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Da Trapani a Catania in bici, pubblicata la guida della Sicily Divide

Da Trapani a Catania in bici, pubblicata la guida della Sicily DivideRoma, 31 ott. (askanews) – Da Trapani, o Palermo, fino a Catania in bicicletta: 460 km nell’entroterra di una Sicilia inedita e inaspettata. E’ la Sicily Divide, un percorso che taglia in due l’Isola attraverso un itinerario cicloturistico davvero meraviglioso. Esce il volume-guida “Sicily Divide in bicicletta. La grande traversata dell’Isola”, edizioni Terre di Mezzo, autore Giovanni Guarneri (120 pp – 16,00 euro).

Una esperienza straordinaria nel cuore di un’isola dalla cultura millenaria, Sicily Divide è un’avventura da provare: ad ogni pedalata gli occhi si colmano di bellezza nell’incontro con un entroterra davvero lussureggiante, distese di campi dominate dai colori della natura che cambiano con l’alternarsi delle stagioni, un paesaggio che conserva le tracce della storia, dai Greci agli Arabi e ai Normanni; nella scoperta dei sapori e dei profumi di una cucina che scova le tipicità di ogni zona e infine nell’incontro più prezioso, quello con le persone che abitano questa terra, custodi della memoria, delle tradizioni e della cultura, sempre disponibili ad accogliere in maniera unica. Un viaggio in bicicletta, da ovest ad est, lungo 460 chilometri e che mostra il lato meno conosciuto della Sicilia. Si inizia a pedalare dalle saline di Trapani, si lascia il mare alle spalle e ci si addentra in un territorio votato all’agricoltura e all’allevamento. Per chi decidesse di partire da Palermo, esiste una variante che conduce fino a Gibellina. Si raggiungono i territori distrutti dal terremoto del Belice del 1968 e nel Cretto di Burri, la più grande opera di land art italiana, si incontra il simbolo della ricostruzione. Il percorso continua verso il borgo di Sambuca di Sicilia, da dove il tracciato diventa un continuo sali e scendi di colline e montagne fino ad Enna. Superato il capoluogo di provincia più alto d’Italia si inizierà a scorgere l’Etna, il più alto vulcano attivo d’Europa, fino a raggiungere le sue pendici con l’arrivo a Catania. Si è raggiunta la meta di questo viaggio, è tempo di scendere dalla bici per ammirare le tantissime meraviglie del suo centro storico.

Sicily Divide è un itinerario con molto dislivello, un fondo prevalentemente irregolare e anche impegnativo, con sezioni di sterrato, per questo è preferibile optare per una bicicletta di tipo gravel o mountain bike. Sette sono le tappe suggerite, si pedala su strade secondarie con traffico molto ridotto o addirittura nullo, che è possibile modulare a seconda delle proprie esigenze di ritmo e di tempo. Un viaggio in bici che può essere pianificato in ogni momento dell’anno, con le dovute precauzioni per le alte temperature durante i mesi estivi. Una guida completa per preparare il viaggio in bici: le tracce Gps, i consigli per l’attrezzatura, l’indicazione dei servizi bike friendly e quelli per il trasporto bici, le mappe, le altimetrie e i luoghi da vedere. A cui si aggiungono le informazioni utili sul tipo di percorso, il fondo stradale, le officine, l’attrezzatura, e il tipo di bagaglio. La guida si arricchisce inoltre della sezione “A portata di pedale”: per ciascuna tappa vengono proposte e descritte alcune brevi varianti per raggiungere e scoprire, a poca distanza dalla traccia principale, ulteriori tesori dell’isola come il tempo di Segesta o la sfidante ascesa all’Etna. In occasione della Giornata mondiale del cicloturismo 2023, a Cesena, il Sicily Divide ha ricevuto il premio come secondo classificato all’Oscar Italiano del Cicloturismo, premio assegnato ogni anno alle migliori ciclovie d’Italia.

