Giappone, occhi puntati sui prezzi: sono settimane cruciali
Giappone, occhi puntati sui prezzi: sono settimane crucialiRoma, 26 gen. (askanews) – In Giappone gli occhi dei policy maker economici sono puntati sui prezzi, in queste settimane. Dall’andamento dell’inflazione, infatti, dipenderanno le scelte della banca centrale che, diversamente dagli altri grandi istituti d’emissione, ha continuato a mantenere una politica ultra-espansiva durante tutta la fiammata inflazionistica determinata dalla situazione geopolitica.
Oggi è stato diffuso da ministero degli Affari interni un dato molto rilevante, che deve aver fatto storcere il naso dalle parti dela Banca del Giappone (BoJ): nella capitale, Tokyo, l’indice dei prezzi al consumo con l’eclusione degli alimentari freschi, cioè la cosiddetta inflazione “core” ma inclusiva anche dei prezzi dei carburanti, è cresciuto questo mese del solo 1,6% rispetto allo stesso mese dello scorso anno. E’ la prima volta in un anno e otto mesi che questo dato è al di sotto del 2%. Nei 23 quartieri di Tokyo, se si escludono gli alimentari freschi troppo soggetti alla variabile meteorologica, l’indice è risultato 105,8 a metà di questo mese, considerando la media del 2020 pari a 100, con un aumento dell’1,6% rispetto al 104,2 rilevato a gennaio dello scorso anno. Parliamo insomma di un rallentamento, anche perché a dicembre il tasso di crescita dei prezzi era stato del 2,1%.
A spingere in basso i prezzi sono stati, secondo il ministero, le misure del governo volte a ridurre il peso delle bollette di elettricità e gas, oltre al rallentamento del tasso di aumento degli affitti. I prodotti alimentari non freschi, dal canto loro, sono cresciuti del 5,7% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. Resta un livello piuttosto elevanto, anche se il tasso di aumento dei prezzi ha rallentato di 0,3 punti rispetto al mese scorso.
I dati di Tokyo sono un indicatore particolarmente rilevante di quanto succede su scala nazionale. E il momento, da questo punto di vista, è cruciale. La BoJ ha mantenuto, nell’ultima riunione dello scorso anno, ferma la politica di tassi d’interesse negativi, ma tra i membri del Consiglio monetario è ormai piuttosto vivo il dibattito sui tempi di uscita da questa lunghissima fase ultra-espansiva. Ci sono analisti che prevedono tra marzo e aprile un ritocco verso l’alto dei tassi, ma le minute della riunione – uscite oggi – fanno rilevare come nulla sia scontato. E ancor meno lo è dopo il dato di Tokyo, che suggerisce un raffreddamento dei prezzi che potrebbero non raggiungere il target della BoJ di un’inflazione stabilmente al 2%.
Si tratta insomma d’”un momento cruciale per determinare se l’economia del Giappone tornerà alla deflazione o si muoverà verso una completa uscita da essa”, ha commentato lunedì lo stesso primo ministro Fumio Kishida, in un incontro le parti sociali. A questo punto, in effetti, le attese sono appuntate sui negoziati salariali tra le parti sociali, che sono stati avviati due giorni fa. Il governatore della banca centrale Kazuo Ueda ha espresso le sue speranze per un “ciclo virtuoso prezzi-salari” in una conferenza stampa dopo il suo ultimo incontro di politica monetaria di martedì scorso, dicendo: “I sindacati hanno espresso la loro volontà di chiedere salari più alti rispetto allo scorso anno e ci sono stati alcuni riscontri positivi in dichiarazioni del management, in particolare nelle grandi aziende”. Accogliendo la richiesta dello stesso governo, che ha chiesto un recupero del potere di spesa dei lavoratori dopo che i prezzi sono stati sopra le attese per un anno, le grandi aziende si presentano al tavolo con sostanziosi aumenti, che potrebbero alimentare un po’ l’inflazione. La Japan Business Federation, confindustria giapponese conosciuta anche come Keidanren, nel suo forum annuale sul lavoro e sul management, ha sollecitato i suoi associati in questo senso. In un videomessaggio, il presidente Masakazu Tokura ha affermato che le aziende “hanno la responsabilità sociale” di aumentare i salari in modo da tenere il passo con l’inflazione. Le trattative salariali primaverili, conosciute come “shunto”, riuniscono sindacati e management per fissare i salari mensili prima dell’inizio dell’anno fiscale giapponese ad aprile. In Giappone i sindacati sono generalmente a livello aziendale, piuttosto che a livello di settore, e mirano a rafforzare la loro posizione negoziale tenendo colloqui più o meno tutti nello stesso periodo. “Il tasso di crescita salariale dello scorso anno è stato il più alto degli ultimi 30 anni, ma i salari reali non sono aumentati perché l’inflazione era ancora più alta”, ha detto in un’intervista Tomoko Yoshino, presidente della Confederazione sindacale giapponese Rengo, composta da 7 milioni di membri. “Siamo stati in grado di dimostrare – ha proseguito – che aumentare i salari è possibile. Nel 2024 vogliamo dimostrare che possiamo continuare ad aumentare i salari”. Rengo ha detto che quest’anno vuole almeno un aumento del 5% per i suoi membri. I capi di alcune grandi aziende giapponesi hanno già promesso di aumentare gli stipendi oltre l’obiettivo di Rengo. Takeshi Niinami, amministratore delegato del produttore di bevande Suntory Holdings, lo scorso ottobre ha dichiarato che la società aumenterà le retribuzioni in media del 7%. Anche Dai-ichi Life Holdings, una compagnia di assicurazioni sulla vita, prevede ritocchi verso l’alto del 7%, in parte attraverso un nuovo piano di remunerazione azionaria per circa 50.000 dipendenti. La contrattazione collettiva non ha quasi mai previsto i salari in Giappone da quando è scoppiata la bolla economica nei primi anni ’90. La situazione ha iniziato a cambiare intorno al 2022, con l’inflazione elevata e il management ha iniziato a sentire il peso di una grave carenza di manodopera. Lo shunto dello scorso anno si è tradotto in un aumento salariale medio di circa il 3,6%, il massimo degli ultimi 30 anni, che comprendeva un aumento dello stipendio base mensile e aumenti della retribuzione basata sull’anzianità. Ma, se per le grandi aziende mettere in campo cifre importanti per remunerare i dipendenti, diverso è il discorso per l’enorme massa di piccole e medie imprese, che già hanno subito gravi danni nel periodo pandemico e faticano a trasferire i costi più elevati ai propri clienti. In un sondaggio condotto questo mese su 833 piccole imprese dalla Jonan Shinkin Bank di Tokyo, solo il 27,7% ha dichiarato di voler aumentare i salari quest’anno, mentre il 35% ha dichiarato di non avere tali piani. Un altro 37,3% si dichiara indeciso.