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Patto anti-inflazione: domani dichiarazione intenti ma senza industria

Patto anti-inflazione: domani dichiarazione intenti ma senza industriaMilano, 3 ago. (askanews) – Si va verso una dichiarazione congiunta con il mondo della grande distribuzione e del commercio e senza l’industria della trasformazione alimentare per il protocollo anti-inflazione promosso dal governo attraverso il Mimit. Domattina alle 9.30 è fissata una videocall per la firma della dichiarazione di intenti che dovrebbe portare entro il 10 settembre alla firma dell’accordo. Finalità di questo accordo è quella di arrivare a un trimestre di prezzi calmierati (dal primo ottobre al 31 dicembre) per una selezione di prodotti alimentari e di prima necessità.

Fin da subito il nodo al tavolo convocato al Mimit era stato quello della produzione, nodo che incontro dopo incontro è diventato insolubile fino alla rottura di oggi con Centromarca e Ibc (l’associazione delle industrie beni di consumo) che hanno giudicato il protocollo “non praticabile”. A lasciare intendere fin dall’inizio della giornata gli umori al tavolo, tornatosi a riunire oggi, è stata Federdistribuzione che ha parlato di “argomentazioni pretestuose e strumentali” da parte dell’industria dichiaratasi “indisponibile a sottoscrivere l’accordo”. Dal canto Federdistribuzione, attraverso il presidente, Carlo Alberto Buttarelli, aveva confermato la volontà “di continuare nella collaborazione con il governo, per ricercare comunque possibili forme che consentano di contrastare l’inflazione, a tutela di famiglie e consumi”.

Tuttavia, a ufficializzare lo strappo dell’industria alimentare è stata poche ore dopo la nota congiunta Centromarca-Ibc nella quale comunicavano di “ritenere non praticabile la sottoscrizione del protocollo” anti-inflazione promosso dal governo che impegnerebbe le organizzazioni a promuovere, presso le aziende associate, azioni per offrire prezzi calmierati su una selezione di articoli, compresi quelli rientranti nel cosiddetto carrello della spesa, e a “non aumentare il prezzo”. A stretto giro alla posizione di Centromarca e Ibc si è aggiunta quella dell’industria alimentare che fa capo ad Assica, Assitol, Assocarni, Assolatte, Italmopa e Unione italiana food. Queste ultime hanno respinto al mittente le accuse di Federdistribuzione e precisato che per “collaborare fattivamente con tutte le parti interessate” per calmierare i prezzi serve “il coinvolgimento di tutti gli operatori della filiera alimentare nel senso più ampio. Ci riferiamo a tutti coloro che, a vario e diverso titolo, contribuiscono a formare i costi di produzione a partire da materie prime, energia, packaging, logistica, e concorrono dunque a comporre il valore finale del prodotto”. A metà giornata era arrivato anche l’invito del ministro, Adolfo Urso a “sforzo comune”, in un tweet con cui commentava i dati Ocse sull’Italia dove “l’inflazione si è ridotta dal 7,6% di maggio al 6,4% di giugno”. Ma sul fronte consumi oggi è arrivata l’Istat con i dati sulle vendite al dettaglio, che a giugno sono risultate in calo dello 0,2% a valore e dello 0,7% a volume rispetto al mese precedente. Su base annua le vendite a valore sono cresciute del 3,6% ma a volume sono calate del 3,5%. E se rispetto a maggio diminuiscono le vendite dei beni non alimentari sia a valore che a volume (-0,7% in valore e -0,9% in volume), quelle dei beni alimentari crescono in valore (+0,3%) ma calano in volume (-0,2%).

Coldiretti: grano duro pagato il 20% in meno in un anno

Coldiretti: grano duro pagato il 20% in meno in un annoMilano, 3 ago. (askanews) – Il grano duro italiano quest’anno viene pagato oltre il 20% in meno rispetto allo scorso anno nonostante i raccolti siano stati decimati dal clima. A sostenerlo Coldiretti che, in occasione della riunione del tavolo di filiera grano-pasta convocato dal ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha sottolineato come i compensi non coprano i costi di produzione e mettano a rischio il futuro del “granaio Italia” in un momento segnato da grandi incertezze per la guerra ed il clima.

