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Dai longobardi all’industria: la colomba dolce tradizione da 97 mln di euro

Dai longobardi all’industria: la colomba dolce tradizione da 97 mln di euroMilano, 14 mar. (askanews) – Quando sulle tavole ci sono ancora le ultime fette di pandoro e panettone, avanzate dalle feste natalizie, l’industria dei dolci da ricorrenza si rimette in moto per avviare la produzione delle colombe, il terzo dei grandi lievitati della tradizione italiana che approderà sulle tavole per Pasqua. Si inizia dopo l’Epifania, a sfornare questo dolce le cui incerte origini longobarde si intrecciano con il più moderno genio imprenditoriale di Angelo Motta che, per la prima volta, ne avviò la produzione nella sua fabbrica, a fine anni Trenta.



Sì, perché se la leggenda vuole che questo dolce nasca all’epoca del re longobardo Alboino, che avrebbe graziato la città di Pavia, durante il suo assedio, dopo aver ricevuto in dono da un fornaio un dolce a forma di colomba, la storia ci dice che è grazie al binomio industria-pubblicità che diventa un simbolo della tradizione pasquale nazionale. Industria che ancora oggi contribuisce a tenere viva questa tradizione, dal 2005 disciplinata dal decreto di Denominazione Riservata, che stabilisce ingredienti e regole di produzione dei lievitati da ricorrenza, colomba inclusa. “La prima cosa da fare quando si acquista è verificare che sul prodotto ci sia scritta Denominazione riservata Colomba – avverte Luca Ragaglini, vice direttore di Unione italiana food in occasione di un evento organizzato nell’ambito del progetto dell’associazione Buone fette – Questo presuppone il rispetto di un Decreto con la definizione di un disciplinare che, ormai, da quasi vent’anni ne preserva gli ingredienti, la lavorazione e la forma: il burro in quantità non inferiore al 16%, almeno il 4% di uova fresche, il 15% di scorze di agrumi canditi e, protagonista assoluto dell’aroma inconfondibile, il lievito che deve essere naturale e costituito da pasta acida”.


Ragaglini snocciola gli ingredienti della complessità di questo lievitato che, al pari dei fratelli maggiori, panettone e pandoro, richiede tempi lunghi di produzione, come quelli di un laboratorio artigianale: basti pensare che per ogni una singola colomba servono fino a tre giorni di lavoro prima che possa essere confezionata. E chiaramente questo per una produzione su larga scala come quella industriale, che deve garantire anche efficienza e accessibilità sul mercato, è un elemento complicato da gestire. “Questi tipi di lavorazione sono complessi perché sono sempre sull’orlo del fallimento: basta un minimo errore che si perde tutto ma è anche il bello di questo mondo – spiega Marco Brandani, presidente del gruppo Lievitati da ricorrenza di Unione italiana food e amministratore delegato di Maina – Mettendoci tre giorni a produrre una colomba abbiamo circa 300 colombe che girano ogni giorno in stabilimento, e non è che il lievito madre sia sempre al top”. “Questa complessità – avverte – D’altronde è anche il motivo per cui il numero delle grandi aziende che le produce si è ridotto”. A oggi sei marchi – Balocco, Bauli, Maina, Melegatti, Paluani e Tre Marie associati al gruppo Lievitati da ricorrenza di Unionfood – producono l’80% di questi dolci, e di questi uno solo è focalizzato su di essi, tutti gli altri hanno diversificato la produzione. “E’ una sfida soprattutto di questi tempi – ha spiegato ancora Brandani – perchè ormai i costi rispetto al pre-Covid sono aumentati del 40%, il burro in un anno è salito del 60%. La ricetta della colomba contiene 5-6 ingredienti di origine agricola soggetti a scossoni e stress ormai da qualche anno. Ma il problema non è l’aumento in sè dei costi quanto l’imprevedibilità degli eventi” che si ripercuote sugli equilibri dei mercati globali. Già, perché per quanto la colomba sia un simbolo della tradizione italiana le materie prime non sono necessariamente tutte di origine italiana, per ragioni di qualità ma anche di quantità. “È chiaro che si cerca di prediligere l’Italia per acquistare materie prime ma non è l’origine che fa la qualità” spiegano in Maina.


Di sicuro l’Italia resta il principale mercato di sbocco per la colomba, mantenendo solida una tradizione che trova riscontro nei numeri: quasi 8 italiani su 10 la portano in tavola per festeggiare la Pasqua. E solo lo scorso anno ne sono stati consumati 31 milioni, per un totale di 24.227 tonnellate e un valore pari a 96,7 milioni di euro (Fonte: Unione italiana Food – stime produzione 2024). Un consumo pressochè domestico, dove è la grande distribuzione il canale privilegiato d’acquisto. Qui l’industria arriva sia con il proprio marchio che con il prodotto private label. “A livello di settore più o meno un 50% sono colombe di marca e il resto sono prodotte con la marca del distributore. In tutti e due i casi il rispetto del disciplinare è garantito” assicura Ragaglini. E di fronte a questa scelta i consumatori si dividono: quasi la metà (49,9%) opta per quelle dell’industria di marca, con una particolare predilezione da parte della Generazione Z. E qui il motivo principale è sicuramente la facile reperibilità dei prodotti presso nella gdo (80,5%) ma anche la fiducia riposta nelle marche (33%).


“Le aziende che producono dolci da ricorrenza sono state tutte pasticcerie – conclude Brandani – e quell’impronta è rimasta: oggi sono dei grandi laboratori che hanno introdotto un certo modo di lavorare ma sempre cercando di proteggere, come nello spirito del Decreto del 2005, le ricette. E noi vorremo continuare con questa storia, vorremmo che questo sogno di famiglia continuasse”.