Milano, 23 mar. (askanews) – Nel 2022 l’Italia si è confermata primo produttore al mondo di pasta con 3,5 milioni di tonnellate, davanti a Usa e Turchia. Di queste il 61% è destinato all’estero. Infatti sono salite a quasi 2,4 milioni le tonnellate che hanno varcato i confini nazionali, con una crescita del 5,2% sul 2021. Parliamo di 3,7 miliardi di euro a valore, un +31% sul 2021 che riflette i rincari legati alle materie prime e all’energia. E’ quanto emerge da un’elaborazione di Unione italiana Food su dati Istat.
L’export nei Pesi Ue occupa il 65,2% del totale mentre il restante 37,8% riguarda i Paesi non Ue, America, Asia, Africa, Oceania. In valori assoluti, Germania (440.044 tonnellate), Regno Unito (296.578 tonnellate), Francia (267.685 tonnellate), USA (259.470) e Giappone (67.126) sono i mercati più strategici per l’export di pasta italiana. Ma la voglia di spaghetti&co prodotti nel Belpaese registra crescite intorno o superiori al 20% in Canada, Polonia, Malta, Libia e Kenya, superiori al 50% verso Arabia Saudita e Tunisia, e addirittura superiori al 100% per Repubblica di Moldavia, Indonesia, Iraq, Costa d’Avorio e Birmania. Discorso a parte per la Russia, Paese importatore che a seguito del conflitto ha visto contrarsi le quantità del 41,4% dalle 20.955 tonnellate del 2021 alle 12.287 dello scorso anno. A valore si tratta di una contrazione che sfiora il 28% dai 26,3 milioni del 2021 ai 19 del 2022.
In vent’anni sono quasi raddoppiati (54 oggi contro i 30 di allora) i Paesi dove si consuma più di un chilo di pasta pro capite di pasta all’anno. In questa classifica però l’Italia è ben avanti: noi consumiamo una media di 23 chilogrammi di pasta l’anno a testa, contro i 17 della Tunisia, che ci rincorre. Seguono Venezuela (15 kg), Grecia (12,2 kg), Perù (9,9 kg) Cile (9,6 kg), Stati Uniti (8,8 kg), Turchia (8,7 kg), Iran (8,5 kg), Francia (8,3 kg) e Germania (7,9 kg). “Oggi oltre il 60% dei pacchi di pasta prodotti in Italia viene esportato, contro il 48% nel 2000 e il 5% nel 1955 – afferma Riccardo Felicetti, presidente dei Pastai italiani di Unione italiana food – Se la pasta italiana gode all’estero di tanto successo e ha un percepito estremamente positivo è merito del saper fare centenario dei pastai italiani. Protagonista di infinite ricette antispreco e del giorno dopo, la pasta si conferma un alimento sostenibile, versatile, nutrizionalmente bilanciato e accessibile”.
Milano, 22 mar. (askanews) – “La cedrata Tassoni è stata un sogno per lungo tempo. La prima volta che visitai l’azienda era il 2007 e fui subito affascinato da questi alambicchi, da questo meraviglioso stabilimento nel cuore di Salò, un paesino bellissimo sulle rive del Lago di Garda. Ma allora non erano maturi i tempi. Poi, quando nel 2020 si è ripresentata l’occasione, come famiglia e come team eravamo convinti che fosse una realtà perfetta per noi e non abbiamo avuto dubbi”. La storia della Tassoni e del gruppo Lunelli inizia nel 2021, con l’acquisizione, dopo un lungo corteggiamento da parte dell’amministratore delegato del gruppo di famiglia, Matteo Lunelli, che in questa azienda con 230 anni di storia sulle spalle ha intravisto non solo una perla dell’imprenditoria italiana ma anche potenzialità e opportunità di crescita, soprattutto all’estero. L’ambizione è quella di fare di Tassoni “il marchio del luxury soft drink italiano – racconta Lunelli – sinonimo di bibite italiane di eccellenza non solo nel nostro Paese ma nel mondo”.
