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Mapplethorpe oltre gli stereotipi: fotografia e libertà radicale

Mapplethorpe oltre gli stereotipi: fotografia e libertà radicaleVenezia, 10 apr. (askanews) – Robert Mapplethorpe è stato un grande fotografo, uno di quelli che sanno cogliere il senso del loro tempo e che diventano rapidamente creatori dell’immaginario collettivo, andando al di là di ogni possibile etichetta o definizione limitativa. Le Stanze della Fotografia a Venezia gli dedicano una grande retrospettiva, prima tappa di un progetto che coinvolgerà anche Milano e Roma, e che racconta Mapplethorpe fin dagli esordi con i collage. Per poi allargarsi all’intera carriera del fotografo.


“Tutti questi lavori – ha detto ad askanews Denis Curti, curatore della mostra e direttore delle Stanze della Fotografia – che sono i fiori, i ritratti, le statue, gli autoritratti, Lisa Lyon, Patti Smith… li ha fatti tutti contemporaneamente, li ha portati avanti per vent’anni, li ha portati avanti per tutta la sua carriera. L’aspetto che mi ha molto colpito, e credo che questa mostra riesca in qualche modo a darne conto, era l’idea di una grande consapevolezza di ciò che Mapplethorpe voleva raccontare. Grazie alla disponibilità della fondazione Mapplethorpe siamo riusciti a creare degli abbinamenti visivi che non si erano mai visti”. Il capitolo veneziano, intitolato “Le forme del classico”, esplora la volontà di creare vere e proprie sculture attraverso le fotografie, calandosi allo stesso tempo profondamente nella realtà del suo presente attraverso i propri soggetti. E poi c’è un talento per il ritratto che è talmente spiccato da sembrare invisibile, come se scomparisse. A restare sono i volti immortalati, per i quali spesso il ritratto di Mapplethorpe diventa l’immagine con cui ricordiamo quei personaggi. La mostra veneziana è inoltre una presa di posizione sul modo in cui interpretiamo la figura e il lavoro del fotografo americano.


“C’è un elemento che per me è fondamentale ribadire – ha detto ancora il curatore – ed è che questa mostra vuole spostare l’attenzione nei confronti di Mapplethorpe dal fotografo della provocazione e della pornografia, che è lontanissima dalla sua idea, per parlare di un fotografo professionista, che lavorava per clienti privati, lavorava per i giornali e che lavorava tutti i santi giorni nel suo studio fotografando e stampando”. E anche sulle “appropriazioni” del lavoro di Mapplethorpe, alle Stanze della Fotografia hanno le idee chiare: “Non voleva essere il paladino di niente – ha concluso Denis Curti – non era un militante. Lui faceva il suo lavoro e raccontava la sua vita. Questo stupido e banale e scontato cliché per cui Robert Mapplethorpe è un fotografo della provocazione secondo me sta negli occhi di chi guarda, non sta in queste fotografie”.


Questo aspetto è molto interessante, perché se si concede un minimo di spazio al ragionamento sulla meta fotografia ecco che possiamo immaginare che sia la mostra a osservare noi e il modo in cui guardiamo ai fenomeni artistici e culturali e a quanti limiti a volte andiamo a costruire, insieme alle definizioni troppo spesso semplicistiche e riduttive. La fotografia di Mapplethorpe sembra invece superarli i limiti, nel segno di una libertà radicale che resta il messaggio più forte e, questo sì, sovversivo, della mostra. (Leonardo Merlini)

Scopigno, la Treccani omaggia il maestro del calcio difensivo e del contropiede

Scopigno, la Treccani omaggia il maestro del calcio difensivo e del contropiedeRoma, 7 apr. (askanews) – A 100 anni dalla nascita l’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani ricorda il tecnico legato allo storico scudetto del Cagliari, matematicamente conquistato il 12 aprile 1970;personaggio atipico del calcio italiano, anticonformista e dotato di un tagliente umorismo. Il Cagliari di Gigi Riva è passato alla storia con lo scudetto vinto nel 1970 grazie ai goal di uno dei cannonieri più celebri della storia del calcio. Ma questo grande traguardo si deve anche a Manlio Scopigno, un allenatore atipico, come lo definisce l’Enciclopedia dello Sport Treccani, di cui ricorrono quest’anno i 100 anni dalla nascita, avvenuta il 20 novembre 1925 a Paularo (Udine).


