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Antartide, al via la missione invernale presso la base Concordia

Antartide, al via la missione invernale presso la base ConcordiaRoma, 6 feb. (askanews) – È appena iniziata presso la base italo-francese Concordia sul plateau antartico, a oltre 3mila metri di altezza e a 1.200 chilometri dalla costa, la 20a campagna invernale del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) e gestito dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) per il coordinamento scientifico, dall’Enea per la pianificazione e l’organizzazione logistica delle attività presso le basi antartiche e dall’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – OGS per la gestione tecnica e scientifica della sua nave da ricerca Laura Bassi.


A trascorrere nove mesi a Concordia in completo isolamento per via della temperatura, che durante l’inverno australe può raggiungere anche i -80 gradi, – informa una nita – sarà un team selezionato di 13 ‘invernanti’: 6 del PNRA, 6 dell’Istituto polare francese Paul Emile Victor (Ipev) e un medico dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). La squadra porterà avanti attività legate a 29 progetti italo-francesi di climatologia, glaciologia, fisica e chimica dell’atmosfera e biomedicina, realizzando anche attività di manutenzione della stazione. Mentre a Concordia si apre la stagione invernale, chiude, a Baia Terra Nova, la stazione costiera Mario Zucchelli, che riaprirà il prossimo ottobre con l’arrivo del contingente della nuova spedizione estiva. La 39a campagna estiva ha coinvolto, tra le basi Mario Zucchelli, Concordia e la nave Laura Bassi, 130 tra ricercatori e tecnici impegnati in 31 progetti di ricerca su scienze dell’atmosfera, geologia, paleoclima, biologia, oceanografia e astronomia. I dati raccolti saranno elaborati e analizzati nei laboratori di diversi enti di ricerca e università italiane.


La spedizione è stata supportata anche dalle Forze Armate che hanno partecipato con 16 esperti militari di Esercito, Marina, Aeronautica e Arma dei Carabinieri, impegnati ad affiancare sul campo i ricercatori. Le attività della 39a campagna estiva proseguono fino a marzo sulla Laura Bassi, che nel Mare di Ross sta portando avanti tre progetti di ricerca sullo studio delle dinamiche fisiche e biogeochimiche di specifiche aree antartiche. La chiusura della spedizione estiva presso le basi coincide anche con la conclusione della 3a campagna di perforazione del progetto internazionale Beyond EPICA-Oldest Ice, coordinato dall’Istituto di scienze polari del Cnr al quale partecipano per l’Italia anche l’Università Ca’ Foscari Venezia e l’Enea, che gestisce le attività logistiche insieme all’Ipev. Il progetto mira a tornare indietro nel tempo di 1,5 milioni di anni per ricostruire le temperature del passato e le concentrazioni di gas serra, attraverso l’analisi di una carota di ghiaccio estratta dalle profondità della calotta glaciale. Alla fine di questa stagione di perforazione il team ha raggiunto una profondità di 1836,18 metri, mentre sono stati processati 1367 metri di carote di ghiaccio, inviate alla Stazione Mario Zucchelli per raggiungere l’Europa.


“Nel corso di questa 39a campagna estiva abbiamo visto in azione 31 progetti di ricerca dai quali ci aspettiamo di ricavare rilevanti dati scientifici nel campo delle scienze dell’atmosfera, della geologia, paleoclimatologia, biologia, oceanografia e astronomia”, afferma Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di scienze polari del Cnr. “Continueremo a ricevere dati dai sistemi di acquisizione automatici, dagli osservatori permanenti e dalla nave Laura Bassi, che lascerà la zona antartica solo a inizio marzo. Uno sforzo importante che ha messo in luce come l’azione coordinata di università ed enti di ricerca supportata dalla logistica possa produrre scienza ad altissimo livello”. “Anche quest’anno tutti gli obiettivi programmati sono stati raggiunti, grazie al supporto del personale tecnico e scientifico che ha operato in Antartide, ma anche grazie al contribuito di quanti hanno lavorato dall’Italia pianificando le diverse attività e garantendo tutti gli approvvigionamenti necessari”, commenta Elena Campana, responsabile dell’Unità Tecnica Antartide dell’Enea.

Oltre la metà degli italiani che usano l’AI ne presenta il lavoro come proprio

Oltre la metà degli italiani che usano l’AI ne presenta il lavoro come proprioRoma, 6 feb. (askanews) – In un’era in cui la tecnologia sta guidando il cambiamento, l’indagine “Le promesse e le insidie dell’intelligenza artificiale sul lavoro” condotta da Salesforce, l’AI CRM numero uno al mondo, rivela un’affascinante dualità nell’adozione dell’intelligenza artificiale generativa tra i lavoratori italiani. Il fascino di questa nuova tecnologia, sottolinea una nota, ha avvolto il mondo del lavoro, portando con sé sfide etiche e culturali.