Libri, esce “Nella tana del coniglio” di Francesca Fialdini

Libri, esce “Nella tana del coniglio” di Francesca FialdiniRoma, 31 ott. (askanews) – Sei storie di vita vera, racconti a cuore aperto di persone affette da disturbi del comportamento alimentare. Francesca Fialdini incontra Martha, Benedetta, Giulia, Valentina, Marco e Anna, lo fa guardando, insieme a loro, all’interno delle tane in cui sono caduti mentre rincorrevano un mito, un ideale di perfezione, la considerazione degli altri, un bisogno d’amore. Sei interviste intime e potenti in cui le parole sono strumenti centrali per riflettere sui motivi di un dolore che punisce e trasfigura il corpo, mettendo a repentaglio serenità e futuro. Il volume, che l’autrice scrive con lo psichiatra Leonardo Mendolicchio, propone una riflessione sull’uso delle parole nel racconto di anoressia, bulimia, bindge eating, con la consapevolezza di come proprio il linguaggio sia alla base delle nostre relazioni, proponga un’immagine di noi stessi e dia forma alle nostre ansie e paure più profonde.

“Nella tana del coniglio” di Francesca Fialdini con Leonardo Mendolicchio, edito da Rai Libri, è in vendita nelle librerie e negli store digitali da oggi, 31 ottobre (Euro: 19,00). Francesca Fialdini, inviata, conduttrice e autrice. Lavora in Rai dal 2005, dedicandosi con particolare attenzione ad argomenti di attualità che hanno al centro le donne e i giovani. Da cinque edizioni conduce su Rai 3 “Fame d’amore”, programma pluripremiato dedicato al racconto di disturbi del comportamento alimentare e altre espressioni di disagio giovanile.

Leonardo Mendolicchio, medico psichiatra, è direttore dei reparti di riabilitazione disturbi alimentari e Auxologia dell’Auxologico Piancavallo e direttore del laboratorio di ricerca di Neuroscienze Metaboliche. Founder del progetto Food For Mind, è da anni impegnato nella cura dei disturbi alimentari. È tra i sostenitori del progetto “Fame d’amore”, nonché supervisore scientifico. Ha già pubblicato Bisogna pur mangiare (Lindau, 2017), Prima di aprire bocca (Guerini, 2019) e Il peso dell’amore (Bur, 2021).

Roma, Palazzo Bonaparte ospiterà la più grande mostra di Escher

Roma, Palazzo Bonaparte ospiterà la più grande mostra di EscherRoma, 30 ott. (askanews) – Dal prossimo 31 ottobre, a 100 anni dalla sua prima visita nella Capitale avvenuta nel 1923, Escher torna a Roma con la più grande e completa mostra a lui mai dedicata, a Palazzo Bonaparte.

Olandese inquieto, riservato e indubbiamente geniale, Escher è l’artista che, con le sue incisioni e litografie, ha avuto e continua ad avere la capacità unica di trasportarci in un mondo immaginifico e impossibile, dove si mescolano arte, matematica, scienza, fisica e design. Artista scoperto in tempi relativamente recenti, Escher ha conquistato milioni di visitatori nel mondo grazie alla sua capacità di parlare ad un pubblico molto vasto. Escher è amato da chi conosce l’arte, ma anche da chi è appassionato di matematica, geometria, scienza, design, grafica. Nelle sue opere confluiscono una grande vastità di temi, e per questo nel panorama della storia dell’arte rappresenta un unicum. La mostra di Roma si configura come un evento eccezionale che presenta al pubblico, oltre ai suoi capolavori più celebri, anche numerose opere inedite mai esposte prima.

Un’antologica di circa 300 opere che comprende l’ormai iconica Mano con sfera riflettente (1935), Vincolo d’unione (1956), Metamorfosi II (1939), Giorno e notte (1938), la celebre serie degli Emblemata, e tantissime altre. Inoltre, a impreziosire il percorso espositivo, anche una ricostruzione dello studio che Escher aveva a Baarn in Olanda che, qui a Roma, espone al suo interno i vari strumenti originali coi quali il Maestro produceva le sue opere e il cavalletto portatile che lo stesso Escher portò con sé nel suo peregrinare per l’Italia. Dopo vari viaggi in Italia iniziati nel 1921 quando visitò la Toscana, l’Umbria e la Liguria, Escher giunse a Roma dove visse per ben dodici anni, dal 1923 al 1935, al civico 122 di via Poerio, nel quartiere di Monteverde vecchio.

