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IIT porta all’ERF di Rimini le tecnologie del progetto Sophia

IIT porta all’ERF di Rimini le tecnologie del progetto SophiaMilano, 14 mar. (askanews) – Sono le tecnologie collaborative sviluppate per aiutare i lavoratori nei compiti più gravosi le proposte che stanno suscitando il maggiore interesse tra i partecipanti dell’ “European Robotics Forum” in corso a Rimini. Le tecnologie, frutto del lavoro dei ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia nell’ambito dell progetto europeo Sophia – Socio-Physical Interaction Skills for Cooperative Human-Robot Systems in Agile Production – rispondono a diverse ipotesi di utilizzo: operazioni di perforazione da svolgere in posizioni alte; sollevamento e nel trasporto di carichi pesanti; segnalazione di posture pericolose assunte in attività a rischio. Le diverse tecnologie targate “Spohia” state infatti sviluppate per introdurre negli ambienti industriali soluzioni che migliorino l’ergonomia delle attività lavorative, prevenendo i Disturbi Muscolo-Scheletrici. Inoltre, il progetto ha contribuito al processo necessario alla standardizzazione di tali tecnologie indossabili, attraverso la stesura di un CEN Workshop Agreement, ovvero linee guida per fare sì che gli strumenti di valutazione del rischio biomeccanico possano trovare applicazione diretta nel mondo produttivo.


Al Forum europeo hanno partecipato numerosi gruppi della comunità di robotica dell’IIT, esponendo prototipi sviluppati anche in altri progetti finanziati dall’Unione Europea: i semi di piante artificiali intelligenti per il monitoraggio ambientale (progetto iSeed); il robot umanoide R1 in grado di navigare come guida nei musei (progetto “Convince”); un cobot modulare da utilizzare dai lavoratori nei cantieri edili (progetto Cncert); la tuta sensorizzata iFeel per controllare le tecnologie avatar (progetto AnDy); una mano protesica e robotica (progetto SoftHandPro); il robot avatar AlterEgo (progetto euROBIN); una proboscide stampata in 3D, sensori tattili e pelle artificiale bio-ispirata (progetto Proboscis); e il robot Centauro per gli interventi in aree di emergenza (progetto Centauro ed euROBIN). Il progetto Spphia ( https://project-sophia.eu/ ) è iniziato nel 2020 con l’obiettivo di sviluppare una nuova generazione di robot collaborativi e sistemi indossabili intelligenti che potessero migliorare l’ergonomia del posto di lavoro e la flessibilità della produzione, fino a raggiungere in futuro una personalizzazione di massa delle tecnologie. Il progetto, coordinato da Arash Ajoudani, principal investigator del laboratorio Human-Robot Interfaces and Interaction all’IIT di Genova, ha coinvolto 12 partner provenienti da sei stati membri europei ed è durato 4 anni.


Gli obiettivi del progetto Sophia sono stati raggiunti con la definizione di un insieme di tecnologie all’avanguardia che possono essere introdotte negli ambienti di lavoro industriali. Tra queste troviamo: una tecnologia di monitoraggio in tempo reale per la valutazione dell’ergonomia dello spazio di lavoro; robot collaborativi (CoBot) di nuova generazione con sistemi intelligenti ad alta capacità di carico e movimento agile; e dispositivi indossabili che funzionano sia come sistemi informativi, fornendo avvisi e guidando l’operatore che li indossa, sia come robot (wearBots) per avere un supporto mirato alle articolazioni.

Ricerca, accordo Enea-Cern su tecnologie nucleari innovative

Ricerca, accordo Enea-Cern su tecnologie nucleari innovativeRoma, 14 mar. (askanews) – In occasione dell’avvio della collaborazione tra Enea e Cern di Ginevra sulle tecnologie nucleari innovative, il presidente Gilberto Dialuce e il direttore del Dipartimento Nucleare Alessandro Dodaro hanno incontrato a Ginevra la direttrice generale Fabiola Gianotti.


I due istituti – informa l’Enea nella notizia che apre il numero odierno del settimanale ENEAinform@ – lavoreranno insieme su attività di ricerca e sviluppo nei settori: fisica delle particelle elementari; rivelatori; sistemi avanzati di produzione di particelle; progettazione e validazione di sistemi nucleari innovativi come reattori veloci di quarta generazione, fusione termonucleare e produzione di radionuclidi per applicazioni medicali. “L’accordo con Enea nasce dal particolare interesse mostrato dal Cern per le tecnologie dei metalli liquidi pesanti disponibili presso il nostro Centro Ricerche del Brasimone (Bologna). E proprio in questo ambito avvieremo attività che prevedono, ad esempio, esperimenti ad alta energia come il Muon Collider (bersaglio per fasci di protoni per produzione di muoni) e il Future Circular Collider (bersaglio per fasci di fotoni), il progetto di un assorbitore a metallo liquido per la Beam Dump Facility (assorbitore di fasci di protoni del Super Proton Synchrotron) e test delle tecnologie nella facility HiRadMat”, dichiara il Presidente Enea, Gilberto Dialuce.


