M.O., storie dell’esilio palestinese, due testimonianze
M.O., storie dell’esilio palestinese, due testimonianzeRoma, 14 nov. (askanews) – La tragedia di Gaza è anche quella dei palestinesi e dei cooperanti che, all’estero, si trovano tagliati fuori da ogni contatto con amici e parenti. L’audiodocumentarista e scrittrice Marzia Coronati ha sentito due di loro, R., un medico ortopedico che ha lasciato Gaza due anni fa e Simone Scotta volontario che lavora in Cisgiordania.
R è un medico ortopedico, è andato via da Gaza due anni e mezzo fa, in cerca di un posto più sicuro e sereno dove potere vivere, l’obiettivo è aprire la strada anche ai suoi quattro figli e la moglie e portarli al di là del mare e del conflitto. In un umido pomeriggio romano di inizio novembre parliamo di fronte a una tazzina di caffè. Le comunicazioni sono tagliate e R non sa nulla della sua famiglia da due settimane. Fuma e guarda dritto davanti. Non se ne fa una ragione, è qui da quasi tre anni e ancora non è riuscito a fare trasferire la famiglia, manca sempre un dannato pezzo di carta e ora la guerra sta demolendo tutto. La sua casa, quello lo ha saputo, non c’è più, il sogno di una vita senza minacce, in una democrazia, per quel che il sostantivo può volere dire, anche questo, sotto le macerie. Ha parenti fuori i confini Gaza che possono aiutare la famiglia? Amici? Sostegno? Sì, ce li ha, ma la situazione non è migliore nel resto della Palestina, e poi da Gaza ora non esce nessuno. Telefono a Simone Scotta, un coetaneo conosciuto in Libano, vive a Gerusalemme da un paio d’anni. Simone coordina cinque squadre di volontari per lo più palestinesi che lavorano in altrettante regioni della Cisgiordania: in due territori vicino a Hebron, a Gerusalemme, a Betlemme e nella Valle del Giordano. Il progetto è del Consiglio ecumenico delle chiese e l’obiettivo è l’accompagnamento delle persone civili palestinesi: una scorta umanitaria nei quotidiani spostamenti dei giovani e meno giovani, per evitare ferimenti o violenze nella strada per andare a scuola o per tornare a casa. Sono servizi di volontariato che esistono da anni, perché doverosi e essenziali.
Chiamo e scopro che Simone è in Italia, lui e sua moglie sono stati evacuati una settimana dopo l’inizio della guerra. Quel 7 ottobre era a Gerusalemme, a casa, faceva colazione con la moglie quando ha sentito una sirena suonare “come quando ci sono razzi che arrivano, e probabilmente stavano arrivando… erano le otto e non sapevamo cosa stava succedendo, non avevamo ancora aperto le notizie… l’intervento di Hamas era del tutto inaspettato”. A differenza di R, Simone riesce ad avere contatti regolari con i suoi amici e colleghi in Cisgiordania. “La situazione è abbastanza pessima: centocinquanta scuole sono chiuse: ci sono i soldati israeliani che bloccano l’ingresso e gli studenti non possono accedere. A Hebron, dove ci sono ottocento coloni e centosessantamila cittadini palestinesi che abitano in città, c’è un coprifuoco, le persone dopo le venti devono rimanere a casa, se qualcuno prova a uscire viene subito arrestato. Via whatsapp Simone condivide una mappa: ci sono nove pallini viola, nove villaggi scomparsi in queste settimane, dissolti nel nulla, nove comunità che a causa di violenze e minacce hanno lasciato in modo definitivo le loro abitazioni, case di famiglia da decenni.
“Molti miei colleghi mi dicono che non è possibile per loro andare in ufficio, sanno che sulla strada potrebbero incontrare con molta probabilità delle dogane informali, check-point in cui vengono attuate perquisizioni fisiche violente, che terminano con ore di trattenimento in questura. Nei mesi scorsi ho ricevuto un bollettino redatto da Simone e i suoi colleghi:
1 giugno 2022, Khirbet Al Fakheit. Quattro strutture residenziali, che ospitavano 19 persone, sono state demolite Questa è stata la terza demolizione avvenuta nella comunità nel 2022