“Questo è un marchio perfetto per il gruppo Lunelli che vuole raccontare l’eccellenza del bere italiano – spiegava qualche tempo fa – e Tassoni può essere il marchio di bibite italiane di eccellenza di riferimento. La cedrata è il cuore di tutta la tradizione di questa azienda, ma accanto alla cedrata ci sono etichette nuove come la tonica, il chinotto che hanno la possibilità di proporsi in Italia e nel mondo come bibite di eccellenza”. La storia di questa azienda, intimamente legata al territorio in cui è nata, le rive del Lago di Garda, risale al 1793: in quell’anno la spezieria nata a metà del 700 viene riconosciuta farmacia e inizia la prima distillazione degli agrumi che all’epoca venivano coltivati nelle campagne intorno al lago. Sarà solo alla fine dell’800 che la produzione assumerà una dimensione industriale, con la separazione della farmacia dalla distilleria e la nascita dell’acqua di tutto cedro. Negli anni ’20 del secolo scorso arriva la prima cedrata Tassoni, uno sciroppo da bere diluito in acqua. Trent’anni dopo, è il 1956, il passaggio dallo sciroppo alla bibita, con la cedrata “già pronta nella sua dose ideale”, una bottiglietta di vetro da 180 millilitri che sarà capace di cavalcare il boom dei consumi di bevande gasate.
Ma dietro questa bibita, che ha conquistato un posto nell’immaginario collettivo anche grazie alla sua storia comunicativa, dalle affissioni ai Carosello coi jingle di Mina, c’è una tradizione secolare che dalla metà dell’800 appartiene anche alle campagne del Sud del Paese. E’ da lì che arrivano ancora oggi i cedri, con un viaggio che inizia esattamente a Santa Maria del Cedro, in Calabria, dove la varietà Diamante di questo agrume, a poche ore dalla raccolta, viene inviata per la lavorazione nello stabilimento di Salò. Qui in un alambicco in rame del 1939 avviene la distillazione dell’aroma idroalcolico, dopo un periodo di infusione della scorza dei cedri raccolti ancora acerbi. A questo punto l’essenza è pronta per la miscelazione seguendo alla lettera una ricetta segreta “custodita gelosamente in cassaforte – ricordava Matteo Lunelli – che la precedente proprietà ci ha consegnato nel momento dell’acquisizione. E’ una ricetta che anche in azienda conoscono solo le due persone che devono applicarla e che rappresenta l’unicità tramandata nei secoli”. E se fin qui c’è la storia e il presente di questa bevanda iconica del made in Italy, nel futuro “c’è una crescita che deve essere costruita sulle solide basi di questa azienda”. A partire dalla sede storica: “Le rive del lago di Garda sono dove la Tassoni è nata, qui è la Tassoni e qui rimarrà – assicurava Lunelli – perchè l’eccellenza del made in Italy è sempre legata a tradizioni territoriali e noi vorremmo che la cedrata Tassoni servita nel mondo porti anche il sapore di queste rive del lago di Garda”. I piani di sviluppo guardano molto all’estero dove “ha enormi opportunità e vogliamo farla diventare ambasciatrice del made in Italy anche attraverso l’ampliamento della gamma”, costruendo la forza della marca nell’horeca. Lo spazio per crescere del resto c’è, non solo sul mercato: lo stabilimento, dove nascono circa 22 milioni di bottiglie l’anno di cui il 90% resta in Italia, oggi ha una capacità produttiva inespressa e se fosse necessario potrebbe essere ampliato ulteriormente. Per cogliere le opportunità intraviste da Matteo Lunelli, che potranno scrivere il futuro di questa azienda con 230 anni di storia sulle spalle.
Milano, 22 mar. (askanews) – Le comprano otto milioni di famiglie italiane. Solo nel 2022 ne sono state vendute oltre 48 milioni di confezioni. Le Gocciole Pavesi, del gruppo Barilla, spengono quest’anno 25 candeline. Nella realtà nascono nel 1987 all’interno della linea di frollini “Amici del mattino”, ma le iconiche gocce di frolla arricchite con pepite di cioccolato divengono brand autonomo nel 1998. Ed è da lì che si iniziano a contare i 25 anni di questo frollino che non si sbaglia a definirlo il più amato d’Italia visto che solo nell’ultimo anno ha fatturato 110 milioni di euro.
Prodotte negli stabilimenti del gruppo Barilla di Castiglione delle Stiviere, Melfi e Novara, le Gocciole negli anni hanno ampliato la propria gamma, declinate in più gusti e combinazioni. Ma accanto a queste varianti che negli anni hanno arricchito il brand, dal giugno 2022 sono diventate anche un gelato. Grazie alla partnership tra Algida e Barilla infatti si sono trasformate in un sandwich ripieno di gelato alla vaniglia con pezzetti di cioccolato, fedele nella forma all’iconica goccia del frollino. Le Gocciole, però, non si sono fatte spazio solo sulla tavola della colazione degli italiani ma anche nell’immaginario collettivo attraverso momorabili pubblicità televisive: è il 1998 quando una mamma alle prese con la famiglia assonnata riesce far partire la giornata con le gocce di frolla; 13 anni dopo è la “giungla” quotidiana la protagonista dello spot che resterà a lungo il tema delle Gocciole; arriverà poi il turno di una suocera “dirompente” fino al 2022 quando, in una giungla più moderna e “accessoriata”, compaiono i nuovi Tarzan e Jane, interpretati dagli attori Lillo e Chiara Francini.
Ora, in occasione di questo compleanno, questi biscotti Pavesi tornano a raccontarsi con la campagna “Svolta con Gocciole”: la grafica totalmente capovolta sul pack (in edizione limitata) racconta gli imprevisti e le imprese quotidiani, nella “giungla” della vita, ma anche la loro improvvisa soluzione in positivo.
Milano, 22 mar. (askanews) – Accanto ai wafer e agli altri prodotti da pasticceria, punto di forza dell’azienda, Loacker è entrata in punta di piedi anche nel mercato dei prodotti benessere. Non una vera e propria linea salutista ma una gamma di dolci che strizza l’occhio a chi è attento a un’alimentazione equilibrata. “Vogliamo ampliare gli attributi del nostro brand e creare prodotti per uno stile di vita più attento e consapevole” ha detto Roberto De Lucca, head of marketing Italy di Loacker raccontando delle novità della linea “bontà e benessere”, Loacker multicereali e -30% di zuccheri, lanciate per prime sul mercato italiano già a settembre 2022. “Non siamo un marchio salutistico – ha sottolineato – ma vogliamo contribuire al benessere dei nostri consumatori”.
L’occasione è stata l’annuncio del premio premio “prodotto dell’anno 2023” ricevuto dall’azienda di Auna di Sotto nella categoria wafer e biscotti per due nuove linee prodotto, la peanut butter e i biscuits, entrambe focalizzate sul segmento indulgence, nel primo caso scommettendo su burro d’arachidi che è in forte crescita e nel secondo puntando a conquistare una fetta di mercato, quello dei biscotti, che in Italia negli ultimi anni si è contraddistinto per una crescente concorrenza. “Con la pandemia il mercato indulgence è cresciuto molto – ha spiegato De Lucca – sul mercato dei biscotti, dove ci sono vari player, noi abbiamo una quota molto piccola. Ci inseriamo nel segmento premium e ci rivolgiamo alle famiglie con un reddito medio-alto, nuclei numerosi nell’area del Nord Italia”. Il 2022 per questa azienda, da tre generazioni guidata sempre dalla stessa famiglia, ha visto il fatturato globale crescere a 418 milioni, (+12% rispetto al 2021) grazie a mercati come il Medio Oriente, prima tra tutti l’Arabia Saudita, e gli Stati Uniti. L’Italia resta il primo mercato nonostante una leggera contrazione a volume del fatturato per via della riduzione del potere di acquisto delle famiglie e del parallelo sviluppo del canale discount e della marca del distributore. “Il nostro focus – ha ribadito il responsabile del marketing – è far crescere i nostri prodotti eroi, come wafer e tortine ma non puntiamo solo ad aumentare il fatturato ma anche a far crescere gli attributi della nostra marca”. Attributi che includono l’impegno per la sostenibilità ambientale e sociale, oltre che economica, a partire dall’approvvigionamento delle materie prime, nocciole, cacao, latte e vaniglia Bourbon del Madagascar, ma anche la neutralità climatica e i packaging green.
L’apertura al segmento benessere verrà raccontata attraverso una campagna di comunicazione ispirata al claim “La tua scelta buona”, (già lanciata a febbraio per altre linee di prodotto) che partirà a settembre e che per la prima volta è ambientata in un contesto urbano e non più tra le caratteristiche montagne del brand. Con le architetture di New York sullo sfondo, la campagna riprende i concetti di sano (“qualsiasi cosa significhi per te”) ma anche di impegno, rispetto e inclusione, senza dimenticare le montagne “che appaiono comunque all’inizio dello spot, e insieme al rosso sono i nostri simboli nel mondo”.
Milano, 21 mar. (askanews) – Il gruppo Gambero Rosso ha chiuso il 2022 con ricavi netti di vendita a 17,33 milioni di euro con un incremento di 4,56 milioni rispetto al 2021 (+36%) e un Ebitda di 5,29 milioni di euro, in miglioramento di 1,66 milioni rispetto al 2021 (+46%). Questi dati risultano al di sopra dei livelli raggiunti nel 2019, rispettivamente del +10% (ricavi netti) e del +10% (Ebitda). L’utile di gruppo è stato pari a circa 1,6 milioni di euro dai 6 mila del 2021. E’ quanto riporta in una nota il gruppo che opera nel settore del wine, travel, food italiani.
La crescita dei ricavi è stata trainata principalmente dal settore della promozione internazionale e organizzazione di eventi in cui i ricavi sono cresciuti del 135%, grazie alla ripresa delle manifestazioni in presenza; dal settore delle partnership dove i ricavi sono cresciuti del 30%; dal settore Tvv& Digital che ha visto una crescita dei ricavi del 3%. Il settore dei contenuti e della formazione invece ha chiuso sostanzialmente in linea con l’esercizio precedente. L’Ebit consolidato ammonta a 2,649 milioni di euro (751 mila euro nel 2021) e recepisce l’effetto degli ammortamenti degli investimenti sostenuti nel periodo. La capogruppo ha chiuso l’esercizio con un risultato netto pari a 1,158 millioni euro rispetto ad una perdita del 2021 di 381 mila euro.
Per il 2023, nonostante il contesto di mercato ancora sfidante, grazie ai risultati positivi raggiunti nel 2022, il gruppo si attende un prosieguo del trend positivo trainato principalmente dalle attività internazionali e dal continuo sviluppo delle iniziative commerciali.
Roma, 21 mar. (askanews) – “Noi siamo fortemente contrari al Nutriscore e abbiamo proposto il Nutrinform Battery. Ma c’è un piccolo vulnus in tutto questo: mentre in altri Paesi, che ci piaccia o no, il nutriscore lo stanno utilizzando, noi in Italia del Nutrinform ne abbiamo parlato, l’abbiamo presentato ma non lo utilizziamo. Penso che la sfida anche da parte dell’industria agroalimentare, se vogliamo creare un sistema alternativo ed essere credibili, nel contesto europeo, sia proprio quello di iniziare ad applicarlo e creare una comunicazione-informazione per i cittadini-consumatori”. Lo ha detto ad askanews il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, a margine dell’evento a Roma promosso da Fondazione Istituto Danone in occasione della sua ultima pubblicazione dal titolo “Transizione proteica: varietà nelle scelte alimentari per la salute umana e del pianeta”, a proposito della normativa europea sulle etichette fronte pacco.