Enea e Cern collaboreranno, inoltre, agli esperimenti Compact Muon Solenoid (CMS) che fa parte dell’acceleratore di particelle Large Hadron Collider (LHC) utilizzato per gli studi sul Bosone, cdi Higgs, e n_TOF, la sorgente di neutroni del Cern, operativa dal 2001, che Carlo Rubbia ha progettato alla fine degli anni ’90. “I dati nucleari ottenuti nell’ambito di questi esperimenti forniranno il supporto essenziale necessario per l’innovazione e la progettazione di diverse tecnologie: nel caso dei reattori di quarta generazione punteremo a migliorare le caratteristiche di sicurezza e protezione e lo smaltimento dei rifiuti radioattivi attraverso l’incenerimento di nuclidi a vita lunga; nei reattori a fusione studieremo l’impatto delle condizioni di elevata irradiazione su materiali innovativi per i sistemi futuri”, sottolinea il responsabile del dipartimento Enea Nucleare, Alessandro Dodaro.


Tutte le attività faranno capo alla Divisione Enea Sistemi nucleari per l’energia diretta da Mariano Tarantino, in collaborazione con i ricercatori Alberto Mengoni, Patrizio Console Camprini e Donato Castelluccio del Dipartimento Nucleare.

Nuova fase vetrosa dell’acqua applicando campi elettrici intensi

Nuova fase vetrosa dell’acqua applicando campi elettrici intensiRoma, 14 mar. (askanews) – È possibile congelare l’acqua allo stato liquido tramite l’applicazione di un campo elettrico? L’interrogativo è rimasto aperto fin dalla seconda metà dell”800, quando il fisico Louis Dufour paventò tale possibilità ed innescò nella comunità scientifica un acceso dibattito sulla possibilità di applicare anche all’acqua la tecnica dell’electrofreezing, o elettrocongelamento, cioè la cristallizzazione di una sostanza indotta da campi elettrici, analogamente a quanto avviene in molti processi naturali e tecnologici, dalla dinamica troposferica alla chimica degli alimenti, dal raffreddamento dei microchip alla microfluidica e alla catalisi. Si pensi, ad esempio, che il processo di congelamento dei fiocchi di neve è fortemente alterato in presenza di campi elettrici.


Oggi, una ricerca condotta da un gruppo di ricerca dell’Istituto per i processi chimico-fisici del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina (Cnr-Ipcf) in collaborazione con colleghi inglesi di IBM Research Europe, ha per la prima volta dimostrato, attraverso metodi avanzati di simulazione al supercalcolatore, che campi elettrici intensi sono capaci di indurre una transizione dalla fase liquida ad una nuova fase vetrosa dell’acqua. I ricercatori – informa il Cnr – hanno indicato tale nuova fase con il nome di ferroelectric glassy water (f-GW), letteralmente “acqua vetrosa ferroelettrica”. Lo studio è pubblicato su “Nature Communications”. “La fase dell’acqua vetrosa ferroelettrica si aggiunge al già ricco insieme di strutture che caratterizzano il diagramma di fase della sostanza chimica più studiata, che compendia più di 20 fasi cristalline note”, spiega Giuseppe Cassone (Cnr-Ipcf). “Tale scoperta non solo rappresenta un importante tassello nella comprensione del comportamento fondamentale dei liquidi e delle loro transizioni di fase, ma ha implicazioni profonde sulle strutture assunte dall’acqua nei sistemi biologici, nei fenomeni planetari e in sistemi di interesse tecnologico”, prosegue il ricercatore Cnr.


L’acqua, infatti, è presente in numerose reazioni e processi che utilizzano campi elettrici simili a quelli necessari ad innescare questa transizione: ad esempio reazioni enzimatiche e nei microchip, nei quali l’acqua è usata come liquido raffreddante. “Ma anche l’atmosfera terrestre e quella di molti esopianeti sono ricche di acqua e presentano intense attività di fulminazione”, aggiunge Fausto Martelli (IBM). “Infine, le superfici di una lunga serie di minerali bagnati dalle acque naturali esibiscono campi elettrici spontanei ancora più intensi di quelli necessari alla trasformazione dell’acqua liquida nella sua controparte vetrosa ferroelettrica”. Questa nuova fase – conclude il Cnrf – sembra quindi essere presente in molti contesti biologici, naturali e tecnologici. La sua comprensione potrà portare a importanti innovazioni, dalla modulazione delle interazioni tra antibiotici e proteine con membrane biologiche, alla ottimizzazione dell’effetto di raffreddamento in microelettronica, con conseguente impulso alla corsa per la miniaturizzazione.

Oggi il lancio di MethaneSat, misurerà concentrazioni di metano

Oggi il lancio di MethaneSat, misurerà concentrazioni di metanoRoma, 4 mar. (askanews) – É programmato per oggi, intorno alle 23 ora italiana, a bordo di un Falcon 9 di Space X il lancio di MethaneSat, innovativo satellite progettato per contribuire a proteggere il clima della Terra accelerando la riduzione di un potente inquinante a effetto serra e concentrandosi in primo luogo sugli operatori del settore Oil & Gas, la maggiore fonte industriale di emissioni di metano al mondo.