Adozione dell’AI: spicca la differenza tra generazioni Il 17% dei lavoratori italiani sta già sperimentando questa innovazione sul luogo di lavoro e il 32% prevede di integrare presto l’AI nelle proprie attività. La scoperta più sorprendente? Ben la metà (54%) presenta il lavoro dell’AI come proprio, una tendenza che è particolarmente evidente tra le generazioni più giovani della Gen Z, con quattro su cinque (79%) che scelgono questa “scorciatoia”, e tra i Millennial, di cui tre su cinque (63%) seguono la stessa strada. I Baby Boomer, al contrario, si mostrano notevolmente più cauti, con solo uno su quattro (24%) che rivendica il lavoro dell’intelligenza artificiale come proprio. Niente divieti assoluti, ma mancanza di policy condivise in tema di AI: ma la sorpresa più grande arriva dalle politiche aziendali: il 42% dei lavoratori italiani dichiara di non avere ricevuto linee guida aziendali chiare sull’utilizzo dell’AI. Un vuoto normativo che solleva questioni importanti, soprattutto considerando il 49% dei lavoratori italiani utilizza l’intelligenza artificiale generativa senza l’approvazione formale dei propri datori di lavoro.


Dall’indagine emerge infatti che questi problemi non derivano tanto da policy rigorose o divieti assoluti sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale, piuttosto dalla mancanza di policy condivise a riguardo. Sebbene le aziende italiane risultino più strutturate rispetto ad altri paesi sulle linee di condotta dei propri dipendenti, manca ancora un’opinione forte sull’utilizzo dell’AI a lavoro. L’85% dei lavoratori italiani intervistati afferma che la propria azienda non abbia ancora politiche chiaramente definite circa l’utilizzo dell’intelligenza artificiale generativa e il 42% evidenzia che non ce ne siano affatto. Ostacoli e mancanza di formazione: le sfide dell’AI generativa in Italia. L’84% dei lavoratori intervistati riconosce nelle aziende italiane che ci siano ostacoli per un utilizzo consapevole dell’AI generativa per fini professionali. A livello globale, il 70% dei lavoratori non ha ancora ricevuto una formazione completa sull’utilizzo etico e sicuro degli strumenti di intelligenza artificiale generativa. In Italia, solo il 23% sostiene di aver ricevuto una formazione adeguata.


Ma con il 32% dei lavoratori italiani che prevede di integrare presto l’AI nelle proprie attività, è chiaro che la diffusione di questa tecnologia sarà inevitabile. Per sfruttarne appieno il potenziale, investire nella formazione dei dipendenti è cruciale, permettendo loro di affrontare i rischi e di abbracciare le opportunità che l’IA offre al percorso professionale. “I lavoratori italiani non solo abbracciano l’intelligenza artificiale generativa senza il benestare formale delle loro aziende, ma lo fanno con la consapevolezza che l’utilizzo etico di questa tecnologia richiede programmi ufficialmente approvati”, commenta Vanessa Fortarezza, Country Leader di Salesforce per l’Italia. “Le aziende del nostro Paese dovrebbero quindi investire in strumenti di intelligenza artificiale generativa sicuri, etici e affidabili, perché i loro dipendenti sentono la necessità di dover restare al passo con i tempi ricevendo un’adeguata formazione che promuova la loro crescita professionale e la fiducia all’interno dell’azienda stessa”.


Questi dati non solo svelano un affascinante dietro le quinte dell’adozione dell’AI, ma sollevano interrogativi importanti su come le aziende stanno affrontando questa rivoluzione silenziosa nel mondo del lavoro. La chiarezza delle politiche aziendali, la formazione etica e la consapevolezza saranno chiavi per guidare la forza lavoro verso un futuro in cui l’intelligenza artificiale generativa sia un alleato, non un misterioso compagno di lavoro.

Cattolica: ecco naso elettronico che certifica qualità e provenienza vino

Cattolica: ecco naso elettronico che certifica qualità e provenienza vinoRoma, 5 feb. (askanews) – Costruire un naso elettronico per controllare cibo e bevande. È stato questo l’obiettivo del progetto di ricerca di Sonia Freddi, postdoctoral researcher e referente del progetto d’Ateneo “Dalle nanostrutture all’intelligenza artificiale: un naso elettronico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio vitivinicolo”, finanziato con i fondi del 5×1000 dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.


L’analisi delle componenti volatili – spiega una nota – è un metodo efficiente per ottenere informazioni riguardo la composizione chimica di fluidi e solidi e questa analisi può essere potenzialmente applicata in svariati campi, inclusi il controllo della qualità, della freschezza e dell’origine di prodotti alimentari. Infatti, cibi e bevande emettono particolari molecole di gas che possono indicare se un prodotto è fresco o deteriorarato, o possono rivelare la provenienza di determinati alimenti. Se si riesce a tracciare la presenza di queste componenti gassose considerate biomarcatori di freschezza, origine e qualità, è possibile accertare in modo rapido e semplice queste caratteristiche. Nel dettaglio, il progetto di ricerca è volto alla realizzazione di piattaforme di sensori a base di nanotubi di carbonio e grafene, in grado di rilevare specifiche molecole di gas. Questo perché il vino è caratterizzato da particolari componenti organolettiche e volatili, circa 800 diverse componenti, che identificano non soltanto la sua composizione chimica o la tipologia d’uva utilizzata per produrre quel vino, ma possono essere indicative anche per tracciarne la provenienza e controllarne l’origine.


