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Turchia, Anghelone: “Era Erdogan non è finita, c’è pericolo di instabilità”

| Redazione StudioNews |

Turchia, Anghelone: “Era Erdogan non è finita, c’è pericolo di instabilità”Roma, 3 mag. (askanews) – Attenzione a parlare della fine di un’era, gli elementi di novità e di rischio nella tornata elettorale turca del 14 maggio sono tanti, ma per il capo di stato Recep Tayyip Erdogan non è ancora la parola fine e gli scenari di uno scrutinio al ballottaggio all’ultima scheda potrebbero creare una forte instabilità nel Paese che condizionerebbe anche l’intero quadrante del Mediterraneo e gli interessi di Europa e Stati uniti nell’area. A fare il quadro della situazione a 10 giorni dalle elezioni presidenziali e politiche in Turchia è Francesco Anghelone, coordinatore dell’Osservatorio sul Mediterraneo dell’Istituto di studi politici “S.Pio V” che parlando ad askanews ha spiegato quali sono le differenze rispetto al 2018, data della vittoria schiacciante del leader turco.

“I sondaggi ci dicono che i due candidati sono molto vicini. Starei molto attento a dire che è finita l’era di Erdogan, ma abbiamo un dato nuovo rispetto agli ultimi 20 anni, si tratta di elezioni contese”, spiega parlando dell’attuale situazione che vede il capo di stato uscente leggermente sotto lo sfidante Kemal Kilicdaroglu, candidato della coalizione di opposizione. “Sia con il vecchio sistema elettorale con la candidatura a capo del governo sia con l’attuale, con l’elezione diretta del presidente che dà al capo di stato un potere assoluto, dal 2018, Erdogan non ha mai vissuto elezioni realmente contese. Basta pensare che nel 2018 vinse al primo turno con il 52%. Inoltre, per la prima volta le opposizioni si sono presentate con un candidato unico”, sottolinea Anghelone. Nonostante l’Alleanza nazionale sia eterogenea, “tema che è stato portato come elemento di debolezza della coalizione”, al suo interno si trovano figure come “Alì Babacan, che è stato ministro delle Finanze con il capo di Stato in carica, o Ahmet Davutoglu, ex ministro degli Esteri e premier, che da studioso con il suo volume sulla ‘profondità strategica turca’ è stato il teorico della ivoluzione della politica estera turca, definita neo-ottomana. Si tratta di due figure che hanno preso le distanze dall’Akp ma che sono state molto legate a Erdogan”, aggiunge l’esperto.

“L’altro elemento importante e di novità è il sostegno del partito dei curdi, l’Hdp, per Kilicdaroglu, non era scontato – prosegue – questi fattori messi uno a fianco all’altro rendono evidente come la stretta autoritaria che ha messo in campo Erdogan, con un’accelerazione dopo il tentato golpe del 2016, abbia veramente fratturato il Paese in due parti e abbia determinato uno scontento profondo, una lotta tra il bene e il male. E per la prima volta Erdogan rischia, perché affronta un fronte compatto in una congiuntura economica sfavorevole”. Per Anghelone, infatti, non bisogna sottovalutare neppure il forte malcontento interno che si focalizza sul crollo del potere di acquisto e sull’inflazione e sulla gestione del sisma: “Fino al 2013-14, Erdogan ha goduto di dati economici molto buoni, con il reddito pro capite in costante aumento, adesso la situazione è opposta, l’inflazione è vicina al 100%. Per quanto riguarda i devastanti terremoti di febbraio, ci sono vari elementi da considerare: da una parte una buona fetta dell’elettorato del capo di stato turco e del suo partito, l’Akp, si trova in quelle zone dove la situazione è caotica e non si sa nemmeno se si riuscirà a votare. Dall’altro, Erdogan paga soprattutto la cattiva gestione dei soccorsi e le falle dell’edilizia, uno dei motori della crescita economica. I governi Akp hanno spesso chiuso un occhio se non entrambi sul rispetto delle norme antisismiche che se applicate avrebbero forse evitato le decine di migliaia di morti”.

C’è poi un ulteriore elemento di novità, i circa sei milioni di neo-elettori che si recheranno per la prima volta alle urne: “E’ difficile dire se voteranno per gli altri candidati soltanto come reazione e voglia di cambiamento rispetto alla politica conservatrice degli ultimi 20 anni. Come è anche alta la percentuale di indecisi tra i giovani”, sottolinea Anghelone. Esaminate le novità rispetto alle passate elezioni, tenendo presente la possibilità di un ballottaggio con un margine di vittoria esiguo, “si aprono diversi scenari”, tra cui l’eventualità che “Erdogan ripeta quello che è stato fatto nel 2019 a Istanbul, richiedendo il conteggio delle schede e creando tensione forte e instabilità”. Una situazione pericolosa “dato il modo autoritario con cui governa la Turchia da anni, l’ondata di arresti dopo il 2016 che hanno colpito il settore dei media e degli accademici, la società civile e le ong”.

“Perdere il potere per Erdogan non sarebbe solo una sconfitta politica, i rischi sarebbero molti, anche per la sua famiglia, a causa dei poco indagati interessi economici costruiti in questi anni. Il capo di Stato turco potrebbe decidere di arroccarsi con un grave timore per questo comporterebbe per la tenuta delle istituzioni turche: in un Paese così spaccato gli esiti potrebbero essere disatrosi” sia all’interno che all’estero. “La vittoria di Erdogan con un margine risicato o con un Paese instabile sarebbe un elemento di debolezza anche per il quadrante del Mediterraneo orientale e per gli interessi di Europa, Stati uniti e Nato nell’area. Se prevalesse invece Kilicdaroglu, che ha dato un segnale chiaro di rottura nell’impostazione di potenza regionale autonoma per Ankara, la postura turca sarebbe diversa, più forte e cruciale per gli alleati occidentali in un contesto di nuova polarizzazione mondiale, con la Cina sempre più attiva in Africa e la Russia nel Sahel e in Libia”. (di Daniela Mogavero)