Il periodo romano ebbe una forte influenza su tutto il suo lavoro successivo che lo vide prolifico nella produzione di litografie e incisioni soprattutto di paesaggi, scorci, architetture e vedute di quella Roma antica e barocca che lui amava indagare nella sua dimensione più intima, quella notturna, alla luce fioca di una lanterna. Le notti passate a disegnare, seduto su una sedia pieghevole e con una piccola torcia appesa alla giacca, sono annoverate da Escher tra i ricordi più belli di quel periodo. In mostra a Palazzo Bonaparte, infatti, sarà presente anche la serie completa dei 12 “notturni romani” prodotta nel 1934 – tra cui “Colonnato di San Pietro”, “San Nicola in Carcere”, “Piccole chiese, Piazza Venezia”, “Santa Francesca Romana”, “Il dioscuro Polluce” – insieme ad altre opere che rappresentano i fasti dell’antica Urbe come Roma (e il Grifone dei Borghese) del 1927, San Michele dei Frisoni, Roma (1932) e Tra San Pietro e la Cappella Sistina (1936).

La mostra, col patrocinio della Regione Lazio, del Comune di Roma – Assessorato alla Cultura e dell’Ambasciata e Consolato Generale del Regno dei Paesi Bassi, è prodotta e organizzata da Arthemisia in collaborazione con la M. C. Escher Foundation e Maurits ed è curata da Federico Giudiceandrea – uno dei più importanti esperti di Escher al mondo – e Mark Veldhuysen, CEO della M.C. Escher Company.

Libri, in uscita “Oltre il fango” di Mario Tozzi

Libri, in uscita “Oltre il fango” di Mario TozziRoma, 27 ott. (askanews) – Un’Italia geologicamente giovane e instabile, un territorio che l’emergenza climatica e scelte dell’uomo, spesso poco incisive o sbagliate, hanno reso ancor più fragile e pericolosa. Se il dissesto idrogeologico mette a rischio quasi il 94 per cento dei comuni italiani, e frane e alluvioni sono sempre più causa di devastazione e morte, è evidente la necessità di un deciso e repentino cambio di passo. Ma in quale direzione? Analizzando cause e false cause, soluzioni e false soluzioni, in “Oltre il fango” Mario Tozzi riflette su quali comportamenti virtuosi possano tamponare le manifestazioni della natura e su quali siano, invece, i comportamenti sbagliati, che possono solo peggiorare condizioni già al limite.

“Oltre il fango” di Mario Tozzi, edito da Rai Libri, è in vendita nelle librerie e negli store digitali dal 31 ottobre 2023 (Euro: 19,00). Mario Tozzi è geologo e ricercatore del CNR, divulgatore scientifico, saggista, autore e conduttore televisivo. È membro del consiglio scientifico del WWF ed è Cavaliere della Repubblica Italiana. Dal 2013 al 2023 è stato presidente del Parco dell’Appia Antica. Tra le numerose trasmissioni che ha condotto ricordiamo: “Gaia – Il pianeta che vive”, in onda su Rai 3 dal 2001 al 2006; “Terzo Pianeta”, sempre su Rai 3, dal 2007 al 2008; “La gaia scienza” (insieme al Trio Medusa), in onda su La7 dal 2009 al 2010; “Fuoriluogo”, in onda su Rai 1 dal 2014 al 2017. Dal 2019 conduce su Rai 3 “Sapiens – Un solo pianeta”. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: L’Italia intatta. Viaggio nei luoghi italiani non alterati dagli uomini e fermi nel tempo (2018), Come è nata l’Italia. All’origine della grande bellezza (2019), Uno scomodo equilibrio. Uomini, virus e pandemie (2021), Mediterraneo inaspettato (2022), editi da Mondadori. Nel 2023, per Einaudi Ragazzi, ha pubblicato Perché il clima sta cambiando?. Per Rai Libri è autore di Un’ora e mezzo per salvare il mondo (con Lorenzo Baglioni, 2020).

La musica inevitabile del presente: gli Autechre alla Biennale

La musica inevitabile del presente: gli Autechre alla BiennaleVenezia, 27 ott. (askanews) – Prima una nebbia bianca, talmente luminosa da sembrare accecante, poi il buio pressoché totale, quando lo spettacolo inizia a imporre il suo ritmo al Teatro alle Tese dell’Arsenale. Il resto è una possibile storia dell’evoluzione della musica elettronica, nonché una forma di riflessione – potremmo scrivere anche di meditazione, se non sembrasse troppo ossimorico – sulla “necessità”, in senso filosofico, dei suoni che per 75 minuti hanno riportato sul palco gli Autechre, il duo inglese composto da Ron Brown e Sean Booth che ha lasciato un’impronta profondissima nel mondo della IDM. La Biennale Musica 2023, dedicata al suono elettronico e alla “Micro-music”, dopo il Leone d’Oro Brian Eno ospita quindi un altro concerto di grande richiamo, e le aspettative non sono andate deluse.

