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Spazio: Vega-C pronto al decollo, a bordo il satellite Sentinel 1-C

Spazio: Vega-C pronto al decollo, a bordo il satellite Sentinel 1-CRoma, 2 dic. (askanews) – Tutto pronto per il lancio del satellite Sentinel 1-C del programma europeo Copernicus a bordo del razzo Vega-C. Il lift-off è in programma mercoledì 4 dicembre alle 22.20 ora italiana dalla base di Kourou in Guyana francese. Una volta in orbita, Sentinel-1C amplierà l’eredità della missione Sentinel-1, fornendo immagini radar per monitorare l’ambiente terrestre in continua evoluzione e supportare un’ampia gamma di applicazioni e ricerche scientifiche.


Il lancio segnerà il ritorno al volo di Vega-C, il razzo europeo leggero e ad alte prestazioni realizzato dall’italiana Avio, dopo il fallimento nel dicembre 2022 della missione a causa di un problema all’ugello del suo motore Zefiro-40. Da allora, – spiega l’Esa – è stato progettato e costruito un ugello migliorato e lo stadio completo Zefiro-40 ha superato con successo due test di accensione. La missione Sentinel-1, la prima della famiglia Copernicus, si basa su una costellazione di due satelliti identici che volano sulla stessa orbita ma a 180° di distanza l’uno dall’altro, per ottimizzare la copertura globale e la trasmissione dei dati per Copernicus, la componente di osservazione della Terra del programma spaziale dell’UE. Sentinel-1A è stato il primo satellite della serie, lanciato nell’aprile 2014, seguito dal lancio di Sentinel-1B nel 2016. La missione Sentinel-1B si è conclusa nell’agosto 2022 dopo aver riscontrato un guasto tecnico che lo ha reso incapace di acquisire dati. Il satellite è stato deorbitato con successo e rientrerà nell’atmosfera terrestre entro 25 anni.


Sentinel-1C, insieme al suo gemello Sentinel-1A, riporterà la missione al suo pieno potenziale come costellazione di due satelliti. Sentinel-1A dovrebbe poi essere sostituito da Sentinel-1D, attualmente in fase di test presso la struttura di Thales Alenia Space a Cannes, più avanti l’anno prossimo. Sentinel-1C, come Sentinel-1D, peserà 2,2 tonnellate metriche al lancio e sarà posizionato in un’orbita terrestre bassa a 700 chilometri. Ogni satellite della serie Sentinel-1, incluso Sentinel-1C, è basato sulla piattaforma spaziale PRIMA sviluppata da Thales Alenia Space per l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). In qualità di primo contraente industriale di Sentinel-1, Thales Alenia Space è responsabile della progettazione, sviluppo, integrazione e collaudo dei satelliti. L’azienda fornisce anche tecnologie come i moduli trasmetti/ricevitori (T/R) e l’elettronica di front-end per il radar ad apertura sintetica (SAR) in banda C, sistemi avanzati di gestione dati, sottosistemi di trasmissione e il computer di bordo. Questi moduli T/R e l’elettronica di front-end costituiscono il nucleo del SAR in banda C sviluppato da Airbus Defence & Space.


Come missione radar avanzata, Copernicus Sentinel-1 può riprendere la superficie della Terra attraverso nuvole e pioggia e indipendentemente dal fatto che sia giorno o notte. Sentinel-1 trasporta uno strumento radar ad apertura sintetica (SAR) in banda C, che gli consente di catturare immagini ad alta risoluzione della superficie terrestre. Questo potente sistema radar funziona in diverse modalità, tra cui ampia fascia e alta risoluzione, fornendo dati dettagliati sulla subsidenza del territorio, sui movimenti dei ghiacci e sulle condizioni dell’oceano. Il nuovo satellite Sentinel-1C trasporterà anche un nuovo sistema di identificazione automatica (AIS). Sviluppato dall’Organizzazione marittima internazionale, questo sistema è progettato per aiutare le navi a evitare collisioni, in particolare quando sono troppo lontane dai sistemi radar terrestri. Questa tecnologia assegna un ID univoco a ciascuna imbarcazione e ne traccia la posizione e i movimenti in tempo reale, creando una mappa virtuale delle navi in mare.