Coldiretti ribadisce l’esigenza di “aumentare la produzione italiana continuando a promuovere accordi di filiera per la stabilità del prezzo e la valorizzazione del grano nazionale ma anche nella ricerca, indispensabile per aumentare qualità e quantità ma anche per contrastare le mutate condizioni climatiche che stanno mettendo a dura prova il comparto produttivo”. La richiesta è poi per una “costante analisi dei prezzi e l’aumento dei controlli, in modo da garantire in ogni caso che il prezzo del grano duro copra i costi di produzione degli agricoltori, nel rispetto della legge contro le pratiche sleali. Una spinta può venire dall’avvio della commissione unica nazionale (Cun) grano duro ma anche dalla promozione della pasta 100% italiana sostenendo l’intera filiera”. Infine chiedono di contrastare le importazioni di grano canadese aumentate rispetto allo scorso anno, nel rispetto del principio di reciprocità nelle importazioni visto che il grano canadese è prodotto attraverso una pratica vietata in Italia come l’uso del glifosate in pre-raccolto come disseccante.

Industria alimentare: aumenti costi assorbiti il più possibile internamente

Industria alimentare: aumenti costi assorbiti il più possibile internamenteMilano, 3 ago. (askanews) – “Le nostre aziende associate hanno da sempre improntato la loro produzione alla massima efficienza e razionalizzazione dei processi ed hanno assorbito quanto più possibile le varie oscillazioni dei diversi costi sostenuti anche al fine di evitare che questi vengano scaricati a valle sul consumatore, come del resto dimostrano i prezzi alla produzione, vale a dire i prezzi di cessione alla distribuzione, che si attestano ben al di sotto del tasso di inflazione medio”. L’industria alimentare rappresentata da Assica, Assitol, Assocarni, Assolatte, Italmopa e Unione italiana food replica a a Federdistribuzione che ha parlato di “argomentazioni pretestuose e strumentali” per non sottoscrivere il protocollo anti-inflazione promosso dal governo attraverso il Mimit, chiedendo “senso di responsabilità verso le famiglie e abbassando, laddove possibile, i propri listini di vendita”.

Assica, Assitol, Assocarni, Assolatte, Italmopa e Unione italiana food si dicono “ben consapevoli che il tasso d’inflazione registrato in Italia in questi tempi sta mettendo in serio pericolo la capacità di spesa dei consumatori. Il calo della capacità di spesa comporta inevitabilmente una riduzione degli acquisti e quindi minor introiti per le aziende e minori profitti. Il consumatore – spiegano – rappresenta il punto di riferimento per eccellenza delle aziende associate e il motore primario dell’esercizio d’impresa”. Le associazioni in un comunicato congiunto ribadiscono di condividere “la necessità di supportare il consumatore italiano” e pur dicendosi “disponibili a collaborare fattivamente con tutte le parti interessate” per calmierare i prezzi, dicono di “non poter trascurare una serie di ragioni tutt’altro che pretestuose e strumentali, come si è affermato”.

La richiesta è che ci sia “il coinvolgimento di tutti gli operatori della filiera alimentare nel senso più ampio. Ci riferiamo a tutti coloro che, a vario e diverso titolo, contribuiscono a formare i costi di produzione (materie prime, energia, packaging, logistica etc.) e concorrono dunque a comporre il valore finale del prodotto”. “Le voci di costo che producono il prezzo finale di un bene hanno un ruolo decisivo sul valore del bene stesso e gli avvenimenti degli ultimi anni hanno reso spesso insostenibili i costi di produzione – ragionano – per cui un impegno sul valore del prodotto finito che non consideri l’incidenza di questi costi, sarebbe deprivato di una componente essenziale e quindi totalmente sbilanciato sugli attori della filiera a valle”. Oltretutto, concludono, “il settore del largo consumo è un ambito altamente competitivo come dimostrato del resto dalla pluralità delle azioni promozionali che vengono messe in essere continuativamente in tutti i punti vendita proprio per venir incontro ai consumatori”.