Negli ultimi anni, l’industria vinicola ha cercato tecniche sempre più rapide e affidabili per controllare soprattutto l’origine di quei vini identificati come di Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG) o di denominazione di origine controllata (DOC) e l’analisi delle componenti volatili tramite l’utilizzo di un naso elettronico, grazie alla sensibilità elevata dei sensori, alla risposta rapida e alla facilità di utilizzo, oltre che alla capacità di riconoscere numerose componenti attraverso metodi di analisi multivariata e costi contenuti, è una tecnica che sta prendendo sempre più piede in questo ambito. Il naso elettronico si è dimostrato in grado sia di riconoscere la freschezza e l’adulterazione di un generico vino bianco (in dettaglio, in uno spazio 2D delle componenti principali, si trova un trend in funzione della freschezza del vino, appena aperto, dopo una settimana e dopo mesi dall’apertura della bottiglia), sia di riconoscere con buona precisione i vari vini che sono stati testati (in dettaglio, ciascun vino testato clusterizza in regioni differenti di uno spazio 2D delle componenti principali). Questi risultati preliminari confermano la fattibilità di utilizzare il naso elettronico sviluppato per monitorare la freschezza di un vino e la sua origine, aprendo la strada a possibili test in cantine o aziende vitivinicole.

Neutrini, completato lo scavo delle caverne per l’esperimento Dune

Neutrini, completato lo scavo delle caverne per l’esperimento DuneRoma, 5 feb. (askanews) – Negli Stati Uniti, in South Dakota, a Lead, sono stati completati gli scavi delle caverne che ospiteranno i giganteschi rivelatori di particelle dell’esperimento internazionale DUNE (Deep Underground Neutrino Experiment), a cui lavorano anche scienziati e scienziate dell’Infn, fin dalla sua ideazione. Situate a un miglio sotto la superficie, le tre grandissime caverne – si legge sul sito dell’Istituto nazionale di fisica nucleare – ospiteranno una nuova infrastruttura di ricerca che si estenderà su un’area sotterranea grande quanto otto campi da calcio.


L’obiettivo dell’esperimento DUNE sarà studiare il comportamento dei neutrini per cercare le risposte ad alcune delle più fondamentali domande sul nostro universo: perché è composto di materia? Come una stella che esplode dà origine a un buco nero? I neutrini sono connessi alla materia oscura o ad altre particelle non ancora scoperte? Nelle caverne saranno alloggiati quattro grandi rivelatori di neutrini, ciascuno delle dimensioni di un edificio di sette piani, che saranno riempiti di argon liquido e registreranno le rare interazioni dei neutrini con il liquido. Con DUNE, le ricercatrici e i ricercatori cercheranno di rivelare i neutrini provenienti dalle stelle che esplodono ma studieranno anche il comportamento di un fascio di neutrini prodotto al Fermilab, vicino a Chicago, e che arriverà ai rivelatori dopo un percorso di circa 800 miglia.


Le squadre di ingegneria, costruzione e scavo lavorano dal 2021 nei pressi della Sanford Underground Research Facility, sede dell’esperimento DUNE in South Dakota. Le squadre di costruzione hanno smantellato pesanti attrezzature minerarie e, pezzo per pezzo, le hanno trasportate sottoterra utilizzando un pozzo esistente. Una volta sottoterra, hanno riassemblato l’attrezzatura e hanno trascorso quasi due anni a far saltare e rimuovere la roccia. Quasi 800.000 tonnellate di roccia sono state scavate e trasportate dal sottosuolo in un’ampia ex area mineraria fuori terra, chiamata Open Cut. A breve, – conclude l’Infn – inizieranno i lavori per attrezzare le caverne con i sistemi necessari per l’installazione dei rivelatori di DUNE e per le operazioni quotidiane della struttura di ricerca: l’inizio dell’installazione della struttura in acciaio che ospiterà il primo rivelatore di neutrini è prevista iniziare già quest’anno, con l’obiettivo di rendere operativo il primo rivelatore dell’esperimento entro la fine del 2028.

Gianotti (Cern): scienza e tecnologia essenziali per sfide globali

Gianotti (Cern): scienza e tecnologia essenziali per sfide globaliRoma, 2 feb. (askanews) – “Le settimane Stem sono iniziative estremamente utili per incoraggiare i giovani a intraprendere percorsi di studio o professionali nelle materie scientifiche, tecnologiche e ingegneristiche e anche per riflettere su come formarli al meglio. Non possiamo pensare di affrontare con successo le sfide globali attuali, dalla salute all’energia, al cambiamento climatico, senza l’apporto della scienza e della tecnologia. Inoltre viviamo in un’epoca che è dominata dalla tecnologia e in cui il numero degli impieghi nelle aree Stem cresce tre volte più rapidamente che in ogni altra area. Eppure oggi solo il 25% degli studenti sceglie queste materie all’università. Non stiamo preparando al meglio la forza lavoro necessaria per il futuro della società non stiamo incoraggiando abbastanza le giovani generazioni a scegliere i percorsi professionali che in futuro saranno i più richiesti”. Lo ha detto Fabiola Gianotti, direttrice generale del Cern di Ginevra intervenendo da remoto all’evento “STEM – La chiave del futuro: giovani, donne, imprese” promosso dal ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella in vista della settimana dedicata alle materie tecnico-scientifiche che avrà luogo dal 4 all’11 febbraio.


