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Teha: export agroalimentare a 67,5 mld, da dazi impatto tra 1,6 e 1,3 mld

Teha: export agroalimentare a 67,5 mld, da dazi impatto tra 1,6 e 1,3 mldMilano, 15 apr. (askanews) – L’eventuale applicazione di dazi al 20% al comparto agroalimentare italiano potrebbe portare danni per 1,6 miliardi di euro ma la perdita potenziale potrebbe fermarsi a 1,3 miliardi. Un dato che se rapportato ai 67,5 miliardi di euro toccati dalle esportazioni agroalimentari nel 2024 (per la prima volta arrivano a toccare quasi il 10,8% del totale export) dà la misura dell’eventuale impatto innescato dalla guerra commerciale americana. E’ quanto emerso dalla presentazione di Valerio De Molli, managing partner e Ceo di Teha in occasione della conferenza stampa per la nona edizione del forum “La roadmap del futuro per il food & beverage: quali evoluzioni e quali sfide per i prossimi anni”, in programma a Bormio il 6 e 7 giugno, non scontano anche un altro fattore. In questo calcolo Teha ha considerato non solo la capacità delle imprese di assorbire un 25% di queste tariffe riducendo i margini, ma anche un fattore come la sostanziale anelasticità della domanda americana di beni italiani, vale a dire le modeste variazioni delle abitudini di acquisto a fronte di un aumento dei prezzi. Un fenomeno che accade in presenza di beni necessari o non sostituibili.



Per capire, quindi, l’impatto effettivo occorre partire dal fatto che gli Stati Uniti sono il secondo mercato di sbocco per le esportazioni agroalimentari italiane, dopo la Germania, con un valore che ha sfiorato gli 8 miliardi (7,8%) nel 2024, in crescita del 17,1% rispetto a un anno prima. Parliamo di una quota sul totale export agroalimentare tricolore pari all’11,6%. “Ipotizzando dazi al 20% oltre 6 miliardi di euro di made in Italy dei 7,8 complessivi esportati negli Usa non sono prodotti con alternative sul mercato domestico statunitense e perciò sostituibili – ragiona De Molli – ne deriva che il danno generato dai dazi, se confermati anche dopo la sospensione, potrebbe costare all’Italia solo potenzialmente 1,3 miliardi di euro, ma limitarsi, in realtà, a 300 milioni di euro”. Il possibile impatto dei dazi sull’export si concentra, secondo lo studio Teha, per il 77% su prodotti a bassa sostituibilità, che non hanno cioè alternative sul mercato. “Certamente – ha osservato De Molli – fra questi hanno un peso rilevante i prodotti Dop e Igp, in primo luogo il vino, ma ci sono anche conserve di pomodoro, pasta, salse e farine”. Il vino, che rappresenta il 32% dei prodotti a bassa sostituibilità, è la prima categoria di prodotto che arriva Oltreoceano con un valore di circa 2 miliari, seguito da pasta e farine (1,167 miliardi) e olio e grasi (1 mld). In generale il vino è il prodotto agroalimentare italiano più esportato con oltre 8 miliardi di euro di valore e una crescita del 5,5% nel solo 2024, seguono pasta e prodotti della panetteria che valgono 7,6 miliardi (+8,6% nell’ultimo anno). Secondo i dati elaborati da Teha, grassi e oli vegetali italiani (4,1 mld di export) e cioccolato (3,4) hanno fatto registrare le crescite più significative del 2024: rispettivamente +27,2% e +17,8%. In positivo anche i prodotti lattiero-caseari (+9,1% per 6,5 miliardi di export), la frutta (+8,3%, 3,9 miliardi) e i piatti pronti trasformati (+6,2%, 4,1 mld), mentre aumenti più contenuti sono stati rilevati per le bevande ad esclusione del vino (+5% per 4,2 miliardi), cibo per animali (+3,3%, 3,1 mld) oltre che frutta e vegetali trasformati che valgono oggi 6 miliardi all’estero, in linea (+0,7%) con il 2023.


L’unicità dei prodotti alimentari italiani, nel breve periodo potrebbe essere per De Molli un paracadute per le nostre esportazioni, limitando l’impatto dei dazi. Tuttavia occorre fare attenzione nel medio-lungo termine al clima di crescente incertezza, al rischio di inflazione sulle catene di fornitura globali e alla perdita di potere d’acquisto dei consumatori americani. Da qui l’importanza per le imprese italiane di lavorare alla ripresa dei consumi alimentari interni, con eventuali misure di sostengo al reddito per le fasce più deboli riducendo così il fenomeno della polarizzazione dei consumi alimentari.