Nell’oscurità, senza particolari punti di riferimento spaziali, la musica ha la forza e l’occasione di prendersi tutto lo spazio possibile, ed è uno spazio ampio, profondo, carico di possibilità e opportunità. La linea musicale degli Autechre è pulita, elegante, i suoni, anche i meno convenzionali, trovano il modo di inserirsi nella struttura dei pezzi, che è complessa, ma spesso riesce a mantenere una vocazione di accessibilità. Cosa le prime sensazioni che arrivano al pubblico sono quelle di un grande affresco elettronico che si appoggia molto di frequente al ritmo, ai bassi, alla ripetizione. Come se fossero i rumori a mostrarsi come possibile materia prima di un risultato che, a tutti gli effetti, è musica, anzi, la sensazione è che ci sia proprio un desiderio di fare sì che questa musica sia per quanto possibile sciolta dagli accidenti del mondo. La seconda sensazione è che la musica che esce dai computer degli Autechre sia quella di una grande indagine su tutti i possibili suoni, quindi i suoni del mondo, per come li conosciamo e non li conosciamo. Da qui al sentire che questa musica sia un’espressione della necessità, ossia che diventi in un certo senso musica inevitabile, il passo è breve e naturale da compiere. Più ci sia addentra nello spettacolo, più ci si accorge del progressivo formarsi di qualcosa di più riconoscibile, più ballabile. Che però non rinuncia alla vocazione di essere terreno fertile per l’idea di una musica assoluta, per certi versi piacevolmente aliena. Come se quella che viene suonata a Venezia possa essere una versione meno allucinata e più inclusiva della colonna sonora del film “2010 – Odissea nello spazio”, quando l’astronauta Bowman parte per il suo viaggio tra le stelle verso una nuova forma di vita. Ecco gli Autechre sembrano agire le stesse dinamiche di viaggio e perdita dei confini dello spettacolo, salvo poi, dopo avere lasciato respiro al pubblico, tornare a spingere su quella forma si accelerazione che è un po’ il loro marchio di fabbrica ed è anche una sorta di tappetino musicale per tutto il nostro tempo di continua digitalizzazione e costante incertezza. Una musica che, da questo punto di vista, diventa anche una forma di conoscenza diretta, quella basata sul corpo e sulle prime sensazioni che certi contatti possono provocare. Per questo, anche se non siamo esattamente in un contesto dance – ma ci si arriva anche lì, nella preziosa bulimia creativa dello spettacolo -, ballare a un certo punto sembra l’unica cosa da fare, l’unico modo per mettersi in allineamento con la narrazione ambiziosa dei due musicisti e la dimensione di mondo chiuso che il concerto ha creato.

Eppure la musica degli Autechre non è fatta per ignorare il mondo fuori, le sue sconvolgenti tragedie e violenze, oltre che la catastrofe climatica incombente, bensì per il contrario, per fare da sfondo a tutte queste situazioni insostenibili o estreme e fornirci una sorta di strumento per affrontarle senza infingimenti, ma anche senza nascondersi. Perché insieme con i pezzi che attraversano lo spazio della grande sala immersa nel buio, arrivano anche le angosce, i dilemmi, le guerre. C’è una musica per il nostro tempo insomma, che parla di noi senza mai citarci, quasi senza mai neppure guardarci – come noi in sala non possiamo vedere i due artisti – ma provando a prendersi cura lo stesso di tutti. Questo sembra dire il finale del concerto e noi possiamo, anzi vogliamo, crederci con tutte le forze. (Leonardo Merlini)

Paraventi in Fondazione Prada, storia segreta d’un oggetto d’arte

Paraventi in Fondazione Prada, storia segreta d’un oggetto d’arteMilano, 26 ott. (askanews) – Guardare oltre il paravento. Sembra una metafora, ma in realtà è esattamente quello che succede nella mostra “Paraventi” che Fondazione Prada a Milano dedica a questo oggetto a volte trascurato, a volte pensato solo nella sua funzione di nascondere anziché di mostrare. E invece, come dimostrano i circa 70 pezzi esposti sui due piani del Podium della Fondazione, da mostrare c’è molto, a partire dalla condizione di soglia che il paravento porta con sé per definizione. A curare l’esposizione è stato chiamato Nicholas Cullinan.