(CREDIT: ESA – P. Carril)

Esa: pronta al lancio Proba-3, creerà eclissi di Sole artificiali

Esa: pronta al lancio Proba-3, creerà eclissi di Sole artificialiRoma, 2 dic. (askanews) – La missione di volo in formazione dell’Agenzia spaziale europea per realizzare eclissi di Sole artificiali è pronta per il decollo. Il lancio di Proba-3 è previsto su un razzo PSLV-XL dal Satish Dhawan Space Centre di Sriharikota, India, mercoledì 4 dicembre alle 11.38 ora italiana. La separazione dei satelliti è prevista circa 18 minuti dopo il decollo, mentre la prima acquisizione del segnale da parte del team di controllo di volo presso lo stabilimento ESEC dell’Esa a Redu, in Belgio, è prevista circa un quarto d’ora dopo.


Proba-3 – missione a cui l’Italia partecipa anche attraverso l’Istituto nazionale di astrofisica-Inaf (finanziato tramite la partecipazione dell’Asi al programma Esa di “Supporto Tecnologico”), Leonardo e Aviotec – è costituita da due veicoli spaziali lanciati contemporaneamente che, in orbita, si separeranno per iniziare a volare in formazione con una precisione millimetrica. La coppia si allineerà precisamente con il Sole a 150 metri di distanza, in modo che uno proietti un’ombra controllata con precisione sull’altro. Bloccando il disco infuocato del Sole, la sonda spaziale ‘Occulter’ di Proba-3 imiterà un’eclissi solare totale terrestre, per aprire la vista della debole atmosfera circostante del Sole, o ‘corona’, che è un milione di volte più debole della sua stella madre. La seconda sonda spaziale ‘Coronagraph’ di Proba-3 ospita lo strumento ottico che osserverà la corona solare. Sulla Terra, le eclissi solari totali si verificano in media solo ogni 18 mesi e durano solo pochi minuti. Proba-3 – spiega l’Esa – sarà in grado di creare eclissi solari su richiesta, osservando più vicino al bordo del Sole rispetto a qualsiasi altro strumento precedente basato sulla Terra o nello spazio per un massimo di sei ore durante ogni orbita di circa 19 ore intorno alla Terra.


Proba-3 eseguirà anche esperimenti di volo in formazione generale, tra cui rendezvous, ridimensionamento della distanza tra la coppia e ritargettizzazione congiunta. L’obiettivo è raggiungere prestazioni equivalenti a un singolo veicolo spaziale virtuale di circa 150 metri di diametro, dimostrando un nuovo metodo di gestione delle missioni nello spazio, in cui gli strumenti possono essere condivisi tra più piattaforme. Il lanciatore indiano PSLV-XL a quattro stadi è stato scelto per le sue elevate prestazioni, abbinate a un prezzo adeguato per una missione dimostrativa tecnologica con un budget limitato. Si tratta della prima volta che una missione Esa utilizza un lanciatore ISRO (Organizzazione Indiana per la Ricerca Spaziale) dai tempi della missione di osservazione della Terra Proba-1 del 2001.


(CREDIT: ESA-P. Carril)

Esa, da Solar Orbiter nuove immagini ad alta risoluzione del Sole

Esa, da Solar Orbiter nuove immagini ad alta risoluzione del SoleRoma, 20 nov. (askanews) – Da Solar Orbiter quattro nuove spettacolari immagini del Sole, frutto delle osservazioni ad alta risoluzione degli strumenti PHI (Polarimetric and Helioseismic Imager) e EUI (Extreme Ultraviolet Imager) a bordo della missione frutto della collaborazione tra l’Agenzia spaziale europea e la Nasa.


La missione Solar Orbiter. guidata dall’Esa, osserva il Sole con non meno di sei strumenti di imaging che insieme consentono di rivelarne i molteplici volti e oggi rivela le viste complete della superficie visibile del Sole (fotosfera) con la più alta risoluzione. Sono assemblate da immagini realizzate dal PHI della sonda spaziale, strumento che non solo scatta immagini in luce visibile, ma misura anche la direzione del campo magnetico e mappa la velocità e la direzione in cui si muovono diverse parti della superficie. Le misurazioni della fotosfera effettuate da PHI possono essere direttamente confrontate con una nuova immagine dell’atmosfera esterna del Sole (la corona), ottenuta da immagini ad alta risoluzione scattate dallo strumento EUI lo stesso giorno, il 22 marzo 2023, nella luce ultravioletta. “Il campo magnetico del Sole è fondamentale per comprendere la natura dinamica della nostra stella, dalle scale più piccole a quelle più grandi. Queste nuove mappe ad alta risoluzione dello strumento PHI del Solar Orbiter mostrano la bellezza del campo magnetico superficiale del Sole e i suoi flussi in grande dettaglio. Allo stesso tempo, sono fondamentali per dedurre il campo magnetico nella corona calda del Sole, che il nostro strumento EUI sta riproducendo”, osserva Daniel Müller, Project Scientist del Solar Orbiter.