Orbitando intorno alla Terra 15 volte al giorno, MethaneSAT misurerà le variazioni delle concentrazioni di metano fino a tre parti per miliardo. L’elevata sensibilità, unita all’alta risoluzione e all’ampio campo visivo, consentiranno al satellite di vedere l’intero quadro delle emissioni. I dati interattivi sulle emissioni saranno disponibili a chiunque direttamente dal sito www.MethaneSAT.org e su Google Earth Engine, una delle principali piattaforme di dati geospaziali utilizzata da oltre 100.000 esperti e analisti. Sviluppato da una sussidiaria dell’organizzazione no-profit Environmental Defense Fund (EDF), MethaneSAT, al contrario di altri satelliti, è in grado di individuare e quantificare le emissioni totali di metano su vaste aree e di identificare i grandi emettitori in luoghi finora rimasti inosservati. Il lavoro di MethaneSAT consentirà alle aziende e alle autorità di regolamentazione di tenere traccia delle emissioni e daranno alle parti interessate – cittadini, governi, investitori e importatori di gas – un accesso gratuito e quasi in tempo reale ai dati e la possibilità di confrontare i risultati con gli obiettivi e gli obblighi in materia di emissioni.


Da oltre un decennio – informa una nota – EDF è leader mondiale nella ricerca di soluzioni per il metano, lavorando per mettere in luce il problema delle emissioni. Negli anni EDF ha organizzato una serie pionieristica di 16 studi indipendenti che hanno dimostrato quanto le emissioni di metano lungo la catena di approvvigionamento del petrolio e del gas negli Stati Uniti fossero superiori del 60% rispetto alle stime dell’EPA (Agenzia per la Protezione Ambientale) dell’epoca. MethaneSAT è il risultato diretto di questi sforzi. “L’aspetto unico di MethaneSAT è la capacità di misurare con precisione i livelli di metano con un’alta risoluzione e su vaste aree, tracciando anche le fonti più piccole e diffuse che rappresentano la maggior parte delle emissioni in molte regioni”, ha dichiarato Steven Hamburg, scienziato capo di EDF e responsabile del progetto MethaneSAT. “Sapere quanto metano viene emesso, da dove e come cambiano i tassi di emissione è essenziale”.


Il progetto MethaneSAT è stato interamente reso possibile dal sostegno dei donatori di EDF e dalla partnership con il governo della Nuova Zelanda. Tra i maggiori finanziatori di MethaneSAT figurano anche Bezos Earth Fund, Arnold Ventures, la Robertson Foundation e il TED Audacious Project. A dicembre, EDF si è unita a Bloomberg Philanthropies, all’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), a RMI e all’Osservatorio Internazionale sulle Emissioni di Metano (IMEO) del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) in una nuova iniziativa, unica nel suo genere, per responsabilizzare maggiormente le aziende e i governi nella gestione del metano. “Non si può gestire ciò che non si può misurare, e questo è certamente vero quando si tratta di ridurre il metano, uno dei maggiori responsabili del cambiamento climatico”, ha dichiarato Michael R. Bloomberg, inviato speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per le Ambizioni e le Soluzioni per il Clima e fondatore di Bloomberg LP e Bloomberg Philanthropies.


Oltre a identificare le fonti a livello regionale, MethaneSAT consentirà di confrontare i tassi di emissione delle principali regioni petrolifere e del gas a livello mondiale e le loro performance nel tempo. I dati analitici sviluppati appositamente per questa missione consentiranno di risalire alle fonti delle emissioni all’interno delle regioni interessate. A gennaio l’amministrazione Biden ha avanzato una proposta per una tassa sulle emissioni di metano in eccesso che richiederà un’accurata misurazione. La legislazione europea approvata a novembre traccia un percorso verso la richiesta di dati empirici sulle emissioni da parte degli importatori di gas, mentre Giappone e Corea – due dei maggiori acquirenti di GNL – hanno avviato piani per iniziare a richiedere dati sulle emissioni ai fornitori. Man mano che gli standard sul metano vengono incorporati nelle politiche nazionali e negli accordi commerciali, MethaneSAT aiuterà a garantire il raggiungimento degli obiettivi e a chiarire dove le riduzioni dichiarate sono inferiori. Oltre 150 Paesi hanno firmato il Global Methane Pledge per ridurre le loro emissioni collettive di metano di almeno il 30% rispetto ai livelli del 2020 entro il 2030. Alla COP28, oltre 50 aziende hanno annunciato la Oil & Gas Decarbonization Charter, impegnandosi a eliminare virtualmente le emissioni di metano e il flaring di routine. Oltre ad EDF, i partner di MethaneSAT includono la Scuola di Ingegneria e Scienze Applicate dell’Università di Harvard, l’Osservatorio Astrofisico dello Smithsonian e l’Agenzia Spaziale della Nuova Zelanda. Il team della missione comprende oltre 70 esperti di tutto il mondo con esperienza nel volo spaziale, nel telerilevamento e nell’analisi dei dati. Il satellite è stato costruito in Colorado dall’unità Space & Mission Systems di BAE Systems, Inc. (ex Ball Aerospace) e da Blue Canyon Technologies. (Immagine, credit: MethaneSAT)

Nasa, Nikon realizzerà fotocamera per missioni lunari Artemis III

Nasa, Nikon realizzerà fotocamera per missioni lunari Artemis IIIRoma, 1 mar. (askanews) – La Nasa e Nikon hanno firmato un accordo per sviluppare una fotocamera portatile in grado di operare nel difficile ambiente lunare a partire da Artemis III, la missione che porterà per la prima volta gli astronauti nella regione del Polo Sud della Luna.