“Quello che è interessante dei paraventi – ha detto ad askanews – è che stanno sempre tra due cose e sono oggetti che uniscono l’arte, la decorazione, ma anche la pittura o la scultura. Sono molto particolari e ciò che io credo sia importante in questa mostra è che per la prima volta possiamo racontare la storia ancora non detta dei paraventi, dalle loro origini asiatiche, in Cina e Giappone, fino ad artisti contemporanei come Goshka Macuga, che ha fatto quest’opera alle mie spalle. Quindi raccontiamo per la prima volta questa storia e ci avviciniamo alla complessità dei paraventi”. Complice anche l’allestimento, lo spazio del Podium diventa una sorta di labirinto giocoso e ricco di continue “finestre” su altri mondi, siamo questi quelli ispirati a Sol Lewitt immaginati da Tony Cokes, oppure le opere video avvolgenti di Joan Jonas e di Wu Tsang. Paraventi come schermi, quindi, nel solco dell’espressione inglese che li definisce, “folding screen”, ma anche come vere e proprie opere che si adattano al tradizionale formato codificato nel passato, di cui la mostra presenta anche una serie di capolavori classici orientali.

“Uno dei piaceri del lavorare su questo progetto, con la grande mole di ricerche che abbiamo fatto – ha aggiunto Cullinan – sono state le scoperte: per esempio io non sapevo che Picasso aveva dipinto un paravento e ci sono moltissimi artisti che ne hanno realizzati e nessuno lo sapeva. Ora sono esposti qui ed è una grande emozione”. La dinamica del vedere-non vedere genera un mistero, una aspettativa, e allo stesso modo i paraventi esposti in un certo senso velano gli altri, in un processo che continua a reiterarsi. Ma le storie che si raccontano in Fondazione Prada – dove si cerca ogni volta di spingere un passo più avanti la ricerca museologica e la nostra percezione dell’idea di mostra – vivono anche della curiosità per il modo in cui il paravento è stato ripensato dagli artisti contemporanei, a volte in perfetta simbiosi, come nel caso di Elmgreen e Dragset, con le poetiche e le pratiche. Ed è come se solo grazie alla mostra ci rendessimo conto di quanto l’oggetto paravento fosse già significativo e presente nell’immaginario dell’arte. (Leonardo Merlini)

Peeping Tom a Torinodanza, metateatro totale su arte e realtà

Peeping Tom a Torinodanza, metateatro totale su arte e realtàTorino, 25 ott. (askanews) – Il festival Torinodanza 2023 chiude con uno spettacolo di enorme intensità e forza, comico e tragico come solo le cose che cercano di raccontare la “realtà” sanno essere. Chiude, in fondo, senza la danza, ma con una sorta di metariflessione sull’arte in generale, sulla creazione e la messa in scena, sulla relazione con il pubblico, ma anche con lo stesso regista-creatore che dovrebbe dominare lo spazio di possibilità dell’opera. Tante cose, forse troppe, ma tenute insieme da una ostinata volontà di pensare e agire il fatto di essere sul palco. “S 62° 58′, W 60° 39′” è il titolo del lavoro della compagnia belga Peeping Tom, portato alle Fonderie Limone di Moncalieri, che ha messo gli spettatori di fronte alle domande di fondo sulla natura dell’arte, sul suo senso, se volete, e sul fatto che l’attore è personaggio e persona, e queste due funzioni sono inscindibili, e sono parte della scrittura stessa di un dramma teatrale. Cercare la verità, o anche solo provare a dare una forma alla realtà, le imprese che il regista Frank Chartier, fondatore insieme a Gabriela Carrizo della compagnia, chiede di compiere ai propri attori, si dimostrano per quello che sono effettivamente: impossibili, grottesche, destinate a una sconfitta continua che genera dolore e frustrazione, solitudine e straniamento. Ma, e qui a nostro avviso c’è il punto decisivo, la sconfitta genera anche l’opera, “the piece” come dicono in inglese i performer, che vive proprio dell’impossibilità di essere la “verità” o la “realtà”, ma arriva al cuore di quella cosa che chiamiamo “teatro”, oppure “letteratura”, o più semplicemente, “arti”. Per questo i protagonisti dello spettacolo – che è totalizzante e totalizzato – invocano spesso Cechov, Shakespeare, Beckett e anche Kafka: perché le loro opere, in forme diverse, hanno raggiunto la perfezione artistica che le ha rese “vere”, più reali della vita stessa. Un’ambizione che, si sente, appartiene anche a “S 62° 58′, W 60° 39′” e che trova più di un momento di epifania, accanto ad altri in cui arriva invece la maniera o una forma di forzatura, come se il tentativo – straordinario – di “dire tutto”, in qualche passaggio, come la tesissima lunga scena finale, scivolasse nel “dire troppo”. Forse in quei punti sarebbe servita più danza e meno parole, come sembrava – lo diciamo anche con il senno di poi – che lo stesso pubblico si sarebbe aspettato. Ma qui siamo sul terreno instabile delle supposizioni, ed è sempre meglio non esagerare.

