intervista, Cartier-Bresson – scomparso vent’anni fa – si copre il volto con le mani, rimane nell’ombra, sfugge. Un continuo gioco tra lo scomparire e l’apparire: “Il pubblico – dice – mi vorrà scusare se non lo guardo in faccia, ma il lavoro di cui mi occupo mi costringe a conservare l’anonimato. È un mestiere che si esercita a bruciapelo, prendendo la gente alla sprovvista e dove non è consentito a mettersi in mostra”. Nel dialogo con Martinez, Cartier Bresson – che si definisce un memorialista, più che un reporter – parla del ruolo della fotografia, della responsabilità di chi si occupa di immagini, di rispetto per il soggetto fotografato, di falsificazione e di pubblicità in quella che, sessant’anni fa, definiva – “un’epoca che violenta la natura e disintegra l’immagine”.


Emerge, così, il ritratto di un viaggiatore e di un incredibile narratore del mondo, tra gli anni ’30 e gli anni ’60: ha fotografato la Cina nel 1948 all’arrivo di Mao Zedong e successivamente nel 1958, ed è stato uno degli ultimi reporter ad incontrare e fotografare Gandhi. E poi il Messico, Cuba, ma anche la provincia italiana del primo dopoguerra, di cui sono celebri le sue foto di Scanno che hanno aperto la strada ad un pellegrinaggio di molti fotografi successivi sugli stessi luoghi. E a differenza dell’amico Robert Capa, con cui fonda l’agenzia Magnum, evoca più che documentare, con uno stile che ricorda gli impressionisti e la tradizione pittorica di Cezanne, Degas e Manet. Perché per lui la fotografia è un mezzo per disegnare. Ma c’è anche l’influenza del regista francese Jean Renoir, secondogenito del pittore Pierre-Auguste, per il quale lavora agli inizi come aiuto regista e dal quale apprende come cercare “l’essenza dell’uomo”. Ed è così attuale che già nel 1964 si pone il problema della deontologia e dello svilimento della figura del fotografo nelle riviste da parte di “sfruttatori di immagini avidi e malevoli”. Alla fine, affida infine alla macchina da presa la sua ricetta per la fotografia: “Per me occorre rigore, un certo controllo, una disciplina, dello spirito, una cultura, infine intuizione e sensibilità. Ci vuole anche un certo rispetto per l’apparecchio e per i suoi limiti. Ci vuole occhio, cuore e cervello”.

In Nigeria la mostra di Ballarin sull’antico popolo degli Yorubas

In Nigeria la mostra di Ballarin sull’antico popolo degli YorubasRoma, 23 mag. (askanews) – Si aprirà martedì 4 giugno ad Abuja, in Nigeria, la nuova personale di Luigi Ballarin, “Human and spiritual wealth of Yorubas”, visitabile sino al 7 giugno 2024 presso la Gallery Fraser Suite Hotel Abuja. La mostra, organizzata in occasione dei festeggiamenti per la Festa della Repubblica, propone un ponte “artistico” tra cultura europea mediterranea e quella Yoruba, antico e ricco gruppo etno-linguistico di circa 40 milioni di persone oggi diffuso principalmente nell’Africa occidentale.


Con questa mostra, Ballarin utilizza la potenza espressiva dell’arte in modo sincero, introspettivo, unificante e accattivante. Il risultato è che ogni figura, ogni pennellata e ogni colore si riflettono sulla tela con coraggio, quasi come se fossero vivi. “Luigi Ballarin continua a esaltare conoscenze, esperienze ed insegnamenti, un bagaglio acquisito unendo Europa e Africa – ha detto il curatore Beste Gürsu – lo fa dimostrando grande ammirazione per la giustizia sociale e per i dialoghi culturali, come la sua vita e ogni aspetto della sua arte ci ricordano costantemente. Il suo operato trascende ciò che spesso è misterioso e occasionalmente ripetitiva apparenza del mondo, approfondendone la reale essenza. All’interno di questa ricchezza culturale, produce opere originali e intense, lavorando sempre con un atteggiamento appassionato, determinato, onesto, coraggioso, leale e nobile”.