Fotografare questa regione – spiega la Nasa – richiede una fotocamera moderna con capacità specializzate per gestire le condizioni di illuminazione e le temperature estreme uniche della zona. L’accordo consente alla Nasa di avere una fotocamera spaziale pronta per l’uso sulla superficie lunare senza la necessità di svilupparne una da zero. Prima dell’accordo, la Nasa ha eseguito i test iniziali su una fotocamera Nikon Z 9 standard per determinare le specifiche necessarie per operare sulla superficie lunare. Con l’accordo in vigore, i team del Marshall Space Flight Center della Nasa insieme a Nikon, hanno iniziato a lavorare per implementare le modifiche necessarie e sviluppare la HULC (Handheld Universal Lunar Camera), la fotocamera di prossima generazione dell’agenzia che gli astronauti utilizzeranno sulla Luna.


Il design risultante consiste in una fotocamera Nikon Z 9 modificata e obiettivi Nikkor, una coperta termica della Nasa che proteggerà la fotocamera dalla polvere e dalle temperature estreme, e un’impugnatura personalizzata con pulsanti modificati sviluppata dagli ingegneri della Nasa per una più facile manipolazione da parte dei membri dell’equipaggio che indossano guanti spessi. Inoltre, la fotocamera incorporerà la più recente tecnologia di imaging e avrà componenti elettrici modificati per ridurre al minimo i problemi causati dalle radiazioni, garantendo che la fotocamera funzioni come previsto sulla Luna. Prima di viaggiare verso la Luna con Artemis III l’apparecchio sarà testato sulla Stazione spaziale internazionale per verificare le sue capacità in microgravità.


(Gli astronauti della Nasa Zena Cardman e Drew Feustel si esercitano utilizzando un primo progetto della fotocamera lunare durante il Joint Extravehicular Activity and Human Surface Mobility Test Team Field Test 3 in Arizona. Credits: NASA/Bill Stafford)

Al via Polarin, network europeo infrastrutture di ricerca polari

Al via Polarin, network europeo infrastrutture di ricerca polariRoma, 1 mar. (askanews) – Ha preso ufficialmente il via Polarin, Polar Research Infrastructure Network, il progetto Europeo coordinato dall’Alfred Wegener Institute con il coinvolgimento di numerosi partner internazionali, tra cui l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – OGS, che mira alla creazione di un network per l’utilizzo condiviso a livello europeo delle infrastrutture di ricerca polari.


Le regioni polari svolgono un ruolo fondamentale nel sistema Terra e sono particolarmente importanti per il nostro clima. Per comprendere e prevedere i complessi processi in atto in queste regioni e fornire informazioni basate sui dati, – informa OGS – la comunità di ricerca polare ha bisogno di accedere a infrastrutture di ricerca che possano operare in queste regioni remote. Polarin intende, quindi, rendere disponibile l’accesso a 64 importanti infrastrutture di ricerca polare, come stazioni di ricerca sia in Artico che in Antartide, navi da ricerca e navi rompighiaccio operanti in entrambi i poli, osservatori sia a terra che a mare, infrastrutture di dati e archivi di carote di ghiaccio e sedimenti. Ciò avverrà consentendo l’accesso diretto alle infrastrutture ma anche consentendo l’accesso remoto alle strutture del network, in modo che i ricercatori possano richiedere campioni, dati e altre risorse, alle singole infrastrutture senza che il richiedente sia presente sul posto.


I partner coinvolti sono 50 e appartengono a 21 nazioni, sia europee che non, come Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, Ucraina e Cile. Partner italiani, oltre all’OGS, sono l’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Isp-Cnr), ETT Spa e INKODE società cooperativa. “Ciò che distingue Polarin è che, per la prima volta, verrà offerto l’accesso alle infrastrutture di ricerca sia nell’Artico che in Antartide attraverso un unico progetto”, spiega Nicole Biebow, coordinatrice del progetto all’Alfred Wegener Institute. “Abbiamo creato una rete di infrastrutture di ricerca interdisciplinari che abbraccia tutte le aree di ricerca polare, spaziando dall’oceanografia a studi sull’atmosfera”.