“Se i giovani vogliono impegnarsi in prima linea su temi quali il clima e l’ambiente lo studio delle materie scientifiche è di cruciale importanza. In modo concreto – ha detto ancora la scienziata, al suo secondo mandato alla guida del più importante laboratorio per lo studio della fisica delle particelle – bisogna introdurre programmi educativi per i bambini a partire dai primissimi anni, scuola elementare e prescolare che insegnino la scienza in modo divertente con metodi atti a sviluppare immaginazione, creatività e capacità di risolvere i problemi. Quando sento i ragazzi dire che odiano la matematica mi chiedo in che modo questa materia sia stata insegnata, perché la matematica è alla base di tutte le scienze e le tecnologie ed è un gioco intellettuale. Se insegnata bene è divertentissima e affascinante. Bisogna aiutare gli insegnanti ad avvalersi di programmi e metodi moderni di insegnamento delle materie Stem anche con esempi pratici e che mostrino l’impatto di queste materie sulla società”. Lo Science Gateway, il centro per l’educazione e la comunicazione scientifica per il grande pubblico di tutte le età, a partire dai 5 anni, inaugurato di recente dal Cern, in circa tre mesi, ha detto Gianotti, “ha attirato 90mila visitatori, la maggior parte studenti e questo dimostra che c’è un grande interesse per la scienza e la tecnologia tra i giovani. Interesse che bisogna stimolare e nutrire e penso che iniziative come Science Gateway siano passi concreti per raggiungere questo scopo”.


Quanto alla presenza femminile nelle materie Stem, “nel mio campo, la fisica, – ha detto Fabiola Gianotti – le donne sono circa il 20%, la frazione più alta è tra le giovani generazioni, circa il 35%, poi comincia a diminuire attorno ai 30 anni quando iniziano i doveri familiari. Bisogna quindi da un lato attirare più ragazze alla scienza con iniziative mirate, ad esempio noi mandiamo regolarmente ingegneri e fisici donne del Cern nelle scuole in Svizzera e in Francia per dare dei ‘role models’ femminili nei campi Stem. Dall’altro bisogna creare le condizioni perché le donne non abbandonino le carriere scientifiche innanzitutto fornendo infrastrutture e modalità lavorative adeguate (asili nido, orari flessibili, smart working, ecc.) che permettano ai genitori, in particolare alle donne, di conciliare vita familiare e vita professionale. Inoltre bisogna monitorare le carriere per assicurare che uomini e donne abbiano lo stesso trattamento in termini di stipendi, promozioni e opportunità di crescita professionale. E bisogna avere più donne nei comitati di selezione per assunzioni e promozioni e in posti apicali, decisionali in università, centri di ricerca e imprese”. “Una solida formazione nelle materie Stem – ha concluso la scienziata – è importante al di là della carriera specifica che i giovani decidono di intraprendere, è una formazione per la vita. Insegnare il metodo scientifico, il giudizio basato sui fatti sperimentali, è importante per combattere le fake news e aumentare la fiducia nella scienza nella società di oggi e in generale formare persone consapevoli indipendentemente dal loro percorso professionale”.

Esa, così EarthCare studierà influenza di nuvole e aerosol sul clima

Esa, così EarthCare studierà influenza di nuvole e aerosol sul climaRoma, 1 feb. (askanews) – Il satellite EarthCARE dell’Agenzia spaziale europea si appresta a fornire una grande quantità di nuove informazioni su come le nuvole e gli aerosol influenzano il clima terrestre. Con il decollo previsto per maggio su un Falcon 9 di SpaceX dalla base aerea di Vandenberg in California, il satellite è stato sottoposto all’ultima serie di test e controlli meticolosi in Germania. Pronto per affrontare il viaggio verso gli Stati Uniti EarthCARE, del peso di due tonnellate, è stato esposto in una camera bianca presso gli stabilimenti Airbus di Friedrichshafen.

Dotato di quattro diversi strumenti, EarthCARE – informa l’Agenzia spaziale europea – è la più complessa delle missioni Earth Explorer dell’Esa, missioni che restituiscono informazioni scientifiche chiave che fanno progredire la nostra comprensione di come funziona il pianeta Terra come sistema e dell’impatto che gli esseri umani stanno avendo sui processi naturali. Con la crisi climatica che stringe sempre più la sua morsa, EarthCARE – Earth Cloud Aerosol and Radiation Explorer – è stato sviluppato per gettare nuova luce sulle complesse interazioni tra nuvole, aerosol e radiazioni all’interno dell’atmosfera terrestre. L’energia nell’atmosfera è un equilibrio tra la radiazione in entrata dal Sole, che riscalda il sistema terrestre, e la radiazione termica in uscita, che raffredda la Terra. Sebbene sia noto che le nuvole svolgono un ruolo estremamente importante nel riscaldamento e nel raffreddamento atmosferico, rimangono una delle maggiori incertezze nella comprensione di come l’atmosfera guidi il sistema climatico. Le nuvole e, in misura minore, gli aerosol riflettono l’energia solare in entrata nello spazio, ma intrappolano anche l’energia infrarossa in uscita. Ciò porta a un effetto netto di raffreddamento o riscaldamento. Inoltre, gli aerosol influenzano il ciclo di vita delle nuvole e quindi contribuiscono indirettamente al loro effetto radiativo.