“Mi auguro che l’Italia non si accontenti del fatto che in questo momento la decisione sia stata accantonata. Noi dobbiamo continuare a lavorare per sensibilizzare gli altri Stati membri nel far capire che il sistema pensato oggi a livello europeo sia assolutamente fuorviante e ingannnevole nei confronti dei consumatori e dei cittadini stessi. Ciò che l’Italia ha pensato e studiato può essere invece una grande soluzione in termini di attenzione e anche di qualità di vita e di stili di vita, ovvero il Nutrinform Battery” ha detto, ragionando sul fatto che la decisione che doveva essere presa a fine 2022 dalla Commissione è stata rinviata probabilmente a fine anno. Un rinvio letto da molto come una elemento a favore dell’Italia, che nel frattempo avrebbe dovuto approfittare per far conoscere e affermare il più possibile l’etichetta del Nutrinform battery. “Dobbiamo realizzare una possibilità concreta sul fatto che questo sistema inizi a essere utilizzato almeno nel nostro Paese – ha ribadito Prandini – Diversamente rischiamo di essere poco credibili agli occhi degli altri Stati membri e delle istituzioni europee”. Allargando il ragionamento ai nostri rapporti con l’Europa, anche alla luce dei diversi dossier aperti a Bruxelles che riguardano il comparto agroalimentare, il numero uno di Coldiretti ha detto: “Noi possiamo limitarci a criticare l’Europa e le sue istituzioni. Ma penso che per ciò che l’Italia rappresenta in termini di importanza e come Stato membro a livello europeo, va cambiato l’approccio, uscendo da una demonizzazione che è stata fatta nei confronti delle Pubbliche amministrazioni: Se noi non investiamo in classe dirigenti, noi conteremo sempre meno, anche nel contesto europeo”.
Milano, 21 mar. (askanews) – Il Parmigiano Reggiano Dop ha chiuso il 2022 con un giro d’affari al consumo che ha toccato i 2,9 miliardi di euro, un massimo storico, contro i 2,7 miliardi del 2021, con un aumento del 6,9%, a volume invece la crescita è stata pari al 2,6% con 156.620 tonnellate contro le 152.690 del 2021. A tracciare il quadro per il 2022 il Consorzio di tutela della Dop che a Milano ha illustrato i risultati positivi raggiunti nonostante un contesto di mercato in cui i consumi alimentari sono scesi del 4,2% e quelli di formaggi del 3% a volume. E fornito una anticipazione sui primi due mesi del 2023 in Italia, quando la crescita a volume nella Gda è stata del 15,1% e a valore del 18,4%.
“Nel 2022 la filira del Parmigiano Reggiano Dop ha dimostrato una grande maturità – ha detto il presidente del Consorzio, Nicola Bertinelli – coi costi dei mangimi che sono esplosi, i tassi elevati il prezzo al consumatore è aumentato solo del 4-5%. A sopportare i costi quindi sono stati i produttori, per questo auspico che 2023 e 2024 non siano come il 2022. Quest’anno sarebbe stato un grande errore fermare il processo, iniziato prima del Covid, di proporre un prezzo equo per i consumatori”. Nei mercati, la quotazione del Parmigiano Reggiano ha registrato nel 2022 una media annua di 10,65 euro al chilo (Parmigiano Reggiano 12 mesi da caseificio produttore), in aumento rispetto al 2021, quando si era attestata a 10,34 euro al chilo. La produzione è in lieve calo rispetto al 2021, anno nella storia in cui si sono prodotte più forme in assoluto, 4,002 milioni di forme contro 4,091 milioni (-2,2%). “Nel 2022 la produzione di formaggio è stata lievemente in contrazione – ha spiegato il direttore marketing, Carlo Mangini – e questo ci ha un po’ rasserenati dopo anni di incremento medio del 4-5%: il problema della Dop è valorizzare la produzione perchè per venderlo non c’è dubbio che lo vendi”.
Se si guarda ai mercati internazionali, anche qui i volumi sono cresciuti del 3% (64.202 tonnellate vs 62.351) mentre il valore generato alla produzione è salito a 1,8 miliardi di euro contro gli 1,71 miliardi del 2021. A livello di consumi, si allarga la fetta export che è salita di due punti percentuali rispetto al 2021, toccando il 47%. “Dal 2017 al 2022 il numero di forme collocate è aumentato di 60mila unità un aumento che racconta la resilienza del sistema Parmigiano Reggiano Dop – ha detto Mangini – pensiamo che entro due anni supereremo il 50% di quota di export perchè i mercati internazionali sono lo sbocco naturale con Paesi che cresceranno anche a doppia cifra”. Proprio sul fronte dei mercati internazionali, il direttore Mangini ha espresso qualche insoddisfazione, a fronte di un mercato italiano che ha dato soddisfazioni. “L’Italia è andata bene e sta andando molto bene. C’è stato un buon risultato nel terzo trimestre del 2022 che ha portato a un miglioramento della quota. Non siamo invece soddisfatti dello sviluppo di alcuni mercati internazionali”.