Il destino ha giocato con lui un ruolo particolare, considerato che vinse il Seminatore d’oro nel 1967 ma nello stesso anno fu licenziato dal Cagliari. Richiamato però nel 1968, conquistò matematicamente lo storico scudetto battendo il 12 aprile 1970 il Bari, dando il meglio a Cagliari ma anche a Vicenza, dove chiuse la carriera. Personaggio atipico del calcio italiano, fu maestro del calcio difensivo all’italiana e del contropiede e dissacratore dei luoghi comuni ed è ricordato ancora oggi per il suo tagliente umorismo, per la sua intelligenza e per il suo anticonformismo. Morì a Rieti il 25 settembre 1993.

”Il partigiano che divenne imperatore”, in libreria la vera storia di Ilio Barontini

”Il partigiano che divenne imperatore”, in libreria la vera storia di Ilio BarontiniRoma, 5 apr. (askanews) – E’ in libreria per Laterza “Il partigiano che divenne imperatore” nuovo lavoro del giornalista e scrittore spezzino Marco Ferrari, già autore, fra l’altro, di “Mare verticale, dalle Cinque Terre a Bocca di Magra”; “L’incredibile storia di António Salazar, il dittatore che morì due volte”; “Ahi, Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol”; “Alla rivoluzione sulla Due Cavalli, con ritorno a Lisbona 50 anni dopo”.


Il nuovo libro di Ferrari racconta una storia vera e dimenticata in cui si respira l’odore acre del Novecento ma che potrebbe uscire dalle pagine di Graham Greene. Siamo nel 1938, Ilio Barontini, comunista livornese, ha combattuto nella guerra di Spagna tanto da diventare l’eroe della battaglia di Guadalajara, dove le brigate internazionali sconfissero i fascisti. A Parigi viene scelto dai servizi segreti francesi e britannici per una missione rischiosissima: organizzare le forze partigiane abissine che devono resistere alla conquista fascista. Dopo molti colloqui con il segretario del Negus, le autorità francesi e i dirigenti del Partito Comunista, raggiunge le zone sotto il controllo della resistenza attraversando Egitto e Sudan con le credenziali di Hailé Selassié trascritte su fazzoletti di seta per sfuggire al controllo nemico. Nell’estate del ’39 venne raggiunto da Anton Ukmar, ex ferroviere sloveno di Gorizia conosciuto in Spagna, da Bruno Rolla, comunista spezzino, dal colonnello Paul Robert Monnier del Deuxième Bureau, il servizio di informazioni militari, e dal segretario del Negus Lorenzo Talzar. Mussolini aveva conquistato con l’uso dell’iprite i villaggi e le città più importanti, la ferrovia Addis Abeba-Gibuti e le principali vie di comunicazione, ma una parte considerevole del territorio era ancora in mano agli Arbegnuoc, i patrioti etiopi.


Barontini formò un esercito di oltre 250 mila uomini composto da piccole formazioni mobili e venne nominato dal Negus vice-imperatore di Abissinia. Dotato dello scettro imperiale, il comunista di Livorno tenne a bada i vari Ras, portò a termine missioni importanti e pubblicò un giornale bilingue, “La voce degli Abissini”, tanto da diventare una leggenda. La missione terminò nel giugno 1940, quando i tre amici intrapresero la via del ritorno tra malattie e assalti di predoni. Si ritrovarono miracolosamente vivi a Khartum dove scattarono l’unica fotografia che li ritrae tutti e tre insieme. Marco Ferrari, giornalista e scrittore spezzino, per AU del territorio era ancora in mano agli Arbegnuoc, i patrioti etiopi. Barontini formò un esercito di oltre 250 mila uomini composto da piccole formazioni mobili e venne nominato dal Negus vice-imperatore di Abissinia. Dotato dello scettro imperiale, il comunista di Livorno tenne a bada i vari Ras, portò a termine missioni importanti e pubblicò un giornale bilingue, “La voce degli Abissini”, tanto da diventare una leggenda. La missione terminò nel giugno 1940, quando i tre amici intrapresero la via del ritorno tra malattie e assalti di predoni. Si ritrovarono miracolosamente vivi a Khartum dove scattarono l’unica fotografia che li ritrae tutti e tre insieme.