Nell’immagine dettagliata della luce visibile di PHI – segnala l’Esa – si scopre la “superficie” del Sole per quello che è: plasma incandescente e caldo in continuo movimento. Quasi tutta la radiazione del Sole viene emessa da questo strato, che ha una temperatura compresa tra 4500 e 6000°C. Al di sotto, il plasma caldo e denso viene agitato nella “zona convettiva” del Sole, non diversamente dal magma nel mantello terrestre. Come risultato di questo movimento, la superficie del Sole assume un aspetto granuloso. Tuttavia, le caratteristiche più sorprendenti nelle immagini sono le macchie solari. Nell’immagine a luce visibile, queste sembrano macchie scure, o buchi, nella superficie altrimenti liscia. Le macchie solari sono regioni in cui il campo magnetico del Sole irrompe. Ciò inibisce la convezione del plasma perché le particelle cariche sono costrette a seguire il campo magnetico anziché seguire il flusso convettivo di miscelazione del calore. Di conseguenza, le macchie solari sono più fredde dell’ambiente circostante e trasmettono meno luce. La seconda immagine offre una mappa magnetica del Sole, la terza una mappa del movimento della superficie del Sole e l’ultima un’immagine del Sole in luce ultravioletta. Le immagini sono state scattate quando il Solar Orbiter era a meno di 74 milioni di chilometri dal Sole. Essendo così vicino al Sole, ogni immagine ad alta risoluzione scattata da PHI ed EUI copre solo una piccola porzione del Sole. Dopo che ogni singola immagine è stata scattata, la navicella spaziale ha dovuto essere inclinata e ruotata finché ogni parte della faccia del Sole non è stata ripresa. Per ottenere le immagini full-disk presentate – visibili sul sito dell’Esa – tutte le immagini sono state cucite insieme come un mosaico.


(Credit: ESA & NASA/Solar Orbiter/PHI Team)

In Mesopotamia scoperti i resti dei più antichi antenati del bue

In Mesopotamia scoperti i resti dei più antichi antenati del bueRoma, 14 nov. (askanews) – I più antichi antenati del bue domestico sono stati scoperti nella valle dell’Indo e nella mezzaluna fertile in Mesopotamia: si tratta di resti di uro (Bos primigenius) risalenti a circa 10mila anni fa. La ricerca pubblicata sulla rivista “Nature” e condotta dal Trinity College di Dublino e dall’Università di Copenaghen, ha coinvolto Luca Pandolfi, paleontologo del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, che da tempo si occupa dell’evoluzione e dell’estinzione dei grandi mammiferi continentali anche in relazione ai cambiamenti climatici.


Gli uri addomesticati – informa Unipi – erano animali abbastanza simili a quelli selvatici, ma un po’ più piccoli, soprattutto con corna meno sviluppate ad indicare una maggiore mansuetudine. Giulio Cesare nel De Bello Gallico (De Bello Gallico, 6-28) descrive infatti l’uro selvatico come un animale di dimensioni di poco inferiori all’elefante, veloce e di natura particolarmente aggressiva. Dai resti fossili emerge che gli uri selvatici potevano raggiungere un’altezza di poco meno di due metri, i 1000 kg di peso ed avere corna lunghe più di un metro. La loro presenza ha dominato le faune dell’Eurasia e del Nord Africa a partire da circa 650 mila anni fa, per poi subire un forte declino dalla fine del Pleistocene, circa 11mila anni fa, fino alla sua estinzione in età moderna. L’ultimo esemplare di cui si ha notizia fu abbattuto il Polonia nel 1627. “Lo studio su Nature ha analizzato per la prima volta questa specie per comprenderne la storia evolutiva e genetica attraverso resti fossili rinvenuti in diversi di siti in Eurasia, Italia inclusa, e Nord Africa”, dice Luca Pandolfi.


Dai reperti, che includono scheletri completi e crani ben conservati, sono stati estratti campioni di DNA antico. La loro analisi ha quindi permesso di individuare quattro popolazioni ancestrali distinte che hanno risposto in modo diverso ai cambiamenti climatici e all’interazione con l’uomo. Gli uri europei, in particolare, subirono una diminuzione drastica sia in termini di popolazione che di diversità genetica durante l’ultima era glaciale, circa 20 mila anni fa. La diminuzione delle temperature ridusse infatti il loro habitat spingendoli verso la Penisola Italiana e quella Iberica da cui successivamente ricolonizzarono l’intera Europa. “Nel corso del Quaternario, epoca che va da 2 milioni e mezzo di anni fa sino ad oggi, l’uro è stato protagonista degli ecosistemi del passato, contraendo ed espandendo il proprio habitat in relazione alle vicissitudine climatiche che hanno caratterizzato questo periodo di tempo – conclude Pandolfi – le ossa di questi maestosi animali raccontano ai paleontologi la storia del successo, adattamento e declino, di una specie di cui noi stessi abbiamo concorso all’estinzione e rivelano la complessità e fragilità delle relazioni che legano gli organismi viventi al clima del nostro Pianeta”.


(Credit foto: L. Pandolfi)

Enea: l’IA per studiare impatto del cambiamento climatico sul suolo

Enea: l’IA per studiare impatto del cambiamento climatico sul suoloRoma, 24 ott. (askanews) – Studiare l’impatto dei cambiamenti climatici sulla salute del suolo grazie all’intelligenza artificiale (AI). È l’obiettivo di una ricerca condotta da ENEA e Università degli Studi di Bari, di cui sulla rivista “Machine Learning and Knowledge Extraction sono stati pubblicati” i primi risultati che aprono nuove prospettive per la gestione sostenibile del suolo, la tutela dell’ambiente e la sicurezza alimentare.


“Le tecniche di machine learning che abbiamo usato ci hanno permesso di identificare una delle principali ‘sentinelle’ della salute del terreno, il microbioma, vale a dire l’insieme di batteri, funghi e protisti che popolano il terreno e giocano un ruolo cruciale nella dinamica del carbonio nel suolo in risposta al cambiamento climatico”, spiega Claudia Zoani, ricercatrice della Divisione ENEA Sistemi agroalimentari sostenibili e coautrice dello studio, insieme al gruppo di lavoro dell’Università degli Studi di Bari coordinato dalla professoressa Sabina Tangaro. “Questa scoperta – prosegue la ricercatrice ENEA – potrebbe avere importanti implicazioni per la mitigazione dei cambiamenti climatici e la gestione sostenibile del suolo”. Il cambiamento climatico – si legge nella notizia che apre il numero odierno del settimanale ENDEAinform@ – altera i regimi di temperatura e le precipitazioni, influenzando direttamente la temperatura del suolo e la disponibilità di acqua. Questi cambiamenti modificano la distribuzione delle comunità microbiche nel suolo e, di conseguenza, i processi di decomposizione della materia organica. “L’aumento delle temperature accelera i processi di decomposizione del microbioma, incrementando la quantità di gas serra emessi in atmosfera, come l’anidride carbonica e il metano. Il risultato è un peggioramento della qualità del suolo che mette a rischio la produzione agricola e la sicurezza alimentare di milioni di persone nel mondo”, sottolinea Zoani.


Il valore che misura l’aumento dell’attività dei microrganismi nel suolo quando la temperatura sale di 10°C si chiama Q10 e, nello specifico, indica la sensibilità della respirazione microbica alle variazioni di temperatura. Quando la temperatura del suolo aumenta, i microrganismi tendono a lavorare più velocemente e a produrre più anidride carbonica (CO2) che sarà rilasciata in atmosfera. Conoscere questo valore dell’attività del microbioma diventa importante per prevedere come il ciclo del carbonio nel suolo risponderà al riscaldamento globale. E, in questo contesto, “l’intelligenza artificiale può giocare un ruolo fondamentale perché offre strumenti molto efficaci per analizzare dati complessi, fare previsioni e sviluppare soluzioni innovative per mitigare gli effetti del cambiamento climatico e adottare pratiche agricole sostenibili che promuovano la produzione alimentare nel lungo termine”, conclude la professoressa Tangaro.

Thales Alenia Space fornirà strumenti radar per missione ESA Harmony

Thales Alenia Space fornirà strumenti radar per missione ESA HarmonyRoma, 15 ott. (askanews) – Thales Alenia Space, una joint venture tra Thales (67%) e Leonardo (33%), ha firmato un contratto con OHB per lo sviluppo di due strumenti radar ad apertura sintetica (SAR) per l’osservazione della Terra che saranno imbarcati sulla costellazione di due satelliti Harmony, la decima missione Earth Explorer dell’ESA che dovrebbe essere lanciata a bordo di un razzo Vega-C entro il 2029.