Il set di quattro strumenti all’avanguardia di EarthCARE – spiega l’Esa – lavorerà insieme per fornire una visione olistica della complessa interazione tra nuvole, aerosol e radiazioni per fornire nuove informazioni sul bilancio delle radiazioni della Terra sullo sfondo della crisi climatica. Il Project Manager EarthCARE dell’Esa, Dirk Bernaerts, ha dichiarato: “È bello vedere EarthCARE in tutto il suo splendore e sono estremamente orgoglioso di ciò che Esa, Jaxa e i nostri partner industriali hanno raggiunto nello sviluppo di questa straordinaria missione. EarthCARE è certamente pronto a dare un contributo importante ai complicati modelli climatici e alle previsioni meteorologiche numeriche”. “EarthCARE si aggiungerà presto alla nostra crescente famiglia di missioni di ricerca Earth Explorer – ha osservato il direttore dei Programmi di Osservazione della Terra dell’Esa, Simonetta Cheli -. Finora, tutte queste missioni hanno superato i loro obiettivi e le aspettative scientifiche e mi aspetto che EarthCARE segua l’esempio. Anche se EarthCARE è una missione dell’Esa, rivolgiamo un ringraziamento speciale alla Japan Aerospace Exploration Agency, Jaxa, che ha fornito il radar di profilazione delle nuvole, uno degli strumenti di misurazione chiave del satellite”.

Il radar di profilazione delle nuvole del satellite fornisce informazioni sulla struttura verticale e sulla dinamica interna delle nuvole, il suo lidar atmosferico fornisce informazioni sulla cima delle nuvole e profili di nuvole sottili e aerosol, il suo imager multispettrale offre un’ampia scena panoramica in più lunghezze d’onda e il suo radiometro a banda larga misura la radiazione solare riflessa e la radiazione infrarossa in uscita. Maximilian Sauer, Project leader di Airbus EarthCARE, ha dichiarato: “EarthCARE ha richiesto 15 anni per essere sviluppato con esperti provenienti da oltre 15 Paesi in Europa, Canada, Stati Uniti e Giappone. E grazie a questo duro lavoro abbiamo un satellite che è destinato a migliorare i modelli climatici. Questo è anche un grande risultato per i colleghi di tre diversi siti Airbus e per le oltre 40 società di subappalto che sono state coinvolte”.

(Credits: ESA/ATG medialab)

Archeologia, identificato l’archivio dell’antica città di Doliche

Archeologia, identificato l’archivio dell’antica città di DolicheRoma, 31 gen. (askanews) – Dagli scavi dell’antica città di Doliche, situata nel sud-est dell’odierna Turchia, emergono i resti di un edificio che, grazie alle numerose impronte di sigillo in terracotta ritrovate dagli archeologi, è stato possibile identificare come l’antico archivio cittadino, il luogo in cui venivano conservati i documenti in papiro e pergamena.

Sono questi i primi risultati della missione archeologica che l’Università di Pisa ha intrapreso la scorsa estate in collaborazione con l’Università di Münster a Doliche, città nota nell’antichità come uno dei centri urbani più importanti dell’antica Siria del Nord. Fondata sotto i successori di Alessandro Magno (i Seleucidi), era stata chiamata come molte altre fondazioni di quella zona col nome della città greca da cui i coloni provenivano: Doliche in Tessaglia, vicino al Monte Olimpo. “Il sito dell’antica Doliche è stato oggetto di indagini tedesche già dagli anni ’70 del secolo scorso – spiega Margherita Facella, professoressa di Storia greca nell’Ateneo di Pisa e direttrice della missione pisana – Dal 2015 un team internazionale sotto la guida del professor Engelbert Winter ha condotto prospezioni e scavi, portando alla luce i resti di alcuni edifici pubblici, tra cui delle terme romane. Accanto a queste terme, erano stati identificate le tracce di un’altra costruzione, ora parzialmente scavata dai nostri archeologi. Si tratta di un archivio cittadino, come rivelano le numerose impronte di sigillo in terracotta qui trovate: più di 2.000 impronte (cosiddette bullae) sono state recuperate nell’area e sottoposte, laddove possibile, a pulizia e restauro. Le impronte di sigillo indicano chiaramente che qui venivano conservati documenti scritti su papiro e pergamena, andati poi distrutti a causa di un incendio”.