Torniamo sulla scena: una barca incagliata nel ghiaccio, un biancore che ricorda la disperazione (e fa pensare alle pagine polari di Daniele Del Giudice) e un gruppo di personaggi chiamato dal regista, Franck, a confrontarsi con questa situazione drammatica e ostile, figlia di una serie di rimandi ai disastri politici, economici e ambientali, oltre che sociali, del nostro presente. Una barca, i ghiacci, delle vite di attori che si confondono tra il ruolo e la storia di chi quel ruolo è chiamato a interpretarlo. A uno a uno, i personaggi e gli attori (ma sono attori che fanno il personaggio di loro stessi? È inevitabile e gli specchi a questo punto diventano infiniti), vanno in pezzi, crollano. Apparentemente di fronte alle richieste del demiurgo-regista, ma molto più probabilmente per la semplice impossibilità di essere, di fare tutto ciò che la società (la vita!) – non il regista – chiede a loro, e a noi, ogni giorno. Qui si sente l’eco di Beckett, ma anche di Cechov: il deserto sentimentale che li unisce anche nella grandi differenze. Andare in pezzi è l’unica possibilità, l’unica opzione sensata, per andare avanti per avvicinarsi alle domande di fondo, che sono sull’arte, sul teatro, ma sono anche, più semplicemente, sull’umanità. Il padre assente e i suoi rimorsi insostenibili, che poi diventano rabbia; il bambino Franck che sembra essere lo stesso regista da piccolo, quando aveva un corpo e dei sogni; le donne che denunciano il sessismo e il maschilismo; i personaggi che – e si cita Pirandello non a caso – vanno in cerca di loro stessi e non si trovano. Peeping Tom, in modo rocambolesco, a volte incredibilmente comico, a volte devastante, mette in scena noi. Ed è una messa in scena che si prende tutto, anche la “quarta parete” al di là del confine del palco. Perché è lì, da qualche parte, che sta la voce creatrice del regista. E parlare di una sorta di divinità è tanto banale quanto inevitabile. Ma lo si fa spesso ridendo, e allora sovviene anche Ionesco, quasi che ci accorgessimo, solo adesso!, di avere sempre vissuto dentro una versione de “La cantatrice calva”. Ma anche qui, forse, si sta esagerando con l’interpretazione del cosiddetto critico, meglio rallentare. Anzi forse meglio proprio fermarsi. Ma tra un momento. Eravamo partiti dall’assenza della danza, evidente e innegabile. Anche se alcuni momenti, come le scene di burrasca in barca e soprattutto alcuni movimenti dell’attore Chey Jurado, avevano un tasso di difficoltà tecnica significativo, è vero che non c’è danza in senso più completo. Questo è un elemento che ciascuno giudicherà in base alla propria sensibilità e ai propri desideri. Ma lo spettacolo c’era, e forse è questo il punto davvero fondamentale. Chiudiamo con la lunga scena finale, il monologo tra le due personalità scisse di un attore che non vuole andarsene, non vuole abbandonare la scena, perché è l’unico posto dove si sente di esistere. E questa paura scatena il suo demone, osceno, nudo, minaccioso e disturbante. A questo punto la tensione sale, il pubblico si irrigidisce, anche perché è un altro tour-de-force emotivo che arriva dopo un intero spettacolo di tour-de-force emotivo. È troppo lunga la scena, il demone prende la mano a tutto il pezzo e sembra portarlo via con sé, allontanandolo a tratti da noi. C’era bisogno di una catarsi così didascalica e violenta? La sensazione è che tutto quello che lo spettacolo poteva dire lo avesse già detto comunque, ma, in ogni caso, questa appendice così complessa non ha fatto dimenticare né indebolire tutto ciò che avevamo visto prima. Che è stato Shakespeare, è stato Cechov, è stato Beckett ed è stato Kafka. L’ultimo monologo probabilmente non lo era. Ma la vita, sotto forma di teatro, deve andare avanti.