Centromarca-Ibc: il protocollo anti-inflazione è impraticabile

Centromarca-Ibc: il protocollo anti-inflazione è impraticabileMilano, 3 ago. (askanews) – Centromarca e l’associazoine delle Industrie di beni di consumo in una nota comunicano di aver “ritenuto non praticabile la sottoscrizione del protocollo” anti-inflazione promosso dal governo attraverso il Mimit che impegnerebbe le organizzazioni a promuovere, presso le aziende associate, azioni per offrire prezzi calmierati su una selezione di articoli, compresi quelli rientranti nel cosiddetto carrello della spesa, e a “non aumentare il prezzo” di tale selezione in un trimestre di riferimento (primo ottobre – 31 dicembre 2023) eventualmente prorogabile. “Pur non mettendo in dubbio la validità delle motivazioni che portano il governo, attraverso il Mimit, a promuovere interventi a sostegno del potere d’acquisto delle famiglie” le due realtà che riuniscono l’industria di marca e quella dei beni di largo consumo hanno deciso di non aderire ritenendo impraticabile l’iniziativa, “tenuto conto sia di aspetti sostanziali sia di valutazioni di carattere formale e giuridico”.

Tuttavia, hanno ribadito la volontà di continuare col dialogo al governo, al ministero delle Imprese e alle aziende della moderna distribuzione, con l’obiettivo di affrontare a un tavolo condiviso e in modo organico le inefficienze presenti nella filiera del largo consumo che si traducono in costi per il consumatore finale. E hanno, inoltre, auspicato una riduzione sensibile dell’iva sui beni di consumo, ulteriori tagli al cuneo fiscale e azioni che portino la concorrenza nei settori in cui non è presente. Nella nota le due associazioni spiegano nel dettaglio le ragioni che le hanno portate a non sottoscrivere il protocollo. Il primo punto sono i costi delle materie prime. La gran parte delle industrie è impegnata nella definizione di contratti di acquisto delle materie prime con prezzi che oscillano costantemente. A titolo di esempio, scrivono, Nomisma, per le commodity agricole, su base indice Fao, registra le seguenti variazioni tendenziali (giugno 2023 rispetto gennaio 2020): zucchero +74%, cereali +26%, carne +14%, lattiero caseari +12%, olii vegetali +6%. Rispetto a gennaio 2021 il costo del vetro è cresciuto dell’88%, la carta del 65%, il pet del 37%. I costi logistici si mantengono alti. La marginalità delle aziende si è deteriorata a causa del forte aumento del tasso di sconto. Il quadro complessivo non consente previsioni realistiche sulla dinamica dei conti economici e sulle linee delle politiche commerciali dei prossimi mesi. Un’azione di controllo dei prezzi, a prescindere da queste variabili e dalle differenti condizioni delle singole aziende, rischia di pregiudicare la tenuta del tessuto produttivo (soprattutto delle piccole e medie imprese) e la continuità dei fondamentali investimenti a presidio di qualità, sicurezza, sviluppo, occupazione e sostenibilità.