Tra le infrastrutture di ricerca messe a disposizione dall’Italia ci sono la stazione Mario Zucchelli, la stazione italo-francese Concordia, la nave rompighiaccio Laura Bassi, l’Italian National Antarctic Data Center (NADC) e l’Italian Arctic Data Centre (IADC). “Oltre a mettere a disposizione la propria nave rompighiaccio Laura Bassi, l’OGS sarà coinvolto in attività di formazione degli utenti sia per quanto riguarda l’utilizzo efficace e sicuro delle infrastrutture sia per quel che riguarda la gestione ottimale dei dati, perché siano accessibili, interoperabili, riutilizzabili e rintracciabili, secondo i principi FAIR”, precisa Michele Rebesco, referente scientifico di Polarin per l’OGS. “Inoltre l’Ente si occuperà anche della valutazione scientifica e della classificazione delle proposte presentate in risposta ai bandi di accesso per l’utilizzo delle infrastrutture di Polarin”.

Astrofisica, pesare le galassie con l’intelligenza artificiale

Astrofisica, pesare le galassie con l’intelligenza artificialeRoma, 25 feb. (askanews) – Gli algoritmi e le applicazioni di intelligenza artificiale fanno ormai parte della nostra vita quotidiana. La comunità scientifica, tuttavia, ne fa largo utilizzo già da diversi anni e l’Italia, in questo, è all’avanguardia.


L’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), per esempio, ha partecipato ad un progetto guidato da Nicola R. Napolitano, da cinque anni presso la Sun Yat-sen University (Cina), che per la prima volta è riuscito a dimostrare che l’intelligenza artificiale può imparare dalle simulazioni cosmologiche di formazione ed evoluzione dell’universo a misurare correttamente la massa delle galassie. Lo studio, che è stato pubblicato il 21 febbraio sulla rivista “Astronomy & Astrophysics”, descrive una nuova metodologia per stimare la massa delle galassie (incluso il loro contenuto di materia oscura) usando il Machine Learning. Nicola R. Napolitano, già ricercatore Inaf e ora professore ordinario presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, spiega che “in questo modo, è possibile superare i problemi intrinseci alla dinamica delle galassie. I modelli dinamici, infatti, hanno bisogno di pesanti assunzioni sulla distribuzione dei moti interni delle galassie, che possono non essere totalmente corrette, e necessitano un esborso di risorse enorme per ottenere risultati sufficientemente accurati”.


L’articolo “Total and dark mass from observations of galaxy centers with Machine Learning” – prosegue l’Inaf – dimostra per la prima volta che questa metodologia funziona su cataloghi di galassie reali. Gli esperti hanno confrontato le stime del nuovo codice, denominato MELA (Mass Estimator machine Learning Algorithm), con stime di procedure dinamiche classiche verificando quindi che MELA può riprodurre con incredibile accuratezza le masse dei metodi classici, in alcuni casi molto più laboriosi e basati su dati molto più complessi (per esempio la cinematica 3D) dei dati più semplici di cui MELA ha bisogno e che saranno prodotti per milioni di galassie con i progetti di spettroscopia di nuova generazione in cui Inaf è coinvolta, come WEAVE e 4MOST. Crescenzo Tortora, ricercatore dell’Inaf di Napoli che ha partecipato allo studio, aggiunge: “Il lavoro è stato possibile grazie ad un percorso intrapreso dal nostro gruppo che negli ultimi anni ha esteso le applicazioni dell’intelligenza artificiale a diversi settori dell’analisi dati di grandi survey astronomiche. Questo è stato anche possibile grazie all’esperienza acquisita negli ultimi anni con survey a grande campo (nello specifico KiDS al telescopio VST) nella ricerca di lenti gravitazionali, l’analisi della struttura e delle popolazioni stellari delle galassie”.


Come in tanti altri settori, il machine learning è una realtà sempre più concreta nell’ambito dell’astrofisica, non solo nell’analisi dei dati ma anche nel loro sfruttamento scientifico. “In questo lavoro – prosegue Napolitano – abbiamo chiesto a MELA di mostrarci come otteneva i suoi risultati e quali fossero le osservabili che avessero più importanza per derivare le sue conclusioni. La cosa straordinaria è che abbiamo capito che MELA può capire la fisica delle gravità”. L’Inaf, e in particolare la sede di Napoli, vanta una storica expertise in materia di dinamica delle galassie con la partecipazione a progetti nati sul solco della tradizione delle fisica delle galassie. I ricercatori Italiani, in particolare Tortora e Napolitano, sono diventati, negli anni, specialisti a livello mondiale con collaborazioni con i gruppi di dinamica delle galassie più importanti nel contesto internazionale e con progetti, come MELA, che sono unici al mondo.