“L’esposizione del Maestro Luigi Ballarin mette in mostra un’accattivante esplorazione della ricchezza umana e culturale del popolo Yoruba nel contesto della società ricca e multietnica della Nigeria – ha dichiarato Stefano De Leo, Ambasciatore d’Italia ad Abuja – attraverso le sue opere d’arte, Ballarin approfondisce il ricco patrimonio, le tradizioni e i simboli della cultura Yoruba, offrendo agli spettatori uno sguardo sull’essenza di questa vivace comunità africana. Con un uso magistrale del colore, della consistenza e della forma, Ballarin dà vita allo spirito e la diversità di questo popolo, evidenziando il loro profondo legame con storia, credenze e costumi. Ogni dipinto è una narrazione visiva che celebra la bellezza, la resilienza e la creatività della cultura yoruba, invitando il pubblico a farlo apprezzare e interagire con gli aspetti sfaccettati di questa antica civiltà”.

Torna in libreria Sin City, la leggendaria saga di Frank Miller

Torna in libreria Sin City, la leggendaria saga di Frank MillerMilano, 21 mag. (askanews) – Torna in libreria il primo volume della leggendaria serie a fumetti di Frank Miller, “Sin City”. Star Comics ha presentato quattro nuove edizioni de “Il Duro Addio”, da quella regular a quella con una copertina speciale, fino alle edizioni limited e ultra limited, a tiratura limitata di 1.000 e 300 copie rispettivamente, probabilmente destinate a diventare pezzi da collezione. Il volume è stato presentato a Milano nel Demidoff Hotel, che con le sue atmosfere dark si è immediatamente prestato al racconto della saga di Miller.


“Siamo veramente felici di essere qui oggi – ha detto Claudia Bovini, amministratore delegato di Star Comics – pensiamo che questa sia un’opera che necessitava veramente di una nuovissima edizione. Per Star Comics è un onore avere nel catalogo uno dei mostri sacri del fumetto occidentale e siamo lieti appunto di poter portare al grande pubblico la sua opera principale in varie edizioni estremamente speciali”. La saga di Miller, che è anche l’autore di “300” e di “Batman, il ritorno del Cavaliere oscuro”, si svolge nella città di Basin City e le storie dei vari personaggi si intrecciano in diversi episodi, comunque tra loro indipendenti. La serie è stata resa famosa anche da un film del 2005 scritto e diretto dallo stesso Miller con Robert Rodriguez e Quentin Tarantino.

Archi nel tempo, la pittura di Rick Lowe dentro Venezia

Archi nel tempo, la pittura di Rick Lowe dentro VeneziaVenezia, 22 mag. (askanews) – Topografia veneziana e architetture, tessere e archi, luce che diventa pittura. Il Museo di Palazzo Grimani a Venezia ospita la mostra “The Arch within the Arc”, prima personale in Italia dell’artista statunitense Rick Lowe, celebre anche per i progetti di arte sociale e partecipativa. Qui però troviamo dipinti, e anche alcune opere su carta, nati proprio dalla relazione con Venezia, dalla riflessione sull’esperienza di muoversi nelle calli della città lagunare, sulla dimensione anche sociale che questo movimento rappresenta, in un costate dialogo con l’acqua, ma anche con le architetture, compresa quella di Palazzo Grimani che ospita la mostra.


La pittura di Lowe è strutturata intorno alle unità compositive rettangolari, ispirate alle tessere del domino che sono collegate alla relazione con le comunità con cui l’artista collabora, ma quello che accade nei dipinti è un processo sia di costruzione – di uno spazio della possibile pittura e rappresentazione – sia di decostruzione evocativa delle infrastrutture, delle mappe e in fondo anche del tempo, di cui la curvatura dell’arco è una forma simbolica. L’effetto pittorico è forte, accattivante. Le grandi dimensioni e il colore ne sono la superficie, che poi si arricchisce di altre sensazioni più sottili, più complete, che spingono a pensare a luoghi e momenti, oltre che alla perenne impermanenza della dimensione stessa di Venezia, città invisibile eppure presente, nella sua unicità.


Pensata anche per dialogare con la Biennale Arte, la mostra di Rick Lowe resta aperta al pubblico fino al 24 novembre.

La mostra come organismo vivente: a Basilea tra nebbia e futuri

La mostra come organismo vivente: a Basilea tra nebbia e futuriBasilea, 18 mag. (askanews) – Una mostra in perenne e letterale cambiamento, che ospita artisti, ma anche architetti e filosofi, che utilizza il pensiero della danza applicato a quadri e sculture e restituisce una sensazione di stringente consapevolezza delle istanze più contemporanee. È la nuova esposizione estiva della Fondation Beyeler di Basilea, che ospita, in maniera mai così diffusa, opere inedite in dialogo con quelle della collezione.