Nel 2022 ci sono stati mercati cresciuti anche a doppia cifra in Europa come la Spagna (+11,3% con 1.602 tonnellate vs 1.439 nel 2021), la Grecia (+31,4% con 1.382 tonnellate) e la stessa Francia (+7,2% con 12.944 tonnellate vs 12.077 tonnellate) o fuori dall’Europa con il Giappone, che cresce del +38,8% (1.010 tonnellate vs 728) e l’Australia, che segna un +22,7% (713 tonnellate vs 581). Buone performance anche in Canada, con un +6,3% (3.556 tonnellate vs 3.345 e negli Stati Uniti, primo mercato estero per la Dop salito dell’8,7% con 13.981 tonnellate vs 12.867). Ma c’è un mercato come la Germania che ha perso il 13,8% con 1.477 tonnellate in meno pari a 37.000 forme. “In Germania ha pesato l’effetto inflativo – ha spiegato Mangini – lì l’inflazione è il grande nemico che ha avuto un enorme impatto sulla spesa di beni alimentari. Noi però pensiamo sia una reazione impulsiva, una congiuntura. Quello è un mercato su cui dobbiamo insistere perchè quelle 1.500 tonnellate vanno recuperate subito”. Per quanto riguarda i canali distributivi, la GDA rimane il primo (62,3%), seguita dall’industria (17,5%), che beneficia della crescente popolarità dei prodotti caratterizzati dalla presenza di Parmigiano Reggiano tra gli ingredienti, e dalle vendite dirette dei caseifici, che registrano un forte aumento (+5,3%). A proposito delle vendite dirette, che oggi rappresentano il 15%, Mangini ha spiegato che da lì si aspettano una crescita nel medio-lungo periodo: “Fosse per me il percorso per arrivare al 20% di vendite dirette potrebbe essere accelerato – ha detto – L’arco temporale a cui fare riferimento per arrivare al 20% è inevitabilmente nel lungo termine, sarei felice se si potesse conseguire in 5-7 anni”. E questo perchè per raggiungere quell’obiettivo occorre “generare competenze all’interno delle nostre aziende, perchè servono capacità commerciali, finanziarie, percorsi virtuosi che devono essere generati da risorse dedicate. Quest’anno abbiamo previsto investimenti per inserire competenze commerciali, avere temporary manager, export manager, sui quali contribuiamo fino al 50% dell’investimento dei nostri soci per renderli più autonomi nella diversificazione del rischio”. Sul fronte dei canali distributivi, il canale Horeca rimane il fanalino di coda, attestandosi al 9,2% del totale.
Per il 2023 il Consorzio ha stanziato 18,6 milioni di euro per lo sviluppo dei mercati, puntando a diventare sempre più un brand globale, pronto ad affrontare sfide come quella dell’italian sounding. “Il Consorzio deve assumersi sempre più la responsabilità di diventare la cabina di regia dell’intera filiera, lavorando con gli operatori e le catene distributive per sostenere i consumi nel corso di un anno in cui viene commercializzato il picco di produzione più alto nella storia della Dop, quello del 2021, con un piano articolato di investimenti in comunicazione e sviluppo domanda sia in Italia, sia soprattutto sui mercati esteri – ha concluso il presidente del Consorzio – Dobbiamo continuare a mantenere il Parmigiano Reggiano a un prezzo concorrenziale, in modo che sia accessibile alle famiglie, e a difendere la redditività delle aziende, che hanno già subito l’aumento dei costi di produzione”.
Roma, 21 mar. (askanews) – “Se noi avessimo la possibilità di siglare accordi di questo tipo con tutti i soggetti che hanno nella trasformazione dei prodotti agroalimentare in termini di ristorazione la stessa attenzione che McDonald’s ha avuto insieme a noi costruendo accordi di filiera, sicuramente potremmo dare una risposta significativa al lavoro dei nostri agricoltori. Quindi io continuerò a creare quei momenti di confronto e di opportunità per le nostre imprese”. A dirlo ad askanews il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini, intervenendo nella polemica scoppiata con Slow Food a proposito della collaborazione di McDonald’s con Coldiretti stessa. A oggi McDonald’s ha l’85% dei fornitori italiani, acquista ogni anno 140 mila tonnellate di prodotti provenienti da tutta la penisola e ha inserito 18 ingredienti Dop e Igp.