“Da questo lavoro abbiamo capito che l’intelligenza artificiale è pronta a imparare la fisica a partire dai dati”, conclude Napolitano. “Nella fattispecie abbiamo verificato che MELA può utilizzare le leggi fisiche che conoscevamo, ma presto l’intelligenza artificiale potrà ‘imparare’ anche la Fisica che non conosciamo”. (Crediti immagine: C. Tortora)

Twin: esoscheletro ridà forza a gambe di pazienti con lesioni midollari

Twin: esoscheletro ridà forza a gambe di pazienti con lesioni midollariMilano, 23 feb. (askanews) – Un esoscheletro – in pratica un robot da indossare – permette a persone con capacità motoria ridotta o assente di alzarsi, mantenere la posizione eretta, camminare e sedersi: è “Twin”, la seconda versione dell’esoscheletro robotico per arti inferiori, progettato e realizzato da Rehab Technologies IIT-INAIL, il laboratorio congiunto tra Istituto italiano di tecnologia e Centro Protesi Inail di Budrio. Il dispositivo – presentato nel corso di un incontro al Museo Nazionale Scienza e Tecnologia di Milano – è l’ultima evoluzione del progetto “Twin”: è sviluppato per essere in grado di adattarsi alle esigenze del singolo utente, è stato progettato a partire dai risultati dei test clinici con i pazienti, e mira al reinserimento del lavoratore gravemente infortunato in contesti sociali e di lavoro. Prossimo obiettivo di “Twin” è la marcatura CE, che avverrà in partnership con un soggetto industriale, e l’avvio del processo di industrializzazione che consentirà la messa a disposizione dei pazienti.


‘All’inizio di questo progetto abbiamo avuto diversi scambi con ospedali e pazienti che hanno portato alla realizzazione di una serie di tecnologie chiave per permettere l’utilizzo dell’esoscheletro in semi-autonomia alle persone con lesione midollare completa. Ora, a distanza di anni, siamo riusciti ad ampliare l’utilizzo di Twin a persone con diverse tipologie di disabilità motoria, come ad esempio soggetti con capacità motoria residua – racconta Matteo Laffranchi, responsabile del laboratorio Rehab Technologies IIT-INAIL – Infine, abbiamo introdotto una serie di funzionalità e tecnologie, specificamente pensate per l’utilizzo clinico di Twin, che permettono di misurare lo stato del paziente e il progresso della terapia. Siamo molto soddisfatti dei risultati ottenuti e delle ampie prospettive di utilizzo che siamo riusciti a creare in questi anni di continuo sviluppo e dialogo con il mondo clinico e gli utilizzatori della tecnologia’. ‘Questo progetto affonda le sue radici nelle prime attività che vennero svolte con questa tipologia di dispositivi nel 2010 al Centro Protesi. Ricordo bene che, a quel tempo, sui primi dispositivi commerciali trovammo numerosi aspetti clinici e tecnici da rivedere per renderli davvero fruibili e maturò quindi l’ambizione di realizzare un dispositivo innovativo tutto italiano – aggiunge Emanuele Gruppioni, direttore tecnico Area Ricerca Centro Protesi Inail – È fonte di grande orgoglio vedere oggi i frutti di tanta attività e di ciò che è possibile realizzare quando grandi centri di ricerca italiani come INAIL e IIT, lavorano in sinergia tra loro e assieme ai pazienti”. Durante l’incontro di lavoro due pazienti hanno indossato il primo modello di esoscheletro “Twin” e la seconda versione dando così dimostrazione pratica delle caratteristiche del nuovo dispositivo e dello sviluppo realizzato. “Ho iniziato a sperimentare ‘Twin’ durante il mio percorso riabilitativo e si è rivelato fin da subito uno strumento in grado di supportarmi sia dal punto di vista fisico che psicologico – ha detto Alex Santucci, uno dei pazienti che ha preso parte ai trial clinici e ha partecipato alla presentazione -Prima di tutto la verticalizzazione consente di mettersi al livello di chi sta in piedi e poi la deambulazione assistita consente la libertà di cambiare posizione, di avere benefici per il sistema circolatorio e l’apparato muscolo-scheletrico e costituisce di per sé un ottimo allenamento. È una grande opportunità per le persone in carrozzina e spero che a breve diventi uno strumento per l’utilizzo quotidiano o per lo meno frequente”.


“Superato il timore iniziale, l’utilizzo di ‘Twin’ si è rivelato molto più facile del previsto – ha aggiunto Davide Costi, anche lui paziente che ha preso parte ai trial clinici – Penso che l’allenamento sia fondamentale per potersi fidare e sfruttare a pieno le potenzialità del dispositivo che, oltre alla possibilità di assumere una posizione eretta, consente di tornare a vivere lo spazio e a muoversi in un modo più naturale”. Gli esoscheletri ad oggi costituiscono l’unico dispositivo che permette l’ottenimento di una deambulazione autonoma per pazienti con deficit motori conseguenti a lesioni midollari dovute a traumi o patologie neurologiche. Da qui nasce l’interesse scientifico di Inail e Iit verso queste tecnologie con l’obiettivo di realizzare dispositivi che consentano il reinserimento del lavoratore gravemente infortunato in contesti sociali e lavorativi. Per questi motivi il settore degli esoscheletri è in rapidissima ascesa e nel campo della ricerca tecnologica si sono concentrati importanti investimenti.