Gli antichi documenti venivano sigillati con cordicelle attorno alle quali erano posti grumi di argilla di piccole dimensioni (0,5-2 cm), spesso frammentate e difficili da riconoscere a occhio nudo. Su questa argilla venivano impressi anelli, decorati o iscritti, così da poter sigillare i documenti e impedirne l’apertura. Solo nel caso in cui un archivio sia stato distrutto da un grave incendio, le impronte dei sigilli si possono conservare, in quanto cotte e dunque indurite, mentre i documenti periscono nel fuoco. “Le poleis dell’Oriente ellenistico e romano dovevano certamente possedere archivi per la conservazione di documenti di carattere amministrativo e legale – aggiunge la professoressa Facella – La loro sopravvivenza, tuttavia, è un evento assai raro, possibile solo in caso di incendio e successivo abbandono dell’edificio. Infatti, se da una parte il fuoco causa la distruzione dei documenti, dall’altra consente la cottura dell’argilla cruda su cui i sigilli sono impressi, garantendone così la sopravvivenza. Nel 253 d.C., il re persiano Shapur I distrusse numerose città nella provincia romana della Siria, inclusa Doliche, come conseguenza di una sanguinosa guerra tra l’Impero Romano e quello dei Sasanidi”.

Uno studio preliminare di questi materiali rivela che si tratta sia di sigilli privati come di sigilli ufficiali della città. “Le immagini sui sigilli ufficiali della città sono direttamente collegate alla città. Di solito mostrano le divinità più importanti come Giove Dolicheno, il dio principale della città – spiega Michael Blömer, professore dell’Università di Munster e visiting professor dell’Università di Pisa nel 2023, che ha co-diretto gli scavi – Le impronte dei sigilli privati più piccoli mostrano una vasta gamma di immagini e simboli che dicono molto sul patrimonio culturale e religioso degli abitanti di Doliche. Figure mitiche e rari ritratti privati indicano una forte influenza greco-romana su questa regione a metà fra Oriente e Occidente”. Lo studio di queste impressioni è quindi del tutto essenziale per ricostruire non solo la realtà amministrativa di una città, ma anche il suo tessuto culturale e religioso. “Siamo felici dei risultati di questa prima campagna e siamo grati al rettore Riccardo Zucchi e al professor Federico Cantini, delegato per la promozione della ricerca nel settore delle scienze sociali e umanistiche, per il sostegno economico e a tutto il personale amministrativo che ci ha affiancato in questo lavoro – conclude la professoressa Facella – A nostro avviso è anche importante che il progetto interessi una zona recentemente colpita da un devastante terremoto, in cui l’investimento di risorse è di sicuro aiuto per la popolazione, che ha trovato nelle strutture della missione archeologica un rifugio e da parte del gruppo di ricerca un aiuto concreto. La valorizzazione del patrimonio archeologico a fini turistici sarebbe poi indubbiamente un apporto significativo alla ripresa di questa regione, che vive molto di turismo interno ed esterno”.

FiloBot: il robot che cresce e si muove come una pianta rampicante

FiloBot: il robot che cresce e si muove come una pianta rampicanteRoma, 29 gen. (askanews) – Anche i robot possono crescere e muoversi nell’ambiente come le piante rampicanti. È il risultato ottenuto dal gruppo di ricerca dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) a Genova che ha progettato FiloBot, un robot che è in grado di costruire autonomamente il proprio corpo dalla punta grazie a una tecnica di stampa 3D direttamente integrata nel robot stesso. L’invenzione è stata descritta in un articolo pubblicato di recente sulla prestigiosa rivista scientifica “Science Robotics”. L’invenzione – informa l’IIT – potrà trovare applicazione nel monitoraggio ambientale e nella perlustrazione di ambienti naturali complessi o difficili da raggiungere.

La ricerca è stata realizzata dal gruppo coordinato da Barbara Mazzolai, Associate Director per la Robotica di IIT e a capo del laboratorio Bioinspired Soft Robotics di IIT a Genova. L’idea nasce dall’osservazione delle piante e dalle loro strategie di esplorazione ambientale. In particolare, il progetto europeo GrowBot, coordinato da Mazzolai, mirava a trarre ispirazione dalle piante rampicanti che mostrano notevoli capacità adattative dei loro corpi flessibili. Le piante, infatti, si muovono nell’ambiente attraverso la divisione cellulare e l’allungamento implementato alle estremità dei germogli e delle radici in risposta a stimoli esterni, come luce o gravità, con comportamenti chiamati tropismi. Il robot FiloBot è stato ideato in modo che costruisca il proprio corpo crescendo da una delle sue estremità – rappresentata da una testa robotizzata – proprio come la crescita apicale adottata nelle piante. La crescita è resa possibile da una tecnica di stampa 3D additiva che il gruppo ha integrato nel robot stesso; il materiale usato è una termoplastica (PLA) che viene stesa sottoforma di filo che gira intorno all’asse del corpo del robot. Questa tecnica consente al robot di adattare la sua forma all’ambiente con cui entra in contatto in modo passivo, ovvero sfruttando le proprietà del materiale di cui è composto e seguendo le caratteristiche del supporto o del luogo in cui cresce.