L’idea nasce, e non poteva essere altrimenti, da un collettivo, composto da Mouna Mekouar, Isabela Mora, Hans Ulrich Obrist, Precious Okoyomon, Philippe Parreno, Tino Sehgal e da Sam Keller, che abbiamo incontrato. “Prima di tutto – ci ha detto – volevamo fare un esperimento, volevamo dare agli artisti più libertà e più possibilità di creare nuove opere, di mostrarle in modi diversi da quelli che si possono di solito trovare nei musei, non solo negli spazi delle gallerie, ma anche nel giardino e ovunque nel museo di Renzo Piano”. La mostra si stende su tutta l’area museale con apparente incuranza, ma in realtà modifica in modo radicale la percezione dello spazio: si trovano opere nel guardaroba, altre che cambiamo di continuo posizione, con gli operai al lavoro negli orari di visita del pubblico, sotto la regia di Tino Sehgal. Ci sono suoni, presenze e assenze. E l’aggettivo “radicale” è forse quello più efficace per raccontarla, insieme a qualcosa che ha a che fare con la dimensione biologica ricorrente. “Questa mostra – ha aggiunto Keller – è come un organismo vivente, che continua a evolversi e a cambiare. In orari diversi, in giorni diversi, si trova una mostra diversa”.


Negli spazi della Fondation Beyeler si trova una incredibile densità di capolavori, dalle ninfee di Monet alle nuvole di Gerhard Richter, dalle figure di Marlene Dumas ai giganti di Adriàn Villar Rojas, per arrivare a una sorta di grande schermo-monolito di Dominique Gonzalez-Foerster, che duplica il cielo di Basilea, aggiungendo delle presenze angeliche. Ma le opere che più impattano, forse, sono la leggendaria nebbia di Fujiko Nakaya, che arriva improvvisa e avvolge ogni cosa con un senso di urgente vertigine, e la grande torre di Philippe Parreno che domina il giardino, forte di una propria autodeterminazione che la libera dal controllo dell’artista. “Questa torre – ha concluso Sam Keller – registra da oltre venti sensori molte informazioni invisibili. Impara a conoscere il suo ambiente, come un bambino o comunque come un essere umano. E sviluppa un linguaggio per comunicare con questo ambiente. Impara degli uccelli, dalle persone, dalle rane e crea un suo linguaggio, Quindi i suoni non sono mai gli stessi”.


Proprio l’impossibilità di circoscrivere la portata di questa arte sembra essere una delle più importanti caratteristiche del dispositivo creato a Basilea, una fenomenologia del contemporaneo che va oltre noi stessi e apre molte possibili strade al dibattito su che cosa significa oggi stare davanti a un’opera d’arte, ma anche cosa significa crearla. Qui, signori, la partita la giochiamo tutti; ed è una partita inevitabile. (Leonardo Merlini)

Il progetto The Prism di Stefano Simontacchi approda a New York

Il progetto The Prism di Stefano Simontacchi approda a New YorkRoma, 16 mag. (askanews) – The Prism ha inaugurato presso il Consolato Generale d’Italia a New York la prima esposizione internazionale, che sarà visitabile fino al 14 luglio 2024. I portali emozionali di The Prism varcano l’oceano e interagiscono con un contesto del tutto nuovo, proponendo al pubblico newyorkese un nuovo approccio alla dimensione spirituale dell’arte.


“New York è la città che accoglie le idee e le proposte artistiche più innovative e interessanti – commenta Sergio Lella, CEO di The Prism – Per questo è il luogo ideale per iniziare il viaggio oltre i confini nazionali di The Prism, piattaforma artistica d’eccellenza che interpreta i radicali cambiamenti in atto nel contemporaneo”. Marco Senaldi, curatore del progetto The Prism, racconta: “Le opere selezionate per la mostra presso il Consolato Generale d’Italia sono sette portali che vanno da DEEPLY INTO YOU a MARS AUTHORITATIVE, da NEURONAL CONNECTIONS a LIFE JOURNEY. Caratterizzate dalla forma circolare, appartengono a cicli diversi, ma costituiscono tutte espressione inconfondibile dell’universo artistico e spirituale di The Prism. Ne sono testimonianza i titoli e i riferimenti, ciascuno dei quali si ricollega a una caratteristica di questo mondo creativo – la dimensione animistica dell’esistenza, il senso degli archetipi, la rilevanza delle emozioni, la connessione energetica comprovata dalle neuroscienze, e molto altro. Pur nei limiti di una rassegna antologica, la forza della proposta di The Prism emerge qui in tutta la sua intensità, permettendo allo spettatore di entrare in risonanza con le opere che gli stanno di fronte e di conseguenza con la propria profondità interiore”.