Thales Alenia Space – informa una nota – sarà alla guida di un consorzio industriale europeo diversificato per progettare, sviluppare e validare gli strumenti SAR in banda C e sarà anche responsabile dell’elettronica digitale in banda C e delle antenne che saranno imbarcate su entrambi i satelliti Harmony. “Questo contratto conferma l’esperienza consolidata e riconosciuta di Thales Alenia Space nella produzione di satelliti per l’osservazione della Terra basati sulla tecnologia radar – ha dichiarato Giampiero Di Paolo, Amministratore Delegato di Thales Alenia Space Italia – Lo sviluppo dei due strumenti radar consentirà a Thales Alenia Space di compiere un significativo passo avanti dal punto di vista tecnologico e dell’architettura, migliorando la competitività dei prodotti SAR sia nel mercato istituzionale che in quello commerciale dell’osservazione della Terra”.


Thales Alenia Space ha svolto un ruolo chiave nel settore nella fase preparatoria di Harmony, supportando l’ESA nella definizione di una soluzione ad alte prestazioni in grado di soddisfare pienamente gli obiettivi scientifici della missione, sviluppando in parallelo tutte le tecnologie abilitanti SAR pertinenti. Le missioni Earth Explorer formano l’elemento scientifico e di ricerca del programma FutureEO di osservazione della Terra dell’ESA. Restituendo dati critici per comprendere il pianeta e prevedere cosa ci attende, gli Earth Explorers sono fondamentali per avanzare nella scienza e, successivamente, per ripristinare l’equilibrio ambientale per un futuro sostenibile. Ognuna di queste straordinarie missioni porta con sé tecnologie spaziali innovative, dimostrando come nuove tecniche possano restituire una sorprendente ricchezza di risultati scientifici sul nostro pianeta.


Unitamente a Sentinel-1, Harmony promette di fornire un patrimonio di dati unici sulle interazioni oceano-ghiaccio-atmosfera a una risoluzione senza precedenti, per una maggiore comprensione degli scambi termici dello strato superiore degli oceani, dei fattori che determinano i fenomeni meteorologici estremi e degli impatti a lungo termine dei cambiamenti climatici. La missione getterà anche nuova luce sulle dinamiche di deformazione e di flusso ai margini delle calotte glaciali in rapida evoluzione, per una migliore comprensione dell’innalzamento del livello dei mari. Inoltre, Harmony misurerà i piccoli cambiamenti della forma del terreno causati da terremoti e attività vulcaniche, contribuendo così al monitoraggio dei rischi.


La missione Harmony consiste in due satelliti radar ad apertura sintetica (SAR) passivi bistatici per sola ricezione, potenziati da un payload ottico a infrarosso termico (TIR), che volano in formazione libera con Sentinel-1. L’utilizzo di Sentinel-1 come illuminatore di opportunità e potenziando le sue osservazioni con una configurazione multistatica per la misurazione diretta delle velocità superficiali apporterà un contributo altamente innovativo alle capacità di osservazione della Terra. (Credit: ESA)

Telespazio, contratto con Esa da 123 mln per programma Moonlight

Telespazio, contratto con Esa da 123 mln per programma MoonlightRoma, 15 ott. (askanews) – Telespazio, joint venture tra Leonardo (67%) e Thales (33%), ha firmato oggi a Milano un contratto con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), del valore di 123 milioni di euro, per la realizzazione della prima fase del programma Moonlight.


Alla guida di un consorzio di aziende europee, Telespazio gestirà lo sviluppo di una costellazione di satelliti dedicati a fornire servizi di navigazione e comunicazione per le future missioni lunari. Il consorzio – informa una nota – è formato da Telespazio quale prime contractor e responsabile del sistema complessivo e da un pool di aziende che comprende Hispasat, Viasat, Thales Alenia Space Italia, SSTL, Qascom, MDA, KSat, Telespazio UK, Telespazio Iberica, SDA Bocconi, PLIMI, CRAS e SI per il disegno, la realizzazione e la qualifica operativa del sistema. Posizionata in orbita cislunare, l’infrastruttura di Moonlight farà leva sull’avanzata tecnologia sviluppata dall’industria europea per la navigazione e le comunicazioni, ottimizzata per fornire connettività affidabile e posizionamento accurato anche nell’ambiente lunare. Questi servizi saranno fondamentali per garantire un’esplorazione sicura della superficie lunare, offrendo un monitoraggio continuo delle attività dalla Terra e migliorando la gestione operativa delle missioni.


Il programma Moonlight punta a fornire servizi di comunicazione e navigazione sia alle missioni istituzionali dell’Agenzia Spaziale Europea e di altre agenzie spaziali, sia agli utenti commerciali, contribuendo così alla creazione di una solida economia lunare. Inoltre, l’interoperabilità con LunaNet, uno standard condiviso tra le principali agenzie spaziali internazionali, garantirà la cooperazione tra vari fornitori di servizi, aumentando l’affidabilità dell’intero sistema. L’infrastruttura di Moonlight si articolerà su tre segmenti chiave: il Lunar Space Segment, che comprende i satelliti in orbita lunare destinati a fornire servizi di comunicazione, navigazione e sincronizzazione temporale; il Lunar Earth Ground Segment, che include le stazioni di controllo e le infrastrutture terrestri necessarie per l’erogazione del servizio e per la gestione delle attività operative, e il Lunar User Segment, composto dai terminali necessari per la validazione del servizio una volta in orbita la costellazione. Essendo il sistema basato su standard internazionali definiti da NASA, ESA e JAXA, il sistema supporterà i terminali lunari di navigazione e comunicazione aderenti allo standard.


La configurazione iniziale prevede un satellite dedicato alle comunicazioni e quattro per la navigazione, con l’obiettivo di garantire un’ampia copertura del Polo Sud lunare, area cruciale per le future missioni esplorative. L’architettura è stata sviluppata tenendo conto delle esigenze degli utenti e dei requisiti stabiliti dall’ESA, e prevede un piano di implementazione progressiva con il dispiegamento della costellazione in due fasi. “Il programma Moonlight rappresenta molto più di un’infrastruttura tecnologica per le missioni lunari,” ha dichiarato Gabriele Pieralli, Amministratore delegato di Telespazio. “Telespazio è orgogliosa di essere stata selezionata dall’Agenzia Spaziale Europea come azienda leader di Moonlight. Questo progetto segna un passo decisivo verso una nuova era dell’esplorazione spaziale, in cui la capacità di fornire servizi di comunicazione e navigazione affidabili sulla Luna diventerà il pilastro delle future economie extraterrestri. Alla guida di un prestigioso team paneuropeo, Telespazio è impegnata a creare le condizioni per una presenza stabile e sicura sulla Luna, aprendo al contempo nuove straordinarie opportunità commerciali per l’Europa nello spazio cislunare. Siamo convinti che la partecipazione di aziende provenienti dai diversi Paesi membri dell’ESA rafforzerà l’interesse e il sostegno al programma, soprattutto in vista della Conferenza Ministeriale del 2025. Siamo fieri di svolgere un ruolo cruciale in un programma che non solo rappresenterà una pietra miliare nelle sfide spaziali presenti e future, ma sarà anche un elemento chiave per promuovere sinergie tra l’ESA e le altre agenzie spaziali internazionali”.


“L’ESA sta compiendo un passo fondamentale per sostenere il futuro mercato commerciale lunare, nonché le missioni lunari in corso e future. Siamo estremamente orgogliosi di lavorare con l’industria e gli Stati membri per garantire che le nostre capacità tecnologiche possano sostenere e promuovere la cooperazione sulla Luna con i nostri partner internazionali”, ha dichiarato Josef Aschbacher, Direttore generale dell’ESA.

Con Europa Clipper a caccia di vita sulla luna ghiacciata di Giove

Con Europa Clipper a caccia di vita sulla luna ghiacciata di GioveRoma, 14 ott. (askanews) – Nelle profondità di un oceano sotto il suo guscio di ghiaccio, la luna di Giove Europa potrebbe essere temperata e ricca di sostanze nutritive, un ambiente ideale per qualche forma di vita, ciò che gli scienziati chiamerebbero “abitabile”. È quello che punta a scoprire la missione della Nasa Europa Clipper, il cui lancio è in programma oggi pomeriggio, alle 18.06 ora italiana, dal Launch Complex 39A del Kennedy Space Center della Nasa in Florida a bordo di un razzo SpaceX Falcon Heavy.


La navicella arriverà nell’orbita di Giove nel 2030 dopo aver percorso circa 2,9 miliardi di chilometri. L’orbita allungata e circolare di Europa Clipper attorno a Giove – spiega l’agenzia spaziale statunitense – ridurrà al minimo l’esposizione della sonda a radiazioni intense, consentendole al contempo di immergersi per passaggi ravvicinati di Europa. Utilizzando una formidabile serie di strumenti per ciascuno dei 49 sorvoli della missione, spingendosi fino a 25 chilometri dalla superficie, gli scienziati saranno in grado di “vedere” quanto è spesso il guscio ghiacciato della luna e di acquisire una comprensione più approfondita del vasto oceano sottostante. Faranno l’inventario del materiale sulla superficie che potrebbe essere emerso dal basso, cercheranno le impronte dei composti organici che formano i mattoni della vita e campioneranno tutti i gas espulsi dalla luna per provarne l’eventuale l’abitabilità.


Gli scienziati della missione analizzeranno i risultati, sondando la superficie ghiacciata della luna alla ricerca di tracce di un mondo acquatico in grado di sostenere la vita. (Credits: NASA/JPL-Caltech)

Un osservatorio nel Mar Ionio per captare i suoni dagli abissi

Un osservatorio nel Mar Ionio per captare i suoni dagli abissiRoma, 14 ott. (askanews) – Una stazione sismo-acustica ad alta sensibilità realizzata da un gruppo multidisciplinare di ricercatori e ricercatrici dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è stata appena deposta a 3.500 metri di profondità nella piana abissale del Mar Ionio, 80 chilometri a sud-est di Portopalo di Capo Passero (Siracusa). La stazione sta già acquisendo i suoni e i rumori che si propagano nelle profondità del mare, fornendo preziose informazioni sull’impatto ambientale che tali onde acustiche producono.


I dati acquisiti sono inviati in tempo reale ai server di elaborazione dell’INGV ospitati presso il Centro di elaborazione dati della sede operativa dell’INFN a Portopalo di Capo Passero, attraverso un cavo elettro-ottico sottomarino lungo circa 100 chilometri. La stazione, realizzata nell’ambito del PON Marine Hazard – “Fondo per lo Sviluppo e la Coesione” relativo alla programmazione 2014-2020, che prevedeva la realizzazione di un prototipo funzionante, grazie al lavoro del gruppo di ricerca coinvolto ha superato gli obiettivi iniziali – informa una nota – ed è stata già collegata con successo alla grande infrastruttura sottomarina KM3NeT/ARCA, il più grande telescopio abissale per neutrini nel Mar Mediterraneo.


“La deposizione di un’infrastruttura di tale portata rappresenta un grande successo, ponendo le basi per l’esplorazione in continuo di ambienti considerati inaccessibili fino a pochi anni fa, con caratteristiche uniche nel loro genere”, commenta Sergio Scirè Scappuzzo, responsabile scientifico del progetto “Marine Hazard” per l’INGV. Gianluca Lazzaro, tecnologo dell’INGV impegnato nelle attività di sviluppo e integrazione della strumentazione scientifica, aggiunge: “Questa impresa è frutto di una sinergia multidisciplinare e il suo successo dà ulteriore valore alla collaborazione scientifica e tecnologica tra INGV e INFN ed enfatizza l’importanza della cooperazione tra infrastrutture di ricerca europee, considerato anche il supporto che abbiamo ricevuto dalla ERIC EMSO”. Le Sedi coinvolte nel progetto sono, per l’INFN, i Laboratori Nazionali del Sud (INFN-LNS), la Sezione di Bari (INFN-BA) e la Sezione di Roma (INFN-RM1), mentre, per l’INGV, la Sezione di Palermo. Per realizzare questo sofisticato osservatorio scientifico, i ricercatori dell’INGV di Palermo hanno installato sulla stazione un sensore in grado di rilevare sia la conducibilità e la temperatura delle masse d’acqua, sia la pressione della colonna d’acqua sovrastante, nonché un idrofono orientato allo studio delle basse frequenze delle onde acustiche e un sismometro marino ad alta sensibilità. I ricercatori dell’INFN-LNS, invece, hanno progettato e realizzato la struttura della stazione, insieme all’elettronica di controllo e trasmissione dati, nonché i contenitori a tenuta stagna per ospitare l’elettronica, resistenti alle alte pressioni.