Il secondo punto, riguarda il graduale aumento dei prezzi per il consumatore finale che ha già generato una contrazione della marginalità. I bilanci industriali registrano riduzioni dei margini, a conferma del fatto che – consapevoli della debolezza del potere d’acquisto delle famiglie – i produttori di beni di largo consumo hanno fatto quanto era in loro potere per trasferire con gradualità a valle gli extracosti (materie prime, energia, imballaggi, trasporti) anche incamerando negli anni scorsi contrazioni significative dei profitti. Nell’alimentare i margini per unità di prodotto hanno registrato una riduzione del 41,6%. L’Osservatorio Congiunturale Centromarca – Ref Ricerche evidenzia che lo scorso anno il 43,5% dei manager delle aziende alimentari e non food ha riscontrato profitti in diminuzione e il 6,2% ha prodotto in perdita. Nel 2022 le tensioni al rialzo dei costi, già in atto nel 2021, si sono accentuate. Per la media dell’industria del largo consumo, secondo elaborazioni di Prometeia, l’incremento è stato del 15,4%, superiore al manifatturiero. L’industria ha trasferito solo parzialmente i costi sui prezzi: in media d’anno, nel 2022, i prezzi al consumo del largo consumo sono aumentati meno del 10% (8,8% per alimentare e bevande, 5,5% per il chimico casa e circa il 3% per gli articoli di igiene personale e prodotti di bellezza). L’impegno delle aziende industriali nel contenimento dei prezzi è confermato anche dal fatto che nel 2022, a fronte di un impatto dell’inflazione che ha determinato una crescita della spesa complessiva delle famiglie pari a 446 euro mensili (rispetto al 2021, dato Istat) l’impatto del carrello della spesa stimato da Nielsen è stato di 35 euro. Infine c’è anche un aspetto giuridico. Verifiche legali, spiegano, hanno appurato che la normativa Antitrust non consente a Centromarca e a Ibc di promuovere presso le aziende associate gli impegni oggetto del protocollo. Ogni industria, nel rispetto della legge, agisce in autonomia sia nel rapporto con fornitori e clienti sia nella definizione delle politiche commerciali. Un’intesa che “controlli” i prezzi (anche al ribasso) costituirebbe un potenziale cartello, sanzionabile da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. L’attuazione del contenuto del protocollo determinerebbe, inoltre, interferenze nelle relazioni di filiera e una distorsione della concorrenza tra le imprese, che competono tra loro sulla base di posizionamenti, margini e politiche di prezzo differenziate.

Salumi Fiorucci tornano in Europa: il 100% a Navigator e White Park Capital

Salumi Fiorucci tornano in Europa: il 100% a Navigator e White Park CapitalMilano, 3 ago. (askanews) – I salumi Fiorucci tornano in Europa passando dalla multinazionale messicana Sigma Alimentos alla tedesca Navigator group e alla irlandese White Park Capital. Il salumificio Cesare Fiorucci, fondato a Norcia nel 1850 e oggi con base a Pomezia, nel 2011 era stato acquisito dalla Campofrio Food, multinazionale con sede a Madrid, confluita poi nel 2015 nella multinazionale alimentare messicana Sigma Alimentos. Ora la Cesare Fiorucci confluisce al 100% sotto la Fiorucci Holding, una società veicolo controllata dalla tedesca Navigator group e dall’irlandese White Park Capital.

Navigator è un gruppo industriale diversificato specializzato nell’acquisizione di aziende europee al fine di migliorarne la redditività e garantire un futuro a lungo termine ai propri stakeholder. Navigator ha sede a Düsseldorf e gestisce un portafoglio diversificato di aziende in Germania, Svezia, Francia e Svizzera. White Park è un gruppo industriale basato a Dublino specializzato nella riorganizzazione e rilancio di rami d’azienda. Con l’acquisizione, spiega una nota, i nuovi soci mirano a rilanciare l’offerta e la distribuzione dei prodotti dello storico marchio Fiorucci nei canali di riferimento in Italia e all’estero in virtù di un importante piano di investimenti e di rilancio di lungo periodo. L’obiettivo è di riportare una azienda e un marchio che ha 170 anni di vita a una redditività e a una crescita adeguate al suo potenziale. Il piano di rilancio di lungo periodo prevede una prima fase di riorganizzazione a cui seguirà una fase di crescita supportata da rilevanti investimenti. Cesare Fiorucci viene quindi ricapitalizzata con rilevanti risorse finanziarie.

