
Malattia di Huntington, indagine LIRH: ancora scarsa conoscenza operatori
Malattia di Huntington, indagine LIRH: ancora scarsa conoscenza operatoriRoma, 25 mar. (askanews) – “Per il 65% delle persone che hanno scelto di fare il test genetico per la malattia di Huntington vi è stata la volontà di non vivere più con il dubbio. Il 25% è stato spinto dal desiderio di mettere al mondo un figlio, escludendo la trasmissione del gene. Una minoranza, il 10%, invece è stata indotta da pressioni esterne, soprattutto familiari, e dalla possibilità di accedere a sperimentazioni terapeutiche”. È quanto emerge da un’indagine della LIRH, Lega italiana ricerca di Huntington, su un campione di 195 persone, di cui il 61.8% di sesso femminile, di età compresa tra i 18 e 65 anni. Il 64,3% si sono identificati come caregiver, per la maggior parte partner e figli di pazienti, il 23,9% come persone a rischio genetico e il 11,7% come pazienti.
“Il percorso di accompagnamento al test genetico – racconta il report – emerge come un aspetto critico: il 25% non ha ricevuto un counseling genetico/psicologico e il 15% di chi lo ha ricevuto non è più stato contattato dopo la consegna del risultato. Anche la comunicazione dell’esito del test è un momento cruciale: il 19,05% dei pazienti riferisce di non aver avuto una spiegazione chiara di cosa è e come evolve la malattia e il 40% di loro non ha ricevuto informazioni riguardo opzioni terapeutiche e programmi di ricerca disponibili. Il 23,8% dei pazienti dichiara di non essere seguito regolarmente da uno specialista e di non essere stato indirizzato a visite o colloqui successivi, dopo la consegna del risultato. Le visite di controllo annuali – si sottolinea nel report – sono fondamentali per comprendere meglio come la malattia evolve nel tempo e adattare gli interventi terapeutici ai cambiamenti osservabili. Sebbene ad oggi non sia possibile impedire l’insorgenza della malattia di Huntington, esistono tuttavia strategie di intervento personalizzato farmacologico e non farmacologico come fisioterapia, logopedia e sostegno psicologico. Di queste però usufruisce solo il 28,6% dei rispondenti. Dalla survey emerge che il 66,7% delle terapie non farmacologiche è erogato privatamente”. “Le persone a rischio di sviluppare la malattia di Huntington – si legge nel report realizzato dalla LIRH – affrontano un percorso caratterizzato da incertezze, paure e scelte cruciali per la propria vita. Il 70,5% delle persone a rischio che ha risposto alla survey sente il bisogno di rivolgersi a uno psicologo. Tuttavia, solo il 61,4% ha effettivamente intrapreso un percorso di supporto psicologico. Oltre la metà dei rispondenti dichiara di essere venuti a conoscenza del rischio genetico dai propri genitori (58%) o da altri membri della famiglia (11%). Il 25% dichiara, tuttavia, di non avere uno scambio libero in famiglia, sebbene sia una malattia ereditaria”.
L’indagine pone l’accento anche sulla mancanza di comunicazione all’interno delle famiglie, nonostante il nucleo famigliare rappresenti un canale comunicativo del rischio genetico fondamentale: il 52,3% ne discute con il medico di famiglia e il 31,1% con il medico specialista. Da ultimo, il 79% delle persone parla del proprio rischio con il partner e il 59% con amici e colleghi. Altro dato che emerge con chiarezza è la scarsa conoscenza della malattia da parte degli specialisti tanto è vero che in una scala Likert a 10 punti il grado di conoscenza risulta essere insufficiente ottenendo un punteggio medio pari a 1,9 su 10. L’82% dei caregiver non si sente adeguatamente supportato dal Servizio Sanitario Nazionale nel ruolo di cura e avverte un forte senso di solitudine. Le difficoltà in questo ruolo di cura sono nel 54,6% rappresentate dalla gestione dello stress e la mancanza di un adeguato supporto dei servizi territoriali; il 50,5% dei rispondenti riferisce di non avere più tempo per sè, il 44,4% trova difficile conciliare il proprio lavoro con l’assistenza da fornire al proprio caro, il 24% ha difficoltà nell’affrontare i costi necessari all’assistenza della persona (o delle persone, perché in una stessa famiglia possono essere malati più individui) affetta da malattia di Huntington. “È necessario – spiega in conclusione la presidente della LIRH, Barbara D’Alessio – che le famiglie coinvolte si affidino a Centri che conoscono – e rispettano – le linee guide internazionali per il trattamento della malattia di Huntington, incluso il counselling genetico e psicologico, ancora carente. Dall’altra parte, sonoancora troppe le segnalazioni che mettono in evidenza la scarsa conoscenza della malattia, delle sue implicazioni, della sua corretta gestione e delle opzioni terapeutiche disponibili da parte degli specialisti e degli operatori sanitari. La Fondazione LIRH, insieme alla sua rete associativa territoriale, continuerà a fare la sua parte perché questa situazione cambi radicalmente”.