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Cernilli: oggi il vino è molto di più di qualcosa soltanto da bere

Cernilli: oggi il vino è molto di più di qualcosa soltanto da bereMilano, 6 ott. (askanews) – Oltre ad essere uno dei critici enologici italiani più noti e apprezzati, Daniele Cernilli è anche uno dei più esperti conoscitori dell’affollato settore editoriale delle guide dei vini, dato che nei suoi quarant’anni di vita professionale ne ha fatte uscire complessivamente ben 35: 24 con il Gambero Rosso, una con Duemilavini dell’Associazione italiana sommelier e dieci con la sua DoctorWine. L’ultima sua “Guida essenziale ai vini d’Italia” l’ha presentata a Milano nei giorni scorsi e la ripresenterà l’8 ottobre allo Spazio 900 a Roma.

“Si chiama ‘essenziale’ perché noi non mettiamo tutti i vini delle Cantine che selezioniamo ma soltanto le cosiddette ‘specialità della casa’, quindi i vini migliori, e nelle intenzioni dovrebbe quindi essere la punta della piramide del vino italiano, con la massima qualità attribuita a meno di venti vini, come succede più o meno per i ristoranti della Michelin” racconta Cernilli parlando con askanews a margine della presentazione milanese, una due giorni di degustazioni con i vini selezionati di circa 240 Cantine, che ha richiamato quasi duemila persone. In quasi 600 pagine, il volume raccoglie 1.250 aziende e poco più di tremila vini, scelti da una squadra composta da una ventina di degustatori, tra cui tante donne. “Trentacinque guide significa che negli anni ho assaggiato almeno 150mila vini e ho scritto più di 10mila schede di prodotto” continua Cernilli, che in questi oltre quarant’anni di lavoro ha assistito all’evoluzione del mondo del vino italiano. “Il vino non è più semplicemente qualcosa soltanto da bere, ci sono tanti elementi, dal design delle etichette fino all’attenzione per l’ecosostenibilità, che lo arricchiscono di contenuti, non c’è soltanto il primato del sapore e gli aspetti organolettici, ma una concezione più olistica, complessiva: questo è cambiato e sta cambiando” spiega, un’evoluzione che si deve “all’introduzione delle Denominazioni di origine, che hanno portato il vino a non essere più semplicemente un prodotto merceologico ma un prodotto che lega la qualità alla sua origine, ma anche alla ‘brandizzazione’ sulla qualità”. Secondo il 68enne critico romano, il progressivo aumento della qualità media registrato in questi anni è evidente ed emblematico “nella produzione cooperativa: una volta i loro erano dei vinacci, ora non è assolutamente più così”. “E’ cambiata la prospettiva: ci si rivolge ad un pubblico che ha in generale una maggiore possibilità di spesa in relazione non soltanto alla qualità ma anche all’iconicità del vino, a ciò che rappresenta quello che è diventato una specie di ‘flacone del territorio’”.

In questa trasformazione generale, il tema del prezzo del vino, del suo valore e del suo posizionamento, sono elementi che tornano di attualità appena si manifesta il rischio di una contrazione del mercato, non tanto interno quanto internazionale, come indicano le stime per il 2024. Le proiezioni più fosche riguardano i vini delle fasce medio basse penalizzate dalla diminuita capacità di spesa del ceto medio, mentre, al contrario, viene dato in crescita il segmento dei vini di alta e altissima gamma quelli che si posizionato nella fascia più elevata di prezzo. Una forbice, che rischia di penalizzare in particolare i giovani e le fasce di popolazione meno abbienti. “Il vino è sempre stato un marker, un segnalatore della situazione economica generale” afferma Cernilli, spiegando che “parlare però di ‘democratizzazione dei consumi’ può essere un po’ demagogico: noi parliamo di alta moda, di automobili di lusso, e poi se un vino costa un po’ di più ci stracciamo le vesti. Se non è un atteggiamento ipocrita è perlomeno un pò contraddittorio”. “Non si capisce perché nei telegiornali ci sono servizi sulle sfilate di moda e non ci sono altrettanti servizi su prodotti alimentari di alta qualità, tra cui c’è anche il vino, e nemmeno perché Armani è una star, e non lo sono, per esempio, Gaja o Antinori” continua Cernilli, domandandosi retoricamente: “Perché va bene che un vestito di alta moda costi migliaia di euro, mentre è inaccettabile che una bottiglia di Masseto costi mille euro?”. Ma ogni ragionamento sull’evoluzione del vino italiano necessita di una base di partenza chiara. “Nel nostro Paese abbiamo circa 600mila ettari di vigneto, più o meno seimila chilometri quadrati (un po’ più della Liguria) e abbiamo quasi 300mila produttori, il che significa che ci sono poco più di 2 ettari per produttore di uva da vino, una parcellizzazione della produzione che è spaventosa” ricorda allora Cernilli, sottolineando che “quindi quelli che parlano di industria del vino in Italia mi fanno sorridere perché l’industria in Italia quasi non esiste: non c’è alcun Paese nel mondo vitivinicolo che abbia una concentrazione di cooperazione come in Italia, dove il 60% del vino è prodotto da cooperative che fanno poco più del 40% del fatturato totale, che significa che vendono ad un prezzo un po’ più basso di quello medio dei produttori privati”. Inoltre, aggiunge Cernilli, “in Italia assistiamo ad una progressiva diminuzione del consumo di vino che va avanti dagli anni Ottanta, quando si beveva più del doppio di quello che si beve oggi, che è meno di 40 litri procapite contro i quasi cento degli anni Settanta”. “Alcune bevande hanno sostituito il vino, tra cui anche l’acqua minerale in bottiglia, quindi c’è stato un depauperamento della base di consumo e un aumento del prezzo medio: beviamo meno ma beviamo meglio da un punto di vista qualitativo” prosegue, evidenziando che ora però “il rischio è la disabitudine a bere vino, con la conseguenza che se produrremo meno e avremo meno vigneti, assisteremo anche ad un cambiamento del paesaggio, perchè il vino non è solo qualcosa da bere: sono i muretti a secco, la gestione dei territori, e via discorrendo”.

Un altro rischio per il settore vitivinicolo, viene dai “vini dealcolati”, un mercato ancora di nicchia che gli analisti ritengono però in crescita esponenziale. “Sono molto sorpreso che molti sostenitori dei vini naturali lo siano anche dei vini senza alcol: ad unirli c’è una ‘medicalizzazione’ dello stile di vita, per cui se l’alcol fa male, il dealcolato è quasi più naturale” continua Cernilli dialogando con askanews, sottolineando che “questa è una sciocchezza tremenda, e tra l’altro per produrre i dealcolati servono dei macchinari talmente sofisticati e costosi che un piccolo produttore non potrà mai permettersi, e quindi c’è il rischio che questa tipologia finisca nelle mani della grande industria non del vino ma del beverage”. “Quindi non mi sorprenderei che tra una decina d’anni i vini dealcolati saranno fatti dalla Coca-Cola o dalla Nestlé, gruppi che in questo modo potranno entrare nel mondo della produzione vitivinicola” prosegue, ragionando anche sulla discussione in corso in Europa sui fondi Ocm, quelli per la promozione del vino e degli alcolici: “Molti sostengono che siccome l’alcol fa male allora non deve essere promosso ad alcun livello e questo teoricamente non vale per il vino dealcolato: quindi il rischio è che questi fondi vengano tolti ai piccoli e medi produttori per darli ai grandi gruppi. Potrebbe essere complottismo – conclude – però è uno degli scenari possibili e significherebbe cambiare il quadro della produzione vitivinicola italiana”.