“Fiorucci ha saputo combinare in modo meraviglioso tradizione e innovazione diventando un marchio iconico in Italia. È un onore poter contribuire con la mia esperienza al continuo successo di Fiorucci”, ha dichiarato Claudio Rustioni, Amministratore Delegato di Fiorucci. Per Christian Muschick, amministratore delegato del Gruppo Navigator “Fiorucci è sinonimo di valori che ammiriamo: tradizione, bontà, gioia di vivere, qualità. Questo è un impegno strategico volto a rafforzare la nostra posizione nel settore alimentare”. “Fiorucci rappresenta un’attitudine italiana alla vita – sottolinea William Belford di White Park Capital – che può essere trasmessa solo in Italia e dall’Italia al resto del mondo”.

Inflazione, Scordamaglia: affidare a Ismea verifica costi di produzione

Inflazione, Scordamaglia: affidare a Ismea verifica costi di produzioneMilano, 3 ago. (askanews) – Per calmierare i prezzi e contrastare eventuali forme speculative occorre “partire da una seria e oggettiva analisi dei costi di produzione da affidare a un organismo terzo e qualificato, come Ismea”. A dirlo Luigi Scordamaglia, amministratore delegato di Filiera Italia che ha partecipato al tavolo ministeriale convocato dal ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, sulla filiera del grano e della pasta. Il riferimento è al trimestre anti-inflazione a cui lavora il Mimit d’intesa con la distribuzione, l’industria della trasformazione e i produttori di materie prime. “Una trasparenza nei prezzi aiuta, non limita il mercato – sottolineano da Filiera Italia – e passa anche attraverso una commissione unica nazionale (CUN) che superi commissioni locali troppo spesso soggette a pressioni e forzature strumentali”.

Durante l’incontro Scordamaglia ha ricordato che “abbiamo imparato tutti negli ultimi due anni che dipendere dall’estero per beni essenziali, quali cereali, grano, è pericoloso perché potrebbe mettere a rischio l’intera filiera e la sicurezza del Paese”. Nel 2022, infatti, 72 Paesi a livello globale hanno introdotto restrizioni al proprio export di prodotti agricoli e la Cina ha stoccato circa l’85% dello stock di grano globale. “L’obiettivo – prosegue Scordamaglia – non può quindi che essere aumentare strategicamente la produzione nazionale di grano duro attraverso l’unico strumento che lo consente e cioè i contratti di filiera che se adeguatamente implementati assicurano stabilità e garanzia di un prezzo trasparente e remunerativo per tutti”. “Sempre attraverso i contratti di filiera e la ricerca in partnership pubblico privata – ha aggiunto – è possibile una costante crescente valorizzazione, anche qualitativa, del grano italiano”. Infine Scordamaglia ha richiamato la necessità che “l’Italia, contrariamente a quanto fatto in passato, prenda una posizione chiara sulla proposta di riautorizzazione del glifosate chiedendo un divieto totale per tutta Europa e per i prodotti importati per qualsiasi uso in pre raccolta”. Uso vietato in Italia, ma consentito nel grano di importazione.

Presidente Consorzio Grana Padano Zaghini Cavaliere della Repubblica

Presidente Consorzio Grana Padano Zaghini Cavaliere della RepubblicaMilano, 3 ago. (askanews) – Il presidente del Consorzio del Grana Padano, Renato Zaghini è stato insignito dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dell’onorificenza di cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica Italiana.

“È un riconoscimento alle grandi capacità imprenditoriali e alle profonde qualità umane del presidente Zaghini, che da anni è ai vertici del Consorzio che tutela e valorizza il prodotto Dop più consumato nel mondo – ha commentato il direttore generale del Consorzio, Stefano Berni, a nome di tutto il mondo consortile – Ha assunto la presidenza in uno dei periodi più difficili non solo per l’economia e il settore agroalimentare, ma per l’intera umanità, scossa da epidemie e conflitti. E sta guidando la filiera con la determinazione, la lungimiranza e l’amore per i valori della sua terra e della sua Patria, elementi essenziali per il conferimento dell’onorificenza che gli è stata concessa”. Renato Zaghini è stato eletto presidente del Consorzio di tutela Grana Padano il 2 luglio del 2020 dal consiglio d’amministrazione votato ad aprile dell’assemblea generale del Consorzio, nel pieno della pandemia.