L’esoscheletro motorizzato Twin è una struttura esterna in grado di potenziare le capacità fisiche di chi lo indossa con importanti applicazioni in ambito medico e nelle terapie riabilitative. Può essere indossato quotidianamente per alcune ore, poiché assumere la posizione eretta porta grandi benefici a livello muscoloscheletrico, circolatorio, psicologico e di funzionalità dell’apparato digerente dei pazienti che utilizzano la carrozzina, e può essere utilizzato nelle cliniche riabilitative durante le sessioni di fisioterapia. L’esoscheletro è controllato da un operatore attraverso una applicazione Android installata sul tablet fornito in dotazione: in particolare, l’interfaccia grafica consente di comandare l’esoscheletro nell’esecuzione delle attività implementate, di impostare i parametri cinematici del movimento e di scegliere tra differenti modalità di esecuzione del passo.


In pratica “Twin” fornisce l’energia sufficiente per permettere a persone con capacità motorie degli arti inferiori ridotte o addirittura assenti, come in caso di lesioni complete del midollo, di mantenere la posizione eretta, di camminare con l’ausilio di stampelle o deambulatori -dal momento che l’esoscheletro non è auto-bilanciante- di alzarsi e sedersi. I motori attivano i giunti di ginocchio e anca imponendo agli arti del paziente un pattern di movimento completamente configurabile dal personale clinico in termini di lunghezza e tipologia del passo e di velocità di cammino. La batteria ha un’autonomia di circa quattro ore e necessita di un’ora per ricaricarsi. L’attuale modello di “Twin” offre una migliore performance rispetto a quello precedente a fronte di maggior potenza del motore, minor peso e maggior attenzione al design del software e della struttura, che lo rende più adattabile alle caratteristiche di chi lo indossa. La struttura infatti è regolabile in base alle caratteristiche fisiche del paziente mediante link telescopici posti al livello del femore e della tibia. Caviglie e supporto del piede sono disponibili in diverse taglie per adattarsi all’ergonomia del fruitore, sia donna o uomo, giovane o adulto. Twin prevede tre modalità di funzionamento: “modalità Cammina”, pensata per pazienti con funzione motoria assente, in cui l’esoscheletro impone un modello deambulatorio secondo i parametri programmati; “modalità Retrain” utilizzata per pazienti con compromissione parziale della funzione motoria degli arti inferiori, cioè in grado di effettuare un movimento più o meno autonomo ma con difficoltà in alcune fasi del passo-in questo caso l’esoscheletro supporta con più o meno intensità- il movimento del paziente, indirizzandolo verso una traiettoria ottimale di riferimento; “modalità TwinCare” pensata per pazienti che presentano una compromissione motoria parziale e differenziata tra i due arti, in cui una gamba è sana e riesce a muoversi autonomamente, mentre l’altra necessita di un aiuto, più o meno marcato, in alcune fasi del passo. Alla presentazione che si è svolta Museo Nazionale Scienza e Tecnologia di Milano hanno partecipato Fabrizio D’Ascenzo, commissario straordinario Inail, Gabriele Galateri di Genola, presidente Iit, Andrea Tardiola, direttore generale Inail, Giorgio Metta, direttore scientifico Iit e Fiorenzo Marco Galli, direttore generale del Museo Nazionale Scienza e Tecnologia. Erano presenti all’evento anche Giorgio Soluri, direttore centrale assistenza protesica e riabilitazione Inail, Lorenzo De Michieli, direttore technology transfer Iit, Patrizio Rossi, sovrintendente sanitario centrale Inail, Matteo Laffranchi, coordinatore Rehab Technologies Lab Inail-Iit e Emanuele Gruppioni, direttore tecnico Area Ricerca Centro Protesi Inail.

Spazio, Esa: oggi il rientro in atmosfera del satellite ERS-2

Spazio, Esa: oggi il rientro in atmosfera del satellite ERS-2Roma, 21 feb. (askanews) – È previsto per oggi, intorno alle 16.41 ora italiana, il rientro nell’atmosfera terrestre del satellite europeo di telerilevamento ERS-2, che dovrebbe disintegrarsi in gran parte in seguito all’impatto. Lo rende noto l’Ufficio Esa per il monitoraggio e controllo dei detriti spaziali che sta monitorando il satellite e fornisce aggiornamenti sul suo rientro.


ERS-2 è stato lanciato nel 1995 e nel 2011 l’Agenzia spaziale europea ne ha decretato la fine operativa iniziando un processo di abbassamento dell’orbita da circa 785 km a 573 km per ridurre al minimo il rischio di collisione con altri satelliti. Dopo 13 anni di decadimento orbitale, guidato principalmente dall’attività solare, il satellite rientrerà naturalmente nell’atmosfera terrestre. L’impatto è atteso alle 16.41 ora italiana, con una incertezza di circa due ore. L’interazione tra condizioni atmosferiche imprevedibili e altri fattori come la direzione in cui è rivolto il satellite (che aumenta o diminuisce la superficie esposta all’atmosfera) e il fatto che si possano aggiornare le previsioni solo dopo che è passato sopra un sensore, come un telescopio o radar – spiega l’Esa – rende molto difficile prevedere un rientro naturale.