“S 62° 58′, W 60° 39′” dopo Torino si sposterà il 28 e il 29 ottobre 2023 al Teatro Municipale Valli per Festival Aperto / Fondazione I Teatri – Reggio Emilia. A gennaio poi sarà la volta di Roma. (Leonardo Merlini)

”I miei santi”, esce libro sui santi preferiti da Papa Benedetto XVI

”I miei santi”, esce libro sui santi preferiti da Papa Benedetto XVIRoma, 25 ott. (askanews) – TS Edizioni pubblica, anche in formato e-book, I miei santi. In compagnia dei giganti della fede di papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), a cura di Paola Carelli.

Nell’introduzione leggiamo: “Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo? Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata pochi eletti… La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua”. Con queste semplici constatazioni, espresse in un’udienza generale il 13 aprile 2011, Benedetto XVI ha per sempre demolito il mito di una santità martire, eroica e irraggiungibile, riportandola alla semplice quotidianità delle Beatitudini evangeliche.

Riprende l’introduzione: “Ma rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Isaia 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma”. Appassionato delle vite dei santi, Joseph Ratzinger dedicò molta della sua predicazione a raccontare le vicende umane e spirituali di uomini e donne che misero al centro l’abbandono all’amore di Dio e alla sua Provvidenza. Dai compagni di Gesù a santi dell’epoca moderna, passando per sant’Agostino, così centrale nel pensiero del papa teologo, nel volume sono raccolti i ritratti più indimenticabili di apostoli, martiri, padri della Chiesa, eremiti, fondatori di ordini religiosi, pellegrini… Santi di ieri e di oggi, raccontati dal papa che fece della santità il cardine del suo magistero. “Che cosa è essenziale? – si domanda Joseph Ratzinger -. Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell’Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l’esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni. Mi sembra che questa sia la vera semplicità e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato, che sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della vita cristiana, dell’essere santi”.

Un viaggio nella storia della cristianità attraverso le grandi figure che hanno segnato in profondità la vita della Chiesa e dei credenti.

Presentato restauro del Ninfeo della Pioggia sul Palatino

Presentato restauro del Ninfeo della Pioggia sul PalatinoRoma, 25 ott. (askanews) – Il Ninfeo della Pioggia negli Horti Farnesiani sul Palatino è una delle testimonianze più significative della cultura romana di età tardo rinascimentale e barocca. Collocato nel cuore di quelli che furono tra i giardini aristocratici più celebri d’Europa, il Ninfeo, progettato nelle forme attuali da Girolamo Rainaldi, era uno spazio che, ispirandosi a esempi dell’antica Roma e del primo Rinascimento, veniva utilizzato dai Farnese, soprattutto nella stagione calda, come spazio per la festa e il diletto.

Raccolti discretamente in una grande stanza semi sotterranea decorata con affreschi e sculture antiche, gli ospiti del Ninfeo potevano godere della penombra rinfrescante e del melodioso risuonare della fontana della Pioggia, congegnata in modo da riprodurre lo stillare naturale dell’acqua dal cielo. Chiuso al pubblico da molti decenni per motivi conservativi, il Ninfeo della Pioggia è stato oggetto di un importante progetto di recupero e valorizzazione da parte del Parco archeologico del Colosseo, avviato nel 2020 e conclusosi nel 2023.

Come sottolineato da Alfonsina Russo, direttore del Parco archeologico del Colosseo “Il progetto di restauro ha comportato la risoluzione del complicato problema di infiltrazioni di acqua che interessava le murature del Ninfeo, il consolidamento e il restauro di tutta la struttura. Un lavoro lungo e difficile, per il quale sono stati coinvolte diverse professionalità e che solo grazie alla sinergia di tutti è stato possibile portare a termine”. Nell’ambito del progetto, un particolare impegno è stato dedicato al recupero filologico della Fontana della Pioggia e di tutte le superfici interne decorate ad affresco e stucco, impegno che ha portato a importanti risultati scientifici.

Come racconta Roberta Alteri, responsabile del progetto, “La Fontana della Pioggia è stata restituita al suo aspetto originale, con il suo gioco idraulico di sette vaschette metalliche di diverse misure e le sue decorazioni a finte stalattiti. Il restauro degli affreschi ha consentito il recupero integrale dei testi pittorici ancora conservati, che nuove ricerche di archivio attribuiscono alla mano del Modanino, interessante figura del Barocco ancora poco nota agli studi”. Il Direttore Alfonsina Russo aggiunge “La rilettura integrale degli affreschi permette oggi di comprendere bene quali fosse la funzione originale del Ninfeo e i suoi usi: uno spazio concepito illusoriamente come una pergola in un giardino, animata da musica e canti, poesia e colte conversazioni all’ombra degli antichi e della natura simulata grazie agli artifici dell’architettura.”

Il progetto di restauro è stato preceduto e accompagnato da studi e ricerche, che hanno avuto l’obiettivo di supportare in modo filologico gli interventi conservativi e di ricostruire il più generale contesto storico-culturale del Ninfeo della Pioggia, coi suoi valori culturali materiali e immateriali. I risultati delle ricerche vengono comunicati al pubblico con differenti modalità e tempi. E’ ancora il Direttore Alfonsina Russo a raccontare la volontà di far conoscere a tutti i risultati dei restauri e questo monumento “dimenticato” del barocco romano. “Il Parco archeologico del Colosseo da sempre è attento ai valori della comunicazione, della partecipazione e dell’inclusione. Tutelare per noi significa sempre conoscere e condividere con cittadini, visitatori e studiosi. Restituiamo oggi al pubblico un altro pezzo di storia del Palatino e della città”. “In concomitanza con la riapertura del Ninfeo della Pioggia”, aggiunge Roberta Alteri “il Parco presenta al pubblico “Festa Barocca”, un’originale art-based experience che rievoca l’effimero della vita di corte dell’epoca, attraverso la sinergia delle arti: musica, parole, immagini, suoni. Una produzione originale del Parco, che sperimenta così nuove forme di valorizzazione per patrimonio”. A dicembre 2023 (13-15 dicembre), infine, a consuntivo di questo progetto il Parco organizza un convegno internazionale dedicato ai Ninfei antichi e moderni a Roma e nel Lazio, che vede coinvolti studiosi italiani e stranieri e molte nuove ricerche, e una mostra (Splendori farnesiani, 12 dicembre – 7 aprile) che racconterà al grande pubblico la storia degli Horti Farnesiani dalla particolare prospettiva della cultura immateriale, ricostruendo con opere d’arte e apparatimultimediali le atmosfere della festa, del banchetto e della cultura botanica e zoologica del Seicento.

Libri, esce “Profumo di buono” di Natalia Cattelani

Libri, esce “Profumo di buono” di Natalia CattelaniRoma, 24 ott. (askanews) – Torte e crostate adatte a ogni occasione, perfette per fare colazione al mattino, per essere servite come dessert a una cena tra amici o per festeggiare una ricorrenza importante. Natalia Cattelani torna in libreria con i suoi dolci di casa, alla portata di tutti, creazioni originalissime e di grande effetto una volta in tavola. Ciambelle e ciambelloni, i dolci con le mele e quelli lievitati semplici, quelli al cucchiaio e le crostate, i dolci visti sul web e quelli della festa: oltre ottanta ricette semplici da realizzare per la gioia del nostro palato.

“Profumo di buono” di Natalia Cattelani, edito da Rai Libri, è in vendita nelle librerie e negli store digitali dal 24 ottobre 2023. Natalia Cattelani è nata a Sassuolo, vive a Roma con il marito Roberto, medico cardiologo nutrizionista, e le loro quattro figlie. Ha partecipato a undici edizioni della “Prova del cuoco” e ora è da quattro anni presenza fissa nella nuova trasmissione di Antonella Clerici, “È sempre mezzogiorno”, dove propone settimanalmente i suoi dolci di casa. Natalia è un punto di riferimento online per gli appassionati di cucina con il suo blog www.tempodicottura.it: la sua numerosissima community la segue e interagisce giornalmente con lei anche su Instagram, Facebook e YouTube. Con Rai Libri ha già pubblicato: I dolci di casa, Le torte salate di casa e Dolci per mille occasioni.