Il movimento di FiloBot è guidato da alcuni sensori ambientali che riproducono le capacità sensoriali delle piante rampicanti e i comportamenti a loro associati, chiamati tropismi. Il robot è in grado di sentire la forza di gravità e di analizzare il tipo di luce che lo circonda, e di conseguenza determinare in modo attivo la direzione di crescita. Le piante, infatti, hanno la capacità di riconoscere se la luce circostante possiede una componente blu, la quale attiva la fotosintesi, oppure una percentuale di rosso e infrarosso, che indica la presenza di altri vegetali. La combinazione di adattamento passivo e attivo fa sì che FiloBot acquisisca configurazioni diverse ogni volta che viene rilasciato. “La natura sessile delle piante ci porta a pensare che non si muovano. Al contrario, si muovono continuamente in modo mirato, efficace ed efficiente, ma su una scala temporale non facilmente percepibile dall’essere umano se non attraverso strumenti di osservazione, come ad esempio il time-lapse,” commentano Barbara Mazzolai ed Emanuela Del Dottore, prima autrice dello studio. “Per spostarsi da un punto all’altro, le piante devono crescere e adattare continuamente il proprio corpo alle condizioni ambientali esterne. Alla luce di questa osservazione, abbiamo compreso come la crescita apicale sia un prerequisito importante per esprimere una forma di movimento e adattamento nei robot come nelle piante”.

Le funzionalità racchiuse nel robot FiloBot gli consentono di navigare in ambienti 3D non strutturati in modo adattivo, riducendo i costi di costruzione in termini di energia e impiego di materiale. Queste capacità adattive possono essere preziose per applicazioni di monitoraggio ambientale, per accompagnare operazioni di perlustrazione in ambienti altamente complessi, misurare l’inquinamento ambientale in aree pericolose, esplorare ambienti naturali o in generale in applicazioni in cui è difficile prevedere o pilotare un percorso esatto attraverso terreni sconosciuti e mutevoli. (Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved)

Beyond Epica, conclusa con successo terza campagna di perforazione

Beyond Epica, conclusa con successo terza campagna di perforazioneRoma, 29 gen. (askanews) – In Antartide si è conclusa con successo la terza campagna di perforazione del progetto Beyond EPICA (European Project for Ice Coring in Antarctica) – Oldest Ice, presso il campo remoto Little Dome C (LDC).

Diventa ogni anno più reale l’obiettivo di tornare indietro nel tempo di 1,5 milioni di anni per ricostruire le temperature del passato e le concentrazioni di gas serra, attraverso l’analisi di una carota di ghiaccio estratta dalle profondità della calotta glaciale. Finanziato dalla Commissione Europea con 11 milioni di euro e con contributi da parte delle nazioni partecipanti, il progetto, iniziato nel 2019 e della durata di sette anni, – informa una nota – è coordinato da Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp) e professore all’Università Ca’ Foscari Venezia. Dodici i centri di ricerca partner del progetto, provenienti da dieci Paesi europei ed extraeuropei. Per l’Italia, oltre al Cnr e all’Università Ca’ Foscari, l’Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile (ENEA), che si occupa insieme all’Istituto Polare francese (IPEV) del modulo di lavoro relativo alla logistica.

Dalla metà di novembre 2023 alla metà di gennaio 2024, in quasi otto settimane di lavoro, il team internazionale ha raggiunto una profondità di oltre 1.800 metri: a questa profondità il ghiaccio conserva informazioni sul clima e sull’atmosfera degli ultimi 195.000 anni. Trascorsi i primi giorni, dedicati alla riapertura del campo, il team composto da scienziati e tecnici europei provenienti da 6 nazioni si è riunito a LDC e ha organizzato il lavoro in due turni, lavorando per 16 ore al giorno senza soste con il prezioso carotiere, proveniente dall’Alfred-Wegener-Institut in Germania e dall’Università di Copenhagen in Danimarca. “Il carotiere ha prodotto carote di ghiaccio di 4,5 metri di lunghezza e abbiamo perforato la calotta per oltre 1000 metri in 6 settimane, raccogliendo carote di ghiaccio di alta qualità e raggiungendo una profondità finale di 1836,18 metri”, afferma Matthias Hüther, chief driller dell’Alfred-Wegener-Institut.

L’obiettivo finale del progetto è raggiungere una profondità di circa 2.700 metri, che rappresenta lo spessore della calotta di ghiaccio sotto Little Dome C, un’area di 10 chilometri quadrati situata a 3.233 metri sul livello del mare, a 34 chilometri dalla stazione franco-italiana Concordia, uno dei luoghi più estremi della Terra. “Questa stagione è stata abbastanza regolare: abbiamo avuto un avvio lento, ma poi il team ha lavorato intensamente e ha ottenuto risultati sorprendenti, lavorando instancabilmente per due mesi al campo di Little Dome C. Anche il processamento delle carote è andato molto bene: in soli due mesi, il team è riuscito a completare l’operazione di processing delle carote di ghiaccio estratte durante la scorsa stagione e a mettersi al passo con la profondità di perforazione di quest’anno”, afferma Carlo Barbante.