The Prism è un progetto artistico interattivo che crea una speciale connessione con il pubblico attraverso portali emozionali e potenti opere circolari, luminose e riflettenti. Le forme fisiche e le dimensioni spirituali convergono nelle opere dell’artista, dando vita a portali che invitano alla meditazione e al risveglio spirituale, forme di espressione che conducono ognuno di noi alle radici del proprio essere.

”Una candela nel buio”, il 18 maggio Moni Ovadia legge poesie palestinesi

”Una candela nel buio”, il 18 maggio Moni Ovadia legge poesie palestinesiRoma, 16 mag. (askanews) – “Oltre le parole”, diretta da Pascal La Delfa, presenta in anteprima nazionale il nuovo spettacolo di Moni Ovadia il 18 maggio all’Ara Pacis di Roma in occasione della “Notte dei musei 2024”.


“Per cosa si definisce un popolo? Per molteplici aspetti come le tradizioni, la memoria, una cultura nazionale, per molti altri moti emozionali difficili da tradurre con precisione in parole. Ma non vi è dubbio alcuno che l’identità di un popolo ha uno dei suoi pilastri portanti nella poesia. In questo senso il grandissimo poeta palestinese Mahmoud Darwish è il poeta nazionale del popolo palestinese ed esprime nei suoi versi l’interiorità della sua gente e i suoi più profondi sentimenti ma nei suoi versi è presente un potente afflato universale e ciò fa di lui uno dei più grandi poeti del Novecento. Ma come poeta arabo respira in lui anche l’ineffabile alito del deserto, spazio/tempo dell’esilio, dello sconfinare, dell’anelito alla libertà e alla dignità alle quali Darwish in quanto palestinese aspira con irrinunciabile forza. E noi ci avviciniamo all’alito del deserto con l’arte magica della presenza che si fa assenza della magnifica Gabriella Compagnone”. Queste le parole dell’artista Moni Ovadia per il suo nuovo spettacolo, che avrà il supporto della celebre sand-artist. Versi che si tramutano in sabbia disegnata ad arte per far riflettere e suggestionare spettatori di ogni età. “Abbiamo scelto l’Ara Pacis per presentare questo progetto, perché lo riteniamo forse il luogo più simbolico della storia, in un momento in cui si parla più di guerra che di pace”, spiega Pascal La Delfa, direttore artistico dell’associazione Oltre le Parole di Roma, che da oltre trenta anni opera nel campo del teatro come strumento di relazione, espressività e benessere.


Gli ultimi lavori sono uno spettacolo per le scuole sui temi delle guerre, e un nuovo lavoro sui cento anni dell’opera “Ciascuno a suo modo” di Pirandello (tra teatro, psicodramma e librerie viventi) che prenderà corpo in autunno in sei regioni italiane in contemporanea. Il lavoro e i programmi dell’associazione sono visibili sul sito www.teatrocivile.it Tre le repliche previste, alle ore 21,30-22,30 e 23,30- Ingresso gratuito da via Ripetta in auditorium o a 1 euro con visita all’Ara Pacis dall’ingresso principale, in occasione della Notte dei Musei 2024 “Una Candela nel buio”. Con Moni Ovadia. Poesie di Mahmoud Darwish. Sand Artist: Gabriella Compagnone. Direzione artistica: Pascal La Delfa. Sabato 18 maggio 2024 presso l’Auditorium dell’Ara Pacis di Roma (ingresso gratuito da via Ripetta). Programma completo della manifestazione https://www.museiincomuneroma.it/it/mostra-evento/notte-dei-musei-2024.

Stabilita cronologia assoluta per Gerusalemme nell’età del ferro

Stabilita cronologia assoluta per Gerusalemme nell’età del ferroMilano, 15 mag. (askanews) – Gerusalemme è stata abitata ininterrottamente per migliaia di anni, fungendo sia da centro di importanza religiosa sia da centro del potere per diversi regni, ma nonostante il vasto numero di testi storici sulla città sussistono ancora numerose lacune nella sua cronologia assoluta. I ricercatori del Weizmann Institute of Science, in collaborazione con un team di archeologi del sito archeologico della Città di David, a Gerusalemme, la Israel Antiquities Authority e l’Università di Tel Aviv, sono però riusciti recentemente a tracciare una cronologia dettagliata della Gerusalemme dell’età del ferro, corrispondente al periodo in cui la città fungeva da capitale del biblico Regno di Giuda. I risultati di questo studio sono stati pubblicati sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, USA (PNAS). Nonostante tutto il materiale reperibile su Gerusalemme, lo studio della sua età del ferro si è rivelato molto impegnativo in termini di cronologia assoluta: è, infatti, un processo che implica l’individuazione di date esatte o di periodi temporali a cui appartengono le diverse prove archeologiche in contrapposizione a una cronologia relativa, che stabilisce l’ordine degli eventi basandosi su similitudini architettoniche o su prove ceramiche in altri siti.


Parte di questa sfida davvero impegnativa è un fenomeno noto come Plateau di Hallstatt, che è legato a una particolare interazione dei raggi cosmici con l’atmosfera terrestre nel periodo in questione e che interferisce con l’uso della datazione al radiocarbonio, il gold standard per determinare l’età di qualcosa. Questo fenomeno fa sì che per l’età del ferro, la datazione radioattiva, invece di indicare l’età specifica di un oggetto, generi un grafico con un’area piatta per l’intervallo tra l’VIII e il V secolo a.C. Pertanto, la datazione al radiocarbonio generalmente non è accurata relativamente a questo intervallo temporale, rendendo il superamento del Plateau di Hallstatt una delle più grandi sfide per gli studi archeologici dell’ultima parte dell’età del ferro. Di conseguenza, gli archeologi che hanno esplorato la Gerusalemme dell’età del ferro si sono sempre basati in prevalenza sui testi biblici e storici e sullo studio della ceramica, piuttosto che sulla datazione al radiocarbonio. Inoltre, il suo mix di architetture e l’essere stata ininterrottamente abitata per più di 4.000 anni hanno reso Gerusalemme una sorta di fusione di costruzioni di epoche diverse: è, infatti, una città che ha visto numerose guerre, distruzioni e ricostruzioni, con conseguenti aree urbane estese e complesse costruite sulle rovine di ciò che le aveva precedute. La combinazione di tutti questi elementi ha generato numerose lacune nei processi di ricerca votati a stabilire una cronologia assoluta della Gerusalemme dell’età del ferro e per colmarle sarebbe, appunto, necessario riuscire ad aggirare le difficoltà di datazione legate al Plateau di Hallstatt. Fortunatamente, i ricercatori del Weizmann sono riusciti a fare proprio questo utilizzando la micro-archeologia, un campo relativamente nuovo nell’ambito delle scienze archeologiche, da loro sviluppato. Questo approccio si concentra sull’esame attento dei pezzi di prove che si sono accumulati nei siti, utilizzando strumenti scientifici con un livello di cura e attenzione quasi forense.


‘Si tratta di comprendere a fondo la connessione tra i materiali da datare e gli strati con tracce di occupazione umana o materiale da costruzione: ed è così che abbiamo potuto applicare il metodo della micro-archeologia’, ha affermato la professoressa Elisabetta Boaretto, direttrice della Weizmann’s Scientific Archeology Unit. Sviluppata negli anni ’40, la datazione al radiocarbonio funziona misurando il radiocarbonio (carbonio-14 o 14C) in un dato oggetto. Il radiocarbonio viene costantemente prodotto nell’atmosfera e diventa parte del ciclo del carbonio. Questi atomi vengono assorbiti nei tessuti della materia organica come quella delle piante, degli animali e degli esseri umano, ma quando l’organismo vivente muore, smette di assorbire il radiocarbonio. Il 14C subisce un decadimento radioattivo, trasformandosi in azoto-14. Poiché il radiocarbonio ha un tasso di decadimento noto, i ricercatori possono utilizzare il numero di atomi di 14C rimanenti per determinare l’età di qualcosa. Recandosi nei siti di scavo di Gerusalemme, Boaretto, insieme alla dottoressa Johanna Regev, ha potuto effettuare più di 100 misurazioni del radiocarbonio su materiale organico, con una prevalenza di semi carbonizzati. ‘Dobbiamo essere in grado non solo di raccogliere dal sito materiale come semi, ossa o carbone, ma di identificare il contesto, come, ad esempio, il luogo in cui i semi sono stati bruciati’, afferma Boaretto. ‘Raggiungiamo questo obiettivo con i metodi che abbiamo sviluppato nel corso degli anni, utilizzando gli strumenti analitici che abbiamo in Weizmann e che portiamo con noi anche sul campo. In questo modo possiamo andare oltre l’analisi archeologica standard di un sito’. Successivamente, i ricercatori hanno separato il materiale originale dai contaminanti e hanno effettuato misurazioni multiple del radiocarbonio presso il Weizmann’s Dangoor Research Accelerator Mass Spectrometry (D-REAMS) Laboratory per ottenere il massimo livello di accuratezza e precisione nella datazione. ‘Conosciamo come si è formato il sito, quindi quando raccogliamo semi o campioni di malta a esso relativi, possiamo essere sicuri se fossero o non fossero lì quando il sito è stato costruito. E ciò significa che partendo da ciò possiamo datare il sito stesso’, ha continuato.