Sessantasette anni, sposato, ha due figli di 44 e 42 anni, che ora guidano l’azienda di famiglia, un allevamento di medie dimensioni di vacche da latte a Bagnolo San Vito, in provincia di Mantova. La vita di Zaghini si è presto divisa tra l’azienda zootecnica e il Caseificio Europeo, dove il padre lavorava come operaio. Conseguito il diploma da perito agrario, si è dedicato subito all’allevamento e ha trasmesso ai figli questa passione per la campagna, guidando così l’azienda alla quarta generazione. Ha ricoperto anche incarichi nella Coldiretti. Questo impegno insieme a quello nell’attività cooperativistica lo ha visto eletto nel 1997 alla presidenza del Caseificio Europeo società agricola cooperativa di Bagnolo San Vito, produttore di Grana Padano Dop, nel momento della gestione delle quote latte in Europa.

Anicav: Coldiretti confonde, Masaf acceleri iter su origine pomodoro

Anicav: Coldiretti confonde, Masaf acceleri iter su origine pomodoroMilano, 2 ago. (askanews) – L’Anicav, l’associazione nazionale dell’industria conserviera vegetale, replica a stretto giro alla Coldiretti, che, in occasione dell’avvio della campagna della raccolta del pomodoro, torna ad agitare il fantasma del pomodoro cinese sulle tavole italiane. “Il comparto della trasformazione del pomodoro è continuamente oggetto di attacchi e di una ‘certa’ comunicazione, il più delle volte strumentale, che si ripete ormai da anni con una precisa cadenza – scrive Anicav – Questo tipo di azione mette in discussione l’origine e la qualità dei prodotti confondendo i consumatori e inducendo a credere che non ci siano differenze tra i derivati del pomodoro e che tutto ciò che arriva sulle nostre tavole è di dubbia origine, danneggiando così l’immagine di un intero settore”.

Anicav, oggi, insieme alle Organizzazioni interprofessionali del pomodoro da industria del Nord e del Centro-Sud Italia ha inviato una lettera congiunta al ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, con cui “alla luce delle preoccupazioni da più parti espresse, al fine di salvaguardare e valorizzare un settore che rappresenta un’eccellenza italiana nel mondo, evidenzia la necessità di una maggiore attenzione del Masaf alle dinamiche commerciali 2023 del pomodoro e dei suoi derivati. In particolare, abbiamo sottolineato l’esigenza che l’Icqrf (l’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari che fa capo al Masaf), validi in tempi brevi, al fine di renderla operativa, la verifica della zona d’origine attraverso la caratterizzazione dei macro e microelementi minerali presenti nel pomodoro, sulla base del lavoro messo a punto dalla Stazione sperimentale delle Conserve alimentari, alla quale, come Anicav, abbiamo dato fin dall’inizio il nostro pieno appoggio”. La richiesta di accelerare sulla zona d’origine del pomodoro, si accompagna a un chiarimento sul dato diffuso da Coldiretti sulle importazioni di concentrato di pomodoro dalla Cina, che nel 2022 ci ha superati in termini di produzione del pomodoro da industria. Lo scorso anno infatti l’Italia ha prodotto 5,5 milioni di tonnellate di pomodoro da industria (erano 6 nel 2021) contro i 6,2 milioni della Cina (4,8 nel 2021) e i 9,9 degli Stati Uniti. Ma questo non ha nulla a che vedere con le importazioni di concentrato che avvengono in un regime transitorio, di cosiddetta temporanea importazione. “In Italia – spiega Anicav – le importazioni di concentrato di pomodoro provenienti da paesi terzi avvengono in regime di Tpa (Traffico di perfezionamento attivo) o temporanea importazione, per cui il concentrato entra temporaneamente nel territorio nazionale a scopo di perfezionamento (lavorazione, trasformazione o riparazione) per poi essere riesportato verso paesi extracomunitari, quindi verso un mercato di sbocco molto diverso da quello dei derivati prodotti in Italia da pomodoro 100% italiano”.