Durante questa stagione di perforazione 23/24, sono stati processati 1.367 metri di carote di ghiaccio nella trincea scientifica installata a Little Dome C, con osservazioni sulle carote, misurazioni dei parametri di conducibilità e con i primi tagli. In questa stagione sono state inoltre effettuate alcune analisi preliminari presso la Stazione Concordia: la determinazione della composizione isotopica dell’idrogeno e dell’ossigeno, realizzata con uno spettrometro laser sulle carote di ghiaccio appena estratte, permetterà al team di Beyond EPICA di avere alcuni dati preliminari da osservare. “Queste analisi sul campo ci permettono di confrontare alcune caratteristiche della carota di ghiaccio di Beyond EPICA con la carota di ghiaccio del precedente progetto EPICA perforata a Dome C. I dati ottenuti sono importanti per fornire una datazione preliminare delle carote di ghiaccio finora estratte e per studiare la conservazione del segnale climatico”, afferma Amaelle Landais, direttrice di ricerca presso il Laboratorio di Scienze Climatiche e Ambientali del Centro Nazionale Francese per la Ricerca Scientifica. “Riteniamo che questa carota di ghiaccio ci fornirà informazioni sul clima del passato e sui gas serra presenti nell’atmosfera durante la Transizione Medio-Pleistocenica (MPT), avvenuta tra 900.000 e 1,2 milioni di anni fa”, conclude Carlo Barbante. “Durante questa transizione, la ciclicità del clima tra le ere glaciali è passata da 41.000 a 100.000 anni: il motivo per cui ciò è accaduto è il mistero che speriamo di risolvere”. Presto le casse con i campioni di ghiaccio di Beyond EPICA raggiungeranno il continente europeo con la rompighiaccio Laura Bassi, dotata di due container refrigerati a – 50°C, che garantiranno le migliori condizioni per conservare i preziosi campioni durante il lungo viaggio attraverso gli emisferi. (Credits: Beyond EPICA©PNRA/IPEV)

Studio ricostruisce l’aspetto dell’enorme squalo estinto Megalodon

Studio ricostruisce l’aspetto dell’enorme squalo estinto MegalodonRoma, 28 gen. (askanews) – Da anni gli studiosi si interrogano sull’aspetto di Megalodon, enorme squalo estinto vissuto milioni di anni fa, e finalmente la risposta sembra essere arrivata. Un nuovo studio scientifico, a cui ha preso parte anche Alberto Collareta, paleontologo presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, ha dimostrato infatti che il gigantesco squalo – noto con il nome scientifico di Carcharocles megalodon (o Otodus megalodon) – era provvisto di un corpo più slanciato di quanto suggerito dagli studi precedenti.

“Nei romanzi e nei film di fantascienza il Megalodon è tipicamente rappresentato come uno squalo mostruoso e dalle proporzioni titaniche – spiega il dottor Alberto Collareta, unico italiano a far parte del team di 26 scienziati internazionali autori dello studio -. Ciò non deve stupire, in quanto la taglia massima di questo squalo, uno dei più grandi predatori marini mai esistiti, è oggi stimata intorno a 15-20 metri di lunghezza totale e vi sono pochi dubbi riguardo alla sua dieta ipercarnivora”. “Comprendere la biologia, l’evoluzione e l’estinzione del Megalodon – prosegue Collareta – è importante alla luce dell’impatto significativo che tale specie deve aver avuto sull’ecologia e sull’evoluzione degli ecosistemi marini che hanno dato origine agli oceani moderni. Tuttavia, la documentazione fossile del Megalodon è quasi essenzialmente rappresentata dai caratteristici enormi denti, mentre i reperti scheletrici sono estremamente rari”.

Proprio la mancanza di scheletri completi riferiti al Megalodon – spiega Unipi – ha da sempre indotto gli studiosi a ricostruire l’aspetto di questo antico gigante dei mari modellandolo su quello dell’attuale squalo bianco (Carcharodon carcharias). Ipotesi adesso confutata dal lavoro del gruppo di ricerca internazionale di cui Collareta fa parte e che ha da poco pubblicato un nuovo studio sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale “Palaeontologia Electronica”. Studio che dimostra come il Megalodon avesse una forma del corpo più slanciata rispetto a quella che caratterizza lo squalo bianco. “Questa deduzione – spiega ancora il ricercatore – deriva dalla revisione di un set incompleto di vertebre fossili appartenenti ad un unico esemplare di Megalodon scoperto in Belgio nel diciannovesimo secolo. In particolare, la lunghezza totale del corpo di tale esemplare, se stimata sulla base del diametro delle vertebre dello squalo bianco attuale, risulta molto minore della lunghezza della sola colonna vertebrale incompleta (9,2 metri vs 11,1 metri)”. “Questa semplice osservazione – conclude Collareta – suggerisce fortemente che il Megalodon non fosse meramente riconducibile ad una versione più voluminosa del moderno grande squalo bianco, ma che differisse da quest’ultimo per una fisionomia più slanciata”.

Sebbene, in assenza di reperti scheletrici completi, l’esatta forma del corpo del Megalodon rimanga ancora incerta, – conclude Unipi – i risultati presentati in questa nuova ricerca costituiscono l’evidenza empirica più cogente di tale forma e rappresentano un passo avanti significativo verso la sua ricostruzione.