Il superamento del Plateau di Hallstatt è stato reso possibile anche grazie all’aiuto di 100 anelli di alberi con datazione da calendario, parte di noti archivi. La datazione degli anelli degli alberi, nota anche come dendrocronologia, si basa sul fatto che fino alla sua morte un albero cresce di un anello ogni anno. Più anelli ha un albero, più è vecchio. Combinando questo tipo di dato con il metodo del radiocarbonio, i ricercatori sono stati in grado di ottenere una determinazione più precisa e dettagliata della concentrazione di radiocarbonio nell’atmosfera durante il periodo di interesse, processo che ha contribuito anche a creare una cronologia assoluta. In particolare, questo studio è stato reso possibile da un esperimento organizzato dal dotto. Lior Regev presso D-REAMS, l’acceleratore dedicato alla ricerca di Weizmann. L’esistenza di due eventi storici avvenuti in date ben stabilite – la distruzione di Gerusalemme da parte dei babilonesi nel 586 a.C. e il terremoto dell’VIII secolo a.C., con le successive opere di ricostruzione – ha contribuito a fornire ulteriori informazioni sul comportamento del radiocarbonio nell’atmosfera. I ricercatori hanno notato differenze tra il radiocarbonio nel materiale della regione rispetto alla concentrazione misurata negli anelli degli alberi europei e americani nello stesso periodo. Queste differenze – quando, cioè, i dati del radiocarbonio non corrispondono a come pensiamo dovrebbero essere, grazie agli anelli degli alberi – sono chiamare ‘offset’ e comprenderle può essere di fondamentale importanza per gli scienziati che studiano il clima e l’atmosfera, così come per le cronologie archeologiche.


Il più grande risultato dello studio è stato il successo nel creare una cronologia assoluta, con dettagli e fedeltà senza precedenti, per una città abitata senza soluzione di continuità. In particolare, i ricercatori sono stati in grado di fornire prove concrete della diffusa presenza di insediamenti umani a Gerusalemme già nel XII secolo a.C. Un’espansione verso ovest della città è stata fatta risalire al IX secolo a.C. determinando la tempistica della costruzione di un grande edificio antico. Stabilire le date di un grande sconvolgimento urbanistico ha permesso di attribuirlo a un devastante terremoto e a un ulteriore sviluppo fino al 586 a.C. In particolare, mentre ricerche precedenti avevano attribuito la riqualificazione post-terremoto al re Ezechia, la datazione al radiocarbonio e la cronologia mostrano che probabilmente è avvenuta durante il regno di re Uzzia. ‘Gerusalemme è una città viva; non è come un tell costruito come una sequenza di strati’, conclude Boaretto. ‘Questa è una città che è stata costantemente ricostruita nell’arco di tutto questo periodo e le prove archeologiche sono sparse’. I metodi sviluppati nello studio potrebbero avere un impatto che va oltre la cronologia Gerusalemme, poiché i problemi legati all’uso della datazione al radiocarbonio nei siti dell’età del ferro sono globalmente diffusi. L’approccio micro-archeologico sviluppato dal team potrà quindi essere utilizzato in molti altri siti, contribuendo a colmare le lacune relative a questo periodo cruciale per lo sviluppo e per la storia dell’umanità.