“Ribadiamo ancora una volta – conclude la nota – che il contrasto a ogni possibile pratica fraudolenta è da sempre uno dei principali obiettivi di tutte le nostre azioni, a tutela della nostra reputazione e, soprattutto, di tutti i consumatori”.

Parmigiano Reggiano: cresce produzione in montagna, garanzia per territorio

Parmigiano Reggiano: cresce produzione in montagna, garanzia per territorioMilano, 2 ago. (askanews) – Nel 2022 sono state 846mila le forme di Parmigiano Reggiano Dop ottenute in caseifici in zona di montagna, con un aumento del 10,5% rispetto al 2016. Crescita a doppia cifra (+14%) anche per la produzione di latte, sempre nello stesso lasso di tempo, con oltre 404.000 tonnellate. Se poi guardiamo ai dati del Parmigiano Reggiano “Prodotto di montagna”, così come da certificazione introdotta nel 2016 dal Consorzio di tutela, i dati relativi al 2021 parlano di oltre 225.000 forme certificate, con un aumento del +26,6% sul 2016. Sono questi i numeri diffusi dal Consorzio nella conferenza stampa di presentazione della 57a Fiera del Parmigiano Reggiano a Casina dal 4 al 7 agosto.

Questi dati per il Consorzio sono “un chiaro segnale che la politica di rilancio e valorizzazione per stimolare la produzione del Parmigiano Reggiano in montagna sta invertendo una tendenza alla decrescita che aveva colpito il comparto fino al 2014”. Nel decennio 2000-2010 nei territori di montagna della zona di origine si è assistito alla chiusura di 60 caseifici, con una riduzione del 10% di produzione del latte. Deficit che è stato azzerato dal 2014 a oggi con l’avvio del Piano di regolazione offerta che, tra le altre misure, ha previsto sconti specifici per i produttori e i caseifici ubicati in zone di montagna e il bacino “montagna” per le quote latte. Nel 2022, dunque, più del 21% della produzione totale si è concentrata negli 81 caseifici di montagna sparsi tra le province di Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna a sinistra del fiume Reno, che impiegano oltre 900 allevatori per una produzione annuale di 4,03 milioni di quintali di latte. Ciò ha reso possibile il mantenimento di un’agricoltura in zone altrimenti abbandonate. Altro segnale positivo è rappresentato dai cambiamenti generazionali all’interno dei caseifici: l’età media dei produttori si è abbassata dai 57 anni di media prima del 2016 ai 30-40 di oggi.

Dal 2013 un regolamento Ue ha introdotto la dicitura “Prodotto di montagna” per classificare i prodotti alimentari aventi origine nelle aree di montagna dell’Unione Europea. Il Parmigiano Reggiano è il più importante prodotto Dop ottenuto in montagna. In questa direzione il Consorzio del Parmigiano Reggiano ha definito il “Prodotto di montagna – Progetto territorio consorzio” che tra gli altri requisiti – 100% latte munto in stalle nelle zone di montagna, più del 60% dell’alimentazione delle vacche è coltivata in zona di montagna, il caseificio dev’essero sito in montagna; stagionatura fino a 12 mesi minimo, in zona di montagna o ad un massimo di 30 chilometri dal confine amministrativo della zona di montagna – deve essere sottoposto a una selezione qualitativa a 20 mesi compiuti con valutazione “al martello” degli esperti del Consorzio. occorrerà quindi ancora aspettare che trascorrano questi 20 mesi per capire quante saranno le forme certificate di Parmigiano Reggiano Dop prodotto di montagna per il 2022. “La produzione nelle zone di montagna è da sempre una delle caratteristiche salienti del Parmigiano Reggiano – ha affermato Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio – La differenza di una Dop rispetto a tante altre realtà economiche è che l’attività non può essere delocalizzata, e pertanto il fatturato diventa automaticamente ‘reddito’ per la zona di origine e benessere per chi in quella zona vive e lavora. Se non ci fosse la nostra Dop, in quei comuni non ci sarebbero neanche le scuole, perché se non ci fosse un senso economico nel coltivare quei territori, non ci sarebbe neanche lo sprone ad abitarli. Il Parmigiano Reggiano contribuisce a fortificare l’economia e a preservare l’unicità della dorsale appenninica emiliana”.