ERS-2 si frantumerà in frammenti a circa 80 km dalla superficie terrestre e la stragrande maggioranza di questi brucerà nell’atmosfera. Alcuni frammenti potrebbero raggiungere la superficie terrestre, dove molto probabilmente cadranno nell’oceano Pacifico. (Credits: ESA)

Eso: identificato un quasar da record, il più luminoso mai visto

Eso: identificato un quasar da record, il più luminoso mai vistoRoma, 20 feb. (askanews) – Utilizzando il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO (l’Osservatorio Europeo Australe), alcuni astronomi hanno caratterizzato un quasar brillante, trovando che non solo è il più brillante della sua classe, ma anche l’oggetto più luminoso mai osservato. I quasar sono i nuclei luminosi di galassie distanti e sono alimentati da buchi neri supermassicci. La massa del buco nero di questo quasar da record cresce dell’equivalente di un Sole al giorno, rendendolo il buco nero con la crescita più rapida trovato fino a oggi.


I buchi neri che alimentano i quasars raccolgono la materia dall’ambiente circostante in un processo così energetico da emettere grandi quantità di luce, così che i quasar sono tra gli oggetti più luminosi nel cielo, permettendo che anche quelli distanti siano visibili dalla Terra. Come regola generale, i quasar più luminosi indicano i buchi neri supermassicci che crescono più rapidamente. “Abbiamo scoperto il buco nero con la crescita più rapida finora conosciuto. Ha una massa di 17 miliardi di volte quella del nostro Sole e si nutre con poco più di un Sole al giorno. Questo lo rende l’oggetto più luminoso dell’Universo conosciuto”, afferma Christian Wolf, astronomo dell’Università Nazionale Australiana (ANU) e autore principale dello studio pubblicato su “Nature Astronomy”. Il quasar, chiamato J0529-4351, è così lontano dalla Terra che la sua luce ha impiegato oltre 12 miliardi di anni per raggiungerci.


La materia attirata verso questo buco nero, sotto forma di disco, emette così tanta energia che J0529-4351 è oltre 500 trilioni di volte più luminoso del Sole. “Tutta questa luce proviene da un disco di accrescimento caldo che misura sette anni luce di diametro: deve essere il disco di accrescimento più grande dell’Universo”, afferma Samuel Lai, dottorando all’ANU e coautore dell’articolo. Sette anni luce equivalgono a circa 15.000 volte la distanza dal Sole all’orbita di Nettuno. E, cosa sorprendente, questo quasar da record era solo apparentemente nascosto. “È una sorpresa che sia rimasto sconosciuto fino a oggi, quando conosciamo già un milione circa di quasar meno notevoli. Finora ci ha guardato letteralmente negli occhi!”, dice il coautore Christopher Onken, astronomo dell’ANU. Aggiunge che questo oggetto compare nelle immagini della Schmidt Southern Sky Survey dell’ESO risalente al 1980, ma non è stato riconosciuto come quasar fino a decenni dopo.


Trovare quasar richiede dati osservativi precisi da vaste aree del cielo. Gli insiemi dei dati risultanti sono così grandi – spiega l’Eso – che i ricercatori spesso utilizzano modelli di apprendimento automatico (machine-learning) per analizzarli e distinguere i quasar da altri oggetti celesti. Tuttavia, questi modelli vengono addestrati su dati esistenti, il che limita i potenziali candidati a oggetti simili a quelli già noti. Se un nuovo quasar fosse più luminoso di tutti quelli osservati in precedenza, il programma potrebbe rifiutarlo e classificarlo invece come una stella non troppo distante dalla Terra. Un’analisi automatizzata dei dati del satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea ha escluso J0529-4351 perchè troppo luminoso per essere un quasar, suggerendo invece che fosse una stella. I ricercatori lo hanno identificato come un quasar distante l’anno scorso, utilizzando le osservazioni del telescopio ANU da 2,3 metri di diametro, presso l’Osservatorio di Siding Spring in Australia. Scoprire che si trattava del quasar più luminoso mai osservato, tuttavia, richiese un telescopio più grande e misure effettuate con uno strumento più preciso. Lo spettrografo X-shooter installato sul VLT dell’ESO nel deserto cileno di Atacama ha fornito i dati cruciali.


Il buco nero con la crescita più rapida mai osservato sarà anche un obiettivo perfetto per quando l’aggiornamento di GRAVITY+ installato sull’VLTI (l’interferometro del VLT) dell’ESO, progettato per misurare con accuratezze la massa dei buchi neri, compresi quelli lontani dalla Terra. Inoltre, l’ELT (Extremely Large Telescope) dell’ESO, un telescopio di 39 metri di diametro in costruzione nel deserto cileno di Atacama, renderà ancora più fattibile l’identificazione e la caratterizzazione di tali oggetti sfuggenti. Trovare e studiare i buchi neri supermassicci distanti potrebbe far luce su alcuni dei misteri dell’Universo primordiale, tra cui il modo in cui essi e le galassie che li ospitano si sono formati ed evoluti. Ma non è l’unico motivo per cui Wolf li cerca. “Personalmente, mi piace semplicemente la caccia”, dice. “Per qualche minuto al giorno mi sento di nuovo un bambino, mentre gioco alla caccia al tesoro, mettendo in gioco tutto quello che ho imparato da allora”, conclude. (Crediti: ESO/M. Kornmesser)