ornalista e scrittore spezzino, per AU del territorio era ancora in mano agli Arbegnuoc, i patrioti etiopi. Barontini formò un esercito di oltre 250 mila uomini composto da piccole formazioni mobili e venne nominato dal Negus vice-imperatore di Abissinia. Dotato dello scettro imperiale, il comunista di Livorno tenne a bada i vari Ras, portò a termine missioni importanti e pubblicò un giornale bilingue, “La voce degli Abissini”, tanto da diventare una leggenda. La missione terminò nel giugno 1940, quando i tre amici intrapresero la via del ritorno tra malattie e assalti di predoni. Si ritrovarono miracolosamente vivi a Khartum dove scattarono l’unica fotografia che li ritrae tutti e tre insieme. Bocca di Magra; L’incredibile storia di António Salazar, il dittatore che morì due volte; Ahi, Sudamerica! Oriundi, tango e fútbol; Alla rivoluzione sulla Due Cavalli. con Ritorno a Lisbona 50 anni dopo. Un fantasma si aggira per l’Europa e per l’Africa. È il fantasma di un uomo che guida le Brigate internazionali in Spagna, e poi attraversa i deserti del Sudan. Un fantasma che diventa imperatore d’Etiopia per conto di Hailé Selassié e guida i partigiani abissini contro i fascisti italiani. Un fantasma che ha un nome, Ilio Barontini, e questa è la sua storia.


Questo libro racconta una storia vera e dimenticata. Una storia in cui si respira l’odore acre del Novecento ma che potrebbe uscire dalle pagine di Graham Greene. Siamo nel 1938, Ilio Barontini, comunista livornese, ha combattuto nella guerra di Spagna tanto da diventare l’eroe della battaglia di Guadalajara, dove le brigate internazionali sconfissero i fascisti. A Parigi viene scelto dai servizi segreti francesi e britannici per una missione rischiosissima: organizzare le forze partigiane abissine che devono resistere alla conquista fascista. Dopo molti colloqui con il segretario del Negus, le autorità francesi e i dirigenti del Partito Comunista, raggiunge le zone sotto il controllo della resistenza attraversando Egitto e Sudan con le credenziali di Hailé Selassié trascritte su fazzoletti di seta per sfuggire al controllo nemico. Nell’estate del ’39 venne raggiunto da Anton Ukmar, ex ferroviere sloveno di Gorizia conosciuto in Spagna, da Bruno Rolla, comunista spezzino, dal colonnello Paul Robert Monnier del Deuxième Bureau, il servizio di informazioni militari, e dal segretario del Negus Lorenzo Talzar. Mussolini aveva conquistato con l’uso dell’iprite i villaggi e le città più importanti, la ferrovia Addis Abeba-Gibuti e le principali vie di comunicazione, ma una parte considerevole del territorio era ancora in mano agli Arbegnuoc, i patrioti etiopi. Barontini formò un esercito di oltre 250 mila uomini composto da piccole formazioni mobili e venne nominato dal Negus vice-imperatore di Abissinia. Dotato dello scettro imperiale, il comunista di Livorno tenne a bada i vari Ras, portò a termine missioni importanti e pubblicò un giornale bilingue, “La voce degli Abissini”, tanto da diventare una leggenda. La missione terminò nel giugno 1940, quando i tre amici intrapresero la via del ritorno tra malattie e assalti di predoni. Si ritrovarono miracolosamente vivi a Khartum dove scattarono l’unica fotografia che li ritrae tutti e tre insieme

Il mistero dell’interpretazione, Thomas Schütte e la figura umana

Il mistero dell’interpretazione, Thomas Schütte e la figura umanaVenezia, 5 apr. (askanews) – Inclassificabile, mutevole, ironico e inquieto. Sono quattro aggettivi che spesso capita di trovare associati al lavoro di Thomas Schütte, artista tedesco cui Punta della Dogana a Venezia dedica la prima grande retrospettiva in Italia, intitolata “Genealogies”. Un viaggio che in fondo ha a che fare con le domande fondamentali sull’umano, ma che prende spesso forme inattese e stranianti. E la mostra si muove lungo due filoni intrecciati.


“Il primo percorso – ha detto ad askanews Camille Morineau, co-curatrice della mostra – riguarda la scultura. Abbiamo 50 pezzi dalla collezione di Francois Pinault che sono davvero il centro della mostra. La maggior parte di loro sono veri capolavori ed erano stati esposti prima. E poi il secondo percorso, che è un dialogo con la scultura, e riguarda il disegno. E la maggior parte di queste opere non sono mai state viste, come quella alle mie spalle che è una serie di dipinti su grandi striscioni. È un secondo filone narrativo che va dagli anni ’70 a oggi ed è universo che si muove in parallelo rispetto a quello della scultura”. La mostra veneziana vuole mettere in evidenza come la produzione su carta di Schütte sia centrale anche nel lavoro, più noto al grande pubblico, delle sculture, che pur nella loro imponenza, restano degli esempi chiari di non-monumentalità e di non-retorica: i corpi sono indefinibili, proteiformi, forse ibridi, le gambe affondano nel fango e l’identità è un’illusione. “Non si capisce come interpretare queste figure umane – ha aggiunto Jean-Marie Gallais, curatore della Pinault Collection e co-curatore della mostra – e c’è un collegamento con la storia dell’arte. Fin dall’inizio dell’umanità, rappresentiamo corpi umani, rappresentiamo gli altri. E la mostra è piena di domande affascinanti su come possiamo rappresentare qualcun altro”.


Domande che, come è giusto che sia, non diventano mai risposte, ma prendono tante possibili diverse strade, fino a convincerci che il punto di tutta la mostra è la nostra partecipazione a un mistero, probabilmente quello del nostro stesso essere umani. “Non è un mistero la realizzazione – ha aggiunto Gallais – questa è molto visibile. Si vedono tutte le tracce degli utensili, si vede a volte una certa struttura: si vedono i materiali che usa: acciaio, bronzo, vetro, ma anche argilla. E si vedono molte tracce della fabbricazione. Ma il mistero è nell’interpretazione e questa rimane aperta”. Tra tante suggestioni possibili, tra le quali anche una sorta di tassonomia delle forme dell’immaginario di Thomas Schütte, ce ne è una che invece riguarda la storia espositiva recente di Punta della Dogana, come se un sottilissimo filo legasse in modo invisibile, ma presente, le grandi mostre che sono state ospitate qui e che in questo caso può prendere la forma di echi dell’esposizione di Damien Hirst del 2017 così come di quella del 2024 di Pierre Huyghe. Entrambe, a nostro avviso, indimenticabili.

Al Museo del Bijou di Casalmaggiore la mostra “Gioielli di Gusto”

Al Museo del Bijou di Casalmaggiore la mostra “Gioielli di Gusto”Roma, 4 apr. (askanews) – In esposizione a Palazzo Morando – Costume Moda Immagine di Milano nel 2015 in occasione di Expo dedicato al tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, l’esclusiva mostra “Gioielli di Gusto. Racconti fantastici tra ornamenti golosi” celebra quest’anno il decennale al Museo del Bijou di Casalmaggiore in provincia di Cremona, suggestivo spazio unico in Italia che conserva, racconta e valorizza un secolo di storia del costume e della moda dell’intero settore.


In mostra dal 12 aprile al 28 settembre 2025, un prezioso punto di incontro fra i mondi del “bijou” e quello del cibo, proponendo un’accurata selezione di favolosi pezzi d’autore da indossare per una riflessione sia seria, sia surreale e fantastica, sul rapporto tra jewelry e food. “Gioielli di Gusto” è un evento promosso dal Comune di Casalmaggiore e dal Museo del Bijou, grazie al significativo contributo di Alimentis Azienda specializzata nelle forniture per la ristorazione di alta gamma, ambassador dell’arte gourmet italiana.


Le delizie della tavola, nella loro espressione di ricchezza, prosperità e benessere, ripercorrono la storia del gioