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Sgarbi al Maxxi, il presidente Giuli: chiedo scusa ai dipendenti. Via il sessismo dai luoghi della cultura

Sgarbi al Maxxi, il presidente Giuli: chiedo scusa ai dipendenti. Via il sessismo dai luoghi della culturaRoma, 2 lug. (askanews) – “Mi sento di sottoscrivere completamente e convintamente le osservazioni di Sangiuliano: il turpiloquio e il sessismo non possono avere diritto di cittadinanza nel discorso pubblico e in particolare nei luoghi della cultura. Quindi a posteriori non c’è spazio per alcuna considerazione che ricalchi lo schema che abbiamo visto nell’inaugurazione dell’Estate al Maxxi”. Lo ha detto il presidente della Fondazione Maxxi, Alessandro Giuli, in una intervista al Tg1, prendendo le distanze da Vittorio Sgarbi.

“Non ho alcuna difficoltà a dirmi rammaricato e a chiedere scusa anche alle dipendenti e ai dipendenti del Maxxi con i quali fin dall’inizio ho condiviso questo disagio. Quindi sono scuse che il Maxxi fa a se stesso innanzitutto e a tutte le persone che si sono legittimamente sentite offese da una serata che nei presupposti doveva andare su un altro binario”, ha concluso Giuli.

Biennale Teatro, il domani cieco di Romeo Castellucci

Biennale Teatro, il domani cieco di Romeo CastellucciVenezia, 30 giu. (askanews) – Una figura femminile tragica e imponente al centro del Salone d’onore della Misericordia a Venezia. Tiene in mano un lungo ramo che termina con una piccola scarpa. Gli occhi della donna sono bianchi, vuoti. Quando inizia a muoversi, spingendo in avanti il ramo, non c’è certezza nei suoi passi, solo una disperata sensazione di ricerca di qualcosa che non ci è in nessun modo dato sapere. Il pubblico, intorno, osserva e, a poco a poco, viene completamente assorbito dal micromondo dello spettacolo. Siamo alla 51esima Biennale Teatro e quello che stiamo vedendo è la performance “Domani” di Romeo Castellucci, interpretata da Ana Lucia Barbosa. Ma in realtà, dall’inizio dell’azione, siamo altrove, in un luogo che appare anche tempo (forse per colpa delle suggestioni del titolo), siamo nello spazio dell’opera teatrale, che Castellucci da sempre intende come totalità delle arti.

La donna avanza, incerta seppur risoluta, il suo tremito sembra una forma di percezione, che supera l’assenza della vista. Ma è un superamento mutilato, impreciso, drammatico. Il pensiero corre a Saramago, alla sua “Cecità”, romanzo sulla perdita collettiva della vista e sullo sprofondamento in un biancore terrificante, che lascia per le strade gruppi di umani che avanzano tenendosi le mani sulle spalle, come spettri. Intorno ai personaggi dello scrittore portoghese però c’era un mondo, c’era almeno una speranza di senso e di realtà che qui sembra mancare invece. Intorno alla donna, che a un certo punto inizia a singhiozzare e nel mentre si sfila una maschera, solo per rivelare al di sotto esattamente lo stesso volto. I pianti di realtà vanno in pezzi in quel gesto, il teatro prende radicalmente possesso del momento, lo fa completamente suo e la solitudine singhiozzante della donna – ma anche i singhiozzi sono imprecisi, smozzicati – diventa quella di ciascuno degli spettatori. “Domani” è una figura del tempo, notano i critici, e probabilmente hanno ragione. Ma quando la performer, cercando di andare oltre il luogo, comincia a colpire con la scarpa-tronco le pareti del salone, ecco che ogni colpo genera un suono primordiale, un’eco mostruosa e profonda, una sorta di esplosione (il suono è curato da Scott Gibbons) che potrebbe anche essere la voce di qualcuno che semplicemente dice “no”. Non ci sono altri spazi, non c’è via d’uscita. Anche la cecità, che la mitologia ha sempre associato alla preveggenza, qui è diventata inutile. Il domani, se mai davvero lo spettacolo si interrogasse su questo, è del tutto inconoscibile, anzi, ci è precluso nel fragore di quei tuoni sonori.

Non ci sono didascalie, non ci sono spiegazioni. Allora, dalla sala, il pensiero arriva a ricordare la cecità dell’umanità antropocentrica che ha devastato la natura, e che ora tenta mosse disperate, ma destinate solo ad amplificare il rumore che essa stessa aveva creato nella furia dello sviluppo. Non sappiamo se lo spettacolo voglia parlare anche di questo, ma forse non è importante. Forse come accade con le scosse telluriche quello che viene generato dalle onde d’urto emotive è lasciato alla sensazione di ciascuno. Forse i significati non esistono, esistono solo i gesti, lo spazio della performance, il potere segreto e magnetico delle forme d’arte. Queste sì, capaci di andare oltre la disperazione. Poi le assistenti dello spettacolo arrivano e invitano il pubblico a uscire. La performance è finita e con stupore ci si accorge che, fuori, c’è ancora una città chiamata Venezia e che eravamo soltanto a uno spettacolo della Biennale Teatro. Ma dentro di noi qualcosa, probabilmente, è cambiato.

Dentro gli abissi, tra oscurità e famiglia: il teatro di Djokovic

Dentro gli abissi, tra oscurità e famiglia: il teatro di DjokovicVenezia, 30 giu. (askanews) – Gli abissi sono tanti, a volte lontanissimi, a volte dentro di noi. Si sa. Vederli messi in scena, vedergli prendere una forma teatrale però è interessante, smuove, turba, terrorizza, poi magari anche rinfranca. Alla Biennale Teatro di Venezia, le Tese dei Soppalchi all’Arsenale hanno visto la prima mondiale di “En Abyme”, scritto da Tolja Djokovic e diretto da Fabiana Iacozzilli, che sempre qui lo scorso anno era stato presentato come “msie en lecture”. Ora torna come spettacolo vero e proprio, sostenuto da una drammaturgia forte, a volte totalizzante, ma anche da scelte sceniche e scenografiche che affiancano agli attori video di diverso tipo, oltre ad ambienti teatrali, senza però che la parola perda il suo controllo, anche nei momenti in cui non è pronunciata. Forse qui c’è la forza più sotterranea dello spettacolo.

Lo spunto per il racconto portato in scena da cinque attori – Simone Batraco, Oscar De Summa, Francesca Farcomeni, Evelina Rosselli e Aurora Occhiuzzi – è la discesa nell’abisso della Fossa delle Marianne fatto in solitaria dal regista James Cameron, che si è spinto in un luogo così profondo che nessun altro essere umano aveva mai visto. Ma accanto alla storia di questo reale sprofondare nelle acque nere dell’oceano, c’è il parallelo racconto di una bambina/donna, che prima conosciamo da adulta in una piscina – in passaggi che usano il cinema e arrivano a una densità poetica dura e toccante – per poi ritrovare giovanissima, ma già alle prese con la ricerca o l’assenza del padre, di questa figura che un po’ domina tutta la storia, così come i pensieri di altri drammaturghi under 40 visti in questa Biennale. Forse il punto generazionale, il legame alla base delle diverse scritture, è proprio il confronto con le figure dei genitori, magari solo con l’idea, con i bisogni e i dolori, le solitudini e i desideri che ruotano intorno alla più viscerale e complessa delle relazioni. Il batiscafo di Cameron scende sempre più verso il fondo, la donna nuota, poi a un certo punto si immerge, “scompare” dice la voce narrante, per riapparire poi a bordo piscina e piangere e raccontare una storia devastante, di corpi e solitudine. E poi nuotare ancora, come in un racconto di John Cheever, sullo sfondo della vita. Quella vita che la bambina osserva, mentre guarda il film “Titanic”, proprio di Cameron, nella costante attesa del padre, che quando appare si perde – le scene filmate sono decisive, danno una possibilità di pensare ancora meglio allo spazio teatrale, quella del gioco delle tre carte è realmente drammatica – per poi tornare e fermarsi, disperato su una sedia. La bambina, a quel punto, lo può abbracciare, così come si era presa cura anche della donna, lei stessa da adulta, pensiamo in sala, poco prima. “En Abyme” è chiaramente un gioco di specchi che, come dice il testo del catalogo della Biennale Teatro 2023, lavora su “una struttura a effetto Droste”, ossia il rimportare all’interno di una immagine la stessa immagine più piccola, che a sua volta contiene ancora se stessa, potenzialmente all’infinito. E potenzialmente infinita è la discesa abissale, sia quella fisica sia quella psicologica, ma lo spettacolo la gestisce, la convoglia nella parola poetica (nel senso di letteraria, teatrale, come più vi piace), che si rivela più potente e soprattutto più capiente. Così tanto da saper gestire la materia incandescente di cui tratta, così resistente da somigliare a quel pesce che, nonostante la terribile pressione, riesce a vivere nella Fossa delle Marianne fino a 8mila metri di profondità. In pratica sulla cima di un Everest rovesciato in mare.

E come quel pesce anche i personaggi dello spettacolo di Djokovic e Iacozzilli riescono in qualche modo a sopravvivere ai propri abissi, e mentre Cameron, rannicchiato in posizione fetale all’interno del suo batiscafo, vede per la prima volta il fondo più fondo della terra e scopre che c’è vita, nello stesso modo e, verrebbe da dire, nello stesso momento, il padre prende in braccio la bambina e, con lei stretta al collo, si allontana.

Biennale Teatro, specchio del presente e grammatica di speranza

Biennale Teatro, specchio del presente e grammatica di speranzaVenezia, 29 giu. (askanews) – Un momento di trasformazione, di cambiamento, di rimessa in discussione di tutto il nostro modo di vivere e di essere. Un momento che passa da un colore, il verde smeraldo, scelto per descrivere lo spirito della 51esima edizione della Biennale Teatro di Venezia, che dal 15 giugno ha provato a fare un “inventario delle nostre inquietudini”, in vista di qualcosa di nuovo, di una svolta che parte pure dal palcoscenico del contemporaneo. A dirigere anche questa edizione il duo ricci/forte a cui abbiamo chiesto un primo bilancio della manifestazione. “Dopo anni un po’ bui – ha detto ad askanews Gianni Forte – ma per situazioni contingenti che abbiamo affrontato ciascuno di noi all’interno e all’esterno di noi, fortunatamente, da quest’anno, dal 2023, abbiamo ricominciato a vedere la luce sotto ogni aspetto”.

Una luce che passa anche negli occhi degli spettatori, nella sensazione di essere parte di una presenza sulla scena che non è solo autoriale o attoriale, ma va oltre e assume spesso le sembianze di uno specchio, il nostro specchio. “Siamo qui, siamo tutti sotto lo stesso cielo – ha aggiunto Stefano Ricci – e quindi questa condivisione di possibilità, di esperienze sta a raccontare non soltanto la bellezza della differenza, ma anche la presa in atto di una coscienza maggiore. Tutti gli artisti che sono presenti in questo festival hanno grammatiche espressive completamente differenti, vengono da posti del pianeta completamente lontani tra loro, ma tutti quanti sono cuciti e imbastiti a doppio filo con l’esigenza di chiedersi il perché di esserci, il perché di trovare delle possibilità, delle architetture invisibili, come in questo caso uno spettacolo teatrale, che raccontino il tempo che stiamo abitando e probabilmente raccontando il tempo che stiamo abitando raccontarci anche noi a che punto siamo nella nostra storia”. Una storia nella quale questa Biennale Teatro, oltre che la consapevolezza, ha voluto portare anche la meraviglia, l’utopia, la rivoluzione. La forza di sapere di non sapere, e quindi di poter crescere e cambiare. E vivere con una intensità simile a quella che gli spettacoli sanno trasmettere. “C’è uno sguardo trasversale, uno sguardo obliquo – ha concluso Forte – abbiamo prodotto delle crepe, delle fratture e attraverso queste fratture abbiamo la possibilità di mostrare e di offrire al pubblico che esiste un nuovo mondo e di cui andarne orgogliosi e che ci riempie di speranza verde o smeraldo”.

L’approdo è quello, forse: la possibilità di una speranza o, meglio della grammatica di una speranza. Che usa la parola, i corpi e le relazioni che partono dal teatro per ridefinire un modo di stare davanti al mondo.

Foresta come spazio d’arte: Fondazione Cartier torna in Triennale

Foresta come spazio d’arte: Fondazione Cartier torna in TriennaleMilano, 28 giu. (askanews) – Pensare l’arte come qualcosa che va oltre gli esseri umani, che dialoga con gli altri viventi, con la natura, con le diversità anche profonde. La Fondazione Cartier per l’arte contemporanea porta in Triennale a Milano un nuovo progetto che indaga le culture più lontane dall’Occidente: “Siamo foresta” è una mostra che affascina e spiazza, che prova a toglierci alcune certezze per dare spazio ad artisti indigeni, ma pure alle piante, in un processo, anche visuale, di riequilibrio tra l’umanità e il resto del pianeta. Senza avere paura di affrontare terreni nuovi, come ci ha confermato il direttore artistico della fondazione parigina Hervè Chandès. “L’idea – ha detto ad askanews – è proprio quella di andare a scoprire l’ignoto e questo ignoto si raggiunge attraverso la curiosità, la conoscenza, l’estetica, la bellezza e il vissuto degli artisti. Qui abbiamo artisti dell’Amazzonia, del Brasile, del Peru, del Paraguay e altri luoghi lontani, ma la Fondazione Cartier accoglie anche matematici: è un universo molto vario, comprende il cinema, passiamo da persone dell’Amazzonia a David Linch, a Ron Mueck… E tutto questo compone il nostro mondo di diversità, di alterità e io credo anche di grande forza”.

A curare la mostra, che ospita 27 artisti in gran parte sudamericani, è stato chiamato l’antropologo Bruce Albert. “Questa mostra – ci ha detto – si ispira al modo in cui la foresta viene pensata dalle persone che la vivono e che ne sono i guardiani. E questa foresta è una sorta di multiverso di esseri viventi che sono umani e non umani e che convivono in uguaglianza e in costante interdipendenza. Questa foresta è un universo metafisico e non semplicemente una realtà ecologica. C’è un messaggio di parità e di parentela tra gli esseri viventi e quindi è una sorta di viaggio onirico al di là del nostro antropocentrismo”. Il punto è proprio questo, e la sfida è cruciale, non solo per il mondo dell’arte, ma per tutta la società. La sensazione è che Fondazione Cartier e Triennale, ma segnali in questo senso arrivano forti anche dalla Biennale di Venezia, stiano facendo da avanguardia verso riflessioni che non sono più rinviabili e che ci obbligano a rimettere in discussione tutto il nostro sistema di vita e di valori. E qui, nella luce naturale offerta dal Palazzo dell’Arte, le piante ci sono davvero e spingono un po’ più in là anche l’idea di mostra, grazie anche all’allestimento curato da uno degli artisti esposti, il brasiliano Luis Zerbini. “A volte la gente pensa che l’Amazzonia sia una foresta impenetrabile – ha detto – nella quale per muoverti devi tagliare la vegetazione, ma non è così. Siccome gli alberi sono molto alti si vive al di sotto delle foglie ed è come una cattedrale, con i raggi del sole che scendono dall’alto e la nebbia che si alza. È un luogo commovente, che fa pensare alla spiritualità”.

Una spiritualità che deve necessariamente essere nuova, diversa, plurale. Una spiritualità che guarda al nuovo modo in cui possiamo pensare il contemporaneo e la cultura in generale, in un mondo che è drammaticamente cambiato a causa della mano dell’uomo. Prima che sia davvero troppo tardi.

Barcolana 55, per il manifesto illycaffè ha scelto Judy Chicago

Barcolana 55, per il manifesto illycaffè ha scelto Judy ChicagoTrieste, 28 giu. (askanews) – Petali di fiori che diventano vele e rivendicano anche il valore della femminilità. Per la 55esima edizione della Barcolana di Trieste, la più grande regata al mondo che la seconda domenica di ottobre porta nella città giuliana imbarcazioni di ogni tipo, illycaffè ha chiamato a realizzare il manifesto l’artista statunitense Judy Chicago.

“Siamo molto fieri di questa scelta – ha detto ad askanews Cristina Scocchia, amministratore delegato di illycaffè, che ha la direzione artistica per la realizzazione del poster – con un’artista che è un’icona contemporanea e ha dedicato la vita a sostenere l’empowerment femminile. È una decisione che si allinea perfettamente con lo spirito della Barcolana, che da sempre è una regata inclusiva, che accoglie tutti e, come accade nel lavoro di Chicago, include e valorizza le diversità”. “La mia intera carriera è dedicata ad evitare la cancellazione della storia delle donne e alla creazione di arte con un significato – ha detto Judy Chicago -. La mia collaborazione con illy e il Manifesto creato per Barcolana 2023, spero illustri che l’arte può essere un mezzo di trasformazione per il cambiamento sociale e la crescita intellettuale”.

“Siamo incantati di fronte alla bellezza e alla forza del messaggio creato da Judy Chicago per Barcolana – ha commentato il presidente della Società velica di Barcola e Grignano, Mitja Gialuz. “Avere in questo momento storico – e contestualmente al nostro impegno nel programma Women in Sailing realizzato con Generali e sostenuto da WorldSailing – un manifesto come questo è una grande ricchezza e forza”. Da anni il manifesto della Barcolana viene affidato ad artisti protagonisti della scena contemporanea, come capitolo di una relazione ormai trentennale tra illy e gli artisti. “Vogliamo contribuire alla diffusione di un mondo valoriale nel quale crediamo – ha concluso Cristina Scocchia – anche attraverso gesti quotidiani, come bere una tazzina di caffè. Anche in questo senso, per quanto riguarda l’impegno di illy nella cultura, vogliamo rendere inclusiva l’arte contemporanea, nello spirito di continuare a sostenere i valori nei quali crediamo”.

Barcolana è in programma l’8 ottobre 2023 nel Golfo di Trieste, con partenza alle ore 10.30, preceduta da eventi a terra e in mare che iniziano il 29 settembre. Le iscrizioni alla regata sono aperte dal 14 giugno on line.

Una casa-foresta per la pittura, Vivian Suter alla GAMeC Bergamo

Una casa-foresta per la pittura, Vivian Suter alla GAMeC BergamoBergamo, 26 giu. (askanews) – In un certo senso quella che accoglie il visitatore alla GAMeC di Bergamo è una foresta di tele, una grande ricostruzione di un luogo ibrido, tra interno ed esterno, dominato in modo totalizzante dalla pittura di Vivian Suter, artista svizzera, ma nata in Argentina e che ora vive in Guatemala. Il direttore del museo bergamasco, Lorenzo Giusti, che ha curato la mostra “Home” sul lavoro di Suter, ci ha raccontato la relazione tra il luogo dove l’artista vive e lavora e il progetto di installazione-esposizione.

“Una grande antica piantagione di caffè – ci ha detto Giusti – che nel tempo ha lasciato spazio alla foresta e all’interno di questo spazio abbiamo cercato di ricreare la dimensione di quella foresta e di quella casa di Vivian Suter, di quello studio di Vivian Suter all’interno della foresta, sostituendo però alle piante le tele dell’artista che sono tele che nascono tutte en plein air, sono tutte realizzate nello spazio aperto per terra, nel bosco, tra le foglie, tra gli animali, con i cani dell’artista che possono riposare sopra. Tutta questa dimensione di intersezione tra lo spazio esterno, lo spazio interno, tra lo spazio domestico e questa natura attorno alla casa di Vivian si è cercata di riportarla all’interno di questo progetto”. Le tele sono libere, selvagge. La pittura sembra vivere la propria autonomia, anche dalla stessa artista che la realizza. È forse questo l’elemento più interessante, insieme alla storia del fatto che a lungo Vivian Suter ha vissuto ai margini del sistema dell’arte, arrivando al riconoscimento dopo la partecipazione a Documenta 14, nel 2017. “Da lì è partito tutto un percorso di riscoperta del lavoro di questa autrice – ha aggiunto il direttore – che oggi è considerata senza dubbio una delle più importanti pittrici che, diciamo, dagli anni 80 in avanti hanno operato non solo nel contesto europeo, ma assolutamente anche nel contesto internazionale”.

Intimamente legate l’una all’altra, le opere di Vivian Suter portate in GAMeC vogliono anche rappresentare un ecosistema evocativo di esperienze climatiche, sensoriali ed emotive. Oltre che un’ulteriore conferma, se mai ce ne fosse bisogno, della capacità di Lorenzo Giusti e del suo museo di stare dentro il contemporaneo con consapevolezza e visione.

È morto Alberto Garutti: un artista tra soglie, visioni, comunità

È morto Alberto Garutti: un artista tra soglie, visioni, comunitàMilano, 25 giu. (askanews) – “L’arte ha la sua ragion d’essere in questo bisogno di superare limiti, di andare oltre una certa soglia”. Lo aveva detto Alberto Garutti ad askanews qualche anno fa, in una lunga intervista sul senso dell’arte, dell’insegnamento, dello stare davanti al mondo. Garutti, artista decisivo della contemporaneità, in Italia – dove è stato anche professore a Brera con un’aura leggendaria per i risultati poi ottenuti da molti dei suoi studenti, diventati artisti importanti – ma anche sulla scena internazionale, è morto ieri sera a 75 anni. La soglia, come limite, certo, ma anche come spazio di opportunità, è sempre stata al centro del suo lavoro e del suo ragionamento su cosa possa essere oggi l’arte. Che per lui, pur docente di pittura, è sempre stata più una pratica che un oggetto, più una forma che un contenuto. Poi i contenuti arrivavano, pretendo però spesso l’aspetto di opere d’arte pubblica dedicate a delle comunità, quindi, una volta di più, inserite in un conto reale più che museale. Come per esempio il restauro del teatro di Peccioli, nel Pisano, luogo dove i giovani del posto un tempo andavano per innamorarsi – come recitava la bellissima didascalia del lavoro – oppure sotto forma di intervento che modificava leggermente la realtà, come le luci che si accendevano in una piazza di Bergamo in corrispondenza di una nuova nascita, o ancora per la caduta di in fulmine da qualche parte nel mondo, e quest’opera l’abbiamo rivista anche in Triennale. Garutti registrava i fatti, gli forniva una via di manifestazione, quindi interveniva, anche con un senso dell’effimero, che era un’altra delle qualità molto contemporanee del suo lavoro. Con un senso di leggero straniamento che oggi è profondamente amplificato dalla notizia della sua morte.

“Io penso – ci aveva detto anni dopo, in occasione della vittoria di un concorso per la tenuta di Geneagricola a Caorle – che l’artista debba imparare a scendere dal piedistallo un po’ retorico che il sistema dell’arte gli mette sotto i piedi, e debba scendere per mettersi al servizio della città”. Se “pratica” potrebbe essere la prima, o una delle prime, parole per raccontare chi era Alberto Garutti, la seconda potrebbe essere “servizio”, nel senso che tutti i suoi lavori pubblici hanno cercato di portare qualcosa di più alle comunità dove ha lavorato. Il punto, forse, era proprio questo: credere in un’idea e portarla oltre la soglia, che talvolta è sottile, ma per l’artista potrebbe essere infinita, oltre la soglia, si diceva, dello spazio tradizionale dell’arte per arrivare ovunque, e trasmettere qualcosa alle persone che si fermeranno a leggere le sue didascalie, “dispositivi attivatori del lavoro”, come amava ripetere, che contengono anche una delle sue frasi più famose: “Tutti i passi che ho compiuto nella mia vita mi hanno portato qui, ora”. Chiarissima, forse anche vagamente banale, ma perfetta, indiscutibile, eppure sospesa sopra noi e il nostro renderci conto del peso che, muovendoci, a volte ci portiamo dietro. Il peso del tempo, degli spostamenti, dell’imprevedibilità delle cose. Fino ad arrivare lì, in quel preciso momento, ma con tutta la nostra storia dietro. La constatazione dell’imprevedibile ineluttabilità (e profondità) della vita di ogni giorno. Chiudiamo con un’altra immagine, legata al cielo, quel luogo verso il quale – ci diceva Garutti – a volte “desiderava di precipitare vorticosamente, ma verso l’alto”. Il cielo è stato lo sfondo di molte delle sue installazioni, delle sue scritte luminose, e tornava spesso nelle sue didascalie. “Il cielo è una cosa complessa – ci ha detto ancora – è un grande enigma che sta sopra le nostre teste, che ha a che fare con l’arte, ma anche con la leggenda mitologica di Zeus, ha a che fare con il Padreterno per chi ci crede. Però io ho scritto una cosa che tengo molto a ripetere: che l’arte contiene il senso mistico della natura”.

Ecco, forse anche la lezione di Garutti, da docente come da artista, la sua visione in anticipo sui tempi sta proprio in questa tensione verso una sorta di misticismo naturale, in questa volontà di essere ancora parte di un dialogo complesso, ma indispensabile, ancorato al nostro presente, che è rigorosamente il tempo nel quale si colloca il lavoro dei Garutti, né più ne meno. (Leonardo Merlini)

Luca Signorelli torna a Cortona: “Primo pittore del Cinquecento”

Luca Signorelli torna a Cortona: “Primo pittore del Cinquecento”Cortona, 25 giu. (askanews) – Luca Signorelli torna a Cortona, sua città natale, a 500 anni dalla morte. E lo fa con una mostra importante nel MAEC – Museo dell’Accademia etrusca e della città di Cortona, che si allarga poi ad altri luoghi urbani e del territorio, quello nel quale l’artista ha sempre tenuto la propria base, anche se ha poi lavorato molto in Italia e all’estero. Ma rivedere qui i suoi dipinti, così potenti e così calati nella dimensione più importante del Rinascimento, è un’esperienza che unisce l’arte, la storia e anche la vita. A curare la mostra “Signorelli 500. Maestro Luca da Cortona, pittore di luce e poesia” è stato chiamato Tom Henry, dell’Università di Kent. “Per la prima volta in 70 anni abbiamo riportato 28 opere di Signorelli qui al Museo dell’Accademia etrusca. Lì si vede tutta la carriera e come ha sviluppato la sua arte in questa sua città natale, che per lui è sempre anche il luogo della sua bottega”.

La scelta espositiva è altrettanto interessante: due sole sale del museo che restituiscono una grande intensità, quasi un’urgenza della rappresentazione e della narrazione, che nei dipinti è sempre presente, insieme a una consapevolezza pittorica che ha reso Signorelli una figura chiave del suo tempo e della storia dell’arte. Con anche l’occasione per vedere la ricomposizione, per quanto ancora possibile, della Pala di Matelica, che era stata smembrata nel Settecento. “La cosa che emerge con molta chiarezza – ha aggiunto Henry – è il suo colorismo, quanto lui era pittore scultoreo, e poi emerge il suo cervello, in modo in cui lui rilegge le storie per dare una nuova idea ogni singola volta che lui ha qualcosa da dipingere. Questo, e il fatto che Raffaello e Michelangelo hanno guardato bene alla sua arte, ci porta a insistere su Signorelli non come l’ultimo del Quattrocento, ma il primo del Cinquecento, cioè da elencare con Raffaello e Michelangelo e non con Perugino e Ghirlandaio”.

Accanto alla mostra al MAEC, poi, sono stati creati gli “Itinerari di Signorelli”, che portano a scoprire opere dell’artista in altri luoghi della città come il Museo Diocesano, le chiese di San Niccolò e di San Domenico, Santa Maria delle Grazie al Calcinaio e il Palazzone. Ma da Cortona poi è possibile seguire le tracce di maestro Luca anche in altre zone della Toscana e dell’Umbria, dalla Valdichiana, a Pienza, da Siena a Perugia o Orvieto.

Aids, serata Anlaids alle Terme di Diocleziano: “rialzare la guardia”

Aids, serata Anlaids alle Terme di Diocleziano: “rialzare la guardia”Roma, 23 giu. (askanews) – Un contagio da HIV ogni tre ore, l’AIDS è ancora una minaccia per la salute di tutti. Per trovare i fondi volti a sensibilizzare i giovani, ANLAIDS Lazio ha organizzato una serata a Roma in cui sono stati raccolti 200mila euro. Serviranno alle tante iniziative già avviate nella regione (prima fra tutte, quello dedicata alle scuole, una campagna informativa negli istituti di secondo grado) ma anche al progetto “Facciamolo rapido’: la promozione del test salivare rapido che è facilmente accessibile anche presso la sede di Anlaids Lazio, un’iniziativa volta a far emergere il sommerso ma anche superare lo Stigma che purtroppo spesso ancora accompagna la diagnosi dell’infezione. La serata è stata spettacolare, organizzata nella cornice mozzafiato delle terme di Diocleziano.

Presenti personalità del mondo delle istituzioni, della cultura, della moda del lusso dello spettacolo e delle istituzioni ma anche gente comune. Fra gli altri il Presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, l’assessore alla Cultura di Roma Capitale Miguel Gotor, il presidente della commissione Cultuta della Camera Federico Mollicone, il Direttore Generale dei musei italiani Massimo Osanna. E molti grandi nomi dello spettacolo riuniti da Anlaids per dare massima eco a un messaggio chiaro: l’Aids non è scomparso nel nulla ma è lam prevenzione a poterlo e in qualche modo averlo sconfitto. Tanto più dopo il Covid però della malattia e della sua prevenzione se ne parla pochissimo e le nuove generazioni poco o niente oggi ne sanno. Sul palco c’è Emma Marrone (che ha offerto anche un’esibizione live) presentata da Simona Dandini. Ai tavoli siedono fra gli altri Ferzan Ozpetek, Lilli Gruber, Roberto D’Agostino, diversi dei giovani protagonisti delle serie tv “Mare Fuori” e tanti altri. Tutti hanno potuto godere della struttura archeologica- Le grandi aule delle terme- ma anche della mostra evento ‘l’istante e l’eternità’ che da settimane attira folle di visitatori, non solo italiani. La charity dinner dell’ associazione è tornata dopo quattro anni di pausa dovuti alla pandemia da Covid.

“L’HIV è un nemico che può colpire chiunque, indipendentemente dall’età dal sesso e dall’orientamento sessuale”, ha detto Gianluca De Marchi presidente di ANLAIDS Lazio e amministratore delegato di Urban Vision.”Ii dati sono preoccupanti nonostante l’infezione da HIV a livello globale stia vivendo profondi cambiamenti e trasformazioni. L’allarme è tornato alto soprattutto tra le fasce più giovani della popolazione. Purtroppo, al contraio, i dati sulla scarsa conoscenza oggi della malattia e su come la si può prevenire sono allarmanti”.