Prandini parlando a margine dell’evento a Roma promosso da Fondazione Istituto Danone in occasione della sua ultima pubblicazione dal titolo “Transizione proteica: varietà nelle scelte alimentari per la salute umana e del pianeta”, ha detto: “Tutto quello che possiamo fare per valorizzare le nostre Dop e Igp, i nostri prodotti legati alla biodiversità italiana è di fondamentale importanza poterlo realizzare con quei soggetti che insieme a noi vogliono scommettere. Noi siamo passati da un utilizzo, qualche anno fa, del prodotto italiano nei punti vendita di McDonald’s che non superava il 30% a più dell’86% di prodotto italiano. Per me è un grande risultato”. “Continuo a ringraziare coloro che hanno scommesso insieme a noi – ha aggiunto – Anche perché abbiamo portato oggi un valore complessivo in termini di investimento e di acquisto di prodotti agroalimentare a superare i 360 milioni e dagli obiettivi che ci siamo posti il prossimo anno supereremo i 430 milioni di euro, con un dato in continua crescita”.
Milano, 21 mar. (askanews) – “Se la frase fosse McDonald’s rappresenta il made in Italy? Per me è no, se invece fosse: può dare una mano al made in Italy? Per me è sì”. Il presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano Dop, Nicola Bertinelli, interviene nella polemica nata tra Coldiretti e Slow Food a proposito del ruolo di McDonald’s nell’utilizzo di prodotti Dop e Igp nei propri menù. Il Parmigiano Reggiano Dop è, infatti, uno dei 18 ingredienti Dop e Igp, che la grande catena di fast food ha inserito in assortimento a partire dal 2008. “Se le cose vengono fatte in modo serio per intercettare determinate fasce di consumatori e insegnare anche loro a mangiare meglio e a venire a visitare i luoghi in cui vengono fatti per me è una grande opportunità – è il ragionamento fatto da Bertinelli in occasione della presentazione dei risultati 2022 – Se devo rispondere alla domanda Slow food rappresenta italianità? Assolutamente sì, Mcdonald’s no ma può dare assolutamente una mano a diffondere il cibo italiano”.
L’obiettivo, dunque, della collaborazione da parte del Consorzio “dovrebbe essere quello di utilizzare quel canale per intercettare dei giovani che lo utilizzano – ha sottolineato il presidente – Il punto è che questa non deve essere un’operazione di green washing, cioè McDonald’s non è che si deve ‘lavare’ utilizzando politiche non vere. Dovrebbe essere uno strumento attraverso il quale determinati prodotti vengono assaggiati per la prima volta da determinate fasce di consumatori e deve essere un momento di forte ingaggio e comunicazione”. Nel merito è intervenuto anche il direttore marketing del Consorzio, Carlo Mangini, il quale ha precisato: “Conosco bene Slow Food che sosteniamo anche perchè siamo uno dei loro partner ma io farei un passo avanti rispetto all’ideologia perchè se noi siamo invitati da McDonald’s a innovare la loro componente di ricettazione per introdurre valori siamo a bordo”. Mangini si spinge anche oltre: “I professionisti e le professionalità che fanno aumentare i consumi dei prodotti Dop e Igp in Italia ben vengano, mi piacerebbe che fosse mondiale l’accordo di McDonald’s cioè che non solo in Italia ma anche in Usa assumesse certe dimensioni. Siamo a fianco di progettualità virtuose come queste e ci assumiamo la reponsabilità di affiancarle con la corretta lettura dei progetti”. Se poi si passa su un piano più personale il giudizio cambia: “Io personalmente ho imposto ai miei figli di andare a mangiare da McDonald’s massimo una volta ogni due mesi, ma è una scelta personale. Se però McDonald’s per rispondere a una domanda latente di mangiare meglio introduce le insalate, prodotti più nobili, ben venga, poi ognuno fa la sua scelta”.