“L’installazione di questa stazione rafforza i già solidi legami tra l’INFN e l’INGV e sottolinea il rapporto di piena interazione tra i due Istituti di ricerca, oltre a fornire ulteriore valore multidisciplinare all’eccellenza scientifica rappresentata dall’infrastruttura KM3NeT/IDMAR”, dichiarano Simone Biagi, Site Manager di KM3NeT/ARCA, e Angelo Orlando, coordinatore tecnico del progetto della stazione. Grazie all’impiego di tecnologie e competenze avanzate, questa strumentazione – concludono gli istituti coinvolti – proietta la ricerca verso lo studio a lungo termine delle aree più profonde di mari e oceani, altrimenti scarsamente osservati. Ciò a favore della coesione di una comunità scientifica europea, che metta a fattor comune le proprie risorse e competenze, fungendo anche da volano per il trasferimento di conoscenze e tecnologie alle imprese italiane.

In Perù si scava per portare alla luce cetaceo vissuto 40 mln anni fa

In Perù si scava per portare alla luce cetaceo vissuto 40 mln anni faRoma, 11 ott. (askanews) – Nuova spedizione dei paleontologi dell’Università di Pisa nel deserto di Ica, in Perù, per ampliare lo scavo dove, nel 2023, è stato ritrovato parte dello scheletro di Perucetus colossus, il cetaceo vissuto circa 40 milioni di anni fa, che si stima possa essere stato l’animale più pesante mai esistito sulla Terra.


Grazie all’uso di un grande escavatore, i ricercatori – informa Unipi – hanno potuto espandere significativamente l’area di ricerca: partendo dall’alto, sono stati rimossi parecchi metri cubi di roccia dalla collina, fino a giungere a circa un metro al di sopra dello strato fossilifero. In questo modo è stato creato un ampio terrazzo sul quale i paleontologi peruviani potranno lavorare con maggiore facilità, rimuovendo con martelli pneumatici gli strati di roccia che ancora celano il resto dello scheletro, incluso – si spera – il cranio. Alla spedizione, svolta nell’ambito del progetto ProArcheo cofinanziato dall’Università di Pisa, hanno partecipato il professor Giovanni Bianucci, coordinatore del progetto, e altri paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa (il professor Alberto Collareta, la dottoressa Giulia Bosio e il dottorando Francesco Nobile), insieme a geologi e micropaleontologi delle Università di Camerino e Milano Bicocca. Parte delle ricerche è stata svolta nell’ambito di un progetto PRIN coordinato da Alberto Collareta.


Lo scorso anno, il ritrovamento dei resti del gigantesco mammifero aveva suscitato un grande clamore mediatico a livello mondiale, al punto da venir considerato una delle tre scoperte scientifiche più straordinarie del 2023. Perucetus aveva catturato l’attenzione non solo per le sue imponenti dimensioni – si stima che potesse raggiungere i 20 metri di lunghezza – ma soprattutto perché potrebbe rappresentare l’animale più pesante mai esistito sulla Terra. La sua massa è stata infatti stimata poter raggiungere le 340 tonnellate, quasi il doppio di quella della più grande balenottera azzurra. I risultati dello studio del fossile erano stati pubblicati sulla rivista Nature. “I precedenti scavi, andati avanti per oltre dieci anni, – spiega Bianucci – erano stati fortemente ostacolati dalle condizioni proibitive del sito. Il fossile era infatti parzialmente sepolto in una collina situata in una delle zone più inaccessibili e inospitali del deserto di Ica e la roccia che conteneva il fossile era estremamente dura. L’utilizzo dello scavatore – continua Bianucci – è stata pertanto una soluzione estrema dettata dall’eccezionale importanza del reperto e dall’impossibilità di procedere lo scavo con i mezzi tradizionali. Quando si recuperano i reperti fossili si fa infatti molta attenzione a limitare il più possibile l’impatto su queste aree desertiche, ancora incontaminate dall’uomo”.


“La frammentarietà dello scheletro ritrovato (composto da 13 vertebre, 4 costole e parte del bacino) – spiega Collareta – ha lasciato molti interrogativi aperti su vari aspetti della morfologia e dell’ecologia di Perucetus. In particolare, l’assenza del cranio e dei denti consente solo ipotesi speculative sulla sua alimentazione: era un erbivoro, come gli odierni lamantini, oppure uno spazzino che si nutriva di carcasse di vertebrati marini?”. “Il prossimo passo sarà dunque decisivo per ottenere nuovi indizi su come fosse fatto e di cosa si cibasse l’unico esemplare finora noto alla scienza di questo straordinario gigante marino di quasi 40 milioni di anni fa”, conclude Bianucci.