Per Guglielmo Garagnani, vicepresidente del Consorzio, “preso atto dei risultati raggiunti con il consolidamento della produzione nelle zone dell’Appennino, ora la sfida è riuscire a rafforzare il valore commerciale del Parmigiano Reggiano ‘Prodotto di montagna’ e promuoverne il valore aggiunto, per avere un posizionamento nel mercato che riesca a rendere sostenibile tale produzione nel tempo. Le aree di montagna da un lato soffrono di condizioni svantaggiate e maggiori costi di produzione, ma dall’altro la permanenza di una solida produzione agricola-zootecnica rappresenta un pilastro economico e sociale di interesse per tutta la comunità locale. Ecco perché è fondamentale che il Consorzio abbia messo in campo interventi che mirano alla diffusione e valorizzazione del Parmigiano Reggiano ‘Prodotto di montagna’, e che continui a farlo anche nei prossimi anni a venire”.

Nuovo impianto solare per lo stabilimento Findus di Cisterna di Latina

Nuovo impianto solare per lo stabilimento Findus di Cisterna di LatinaMilano, 1 ago. (askanews) – Un nuovo impianto solare da 2 MW nello stabilimento Findus di Cisterna di Latina dove si produce l’85% dei volumi dell’azienda parte del gruppo Nomad Foods. L’impianto da 4.064 pannelli solari, per una superficie di 9.346 m2, è stato realizzato da Grastim JV e si integra con un impianto di trigenerazione a turbina da 5,5 MW, di proprietà Grastim. I pannelli fotovoltaici produrranno circa 2.400 MWh di energia elettrica all’anno, la cui quasi totalità sarà assorbita dallo stabilimento in autoconsumo. In termini di impatto ambientale si stima una riduzione delle emissioni di CO2 pari a 1.180 tonnellate l’anno.

L’impianto solare è basato sull’installazione di pannelli fotovoltaici monocristallini di ultima generazione ed è composto da due sezioni: una realizzata su tetti a falda, per un totale di circa 1.200 kW; l’altra su strutture in carpenteria infisse nel terreno, per un totale di ulteriori 800 kW. La formula di vendita è quella ESCo (Servizio Energia), per cui investimento, autorizzazioni, realizzazione e manutenzione sono totalmente a carico Grastim, che venderà energia elettrica al cliente finale. L’investimento è stimato sui 2,1 milioni di euro.

L’installazione del nuovo impianto a pannelli solari si inserisce in un percorso più ampio intrapreso da Findus per arrivare a una riduzione del 25% della CO2 entro il 2025 e un un piano di sostenibilità dello stabilimento di Cisterna di Latina, che conta 20 linee di produzione, 104 diverse referenze e oltre 70 di semilavorati, per un totale di 60 mila tonnellate di prodotto finito e 20 mila di semilavorato. Lo stabilimento di Cisterna di Latina è il primo sito del gruppo Nomad Foods – gruppo di cui Findus fa parte e la più grande azienda europea di alimenti surgelati – ad essere dotato di energia solare. A seguito di ulteriori studi sull’efficienza energetica, il Gruppo è ora in fase di esplorazione per altri progetti di energia rinnovabile su tutti i propri siti produttivi, con l’intenzione di promuovere una decarbonizzazione diffusa nelle sue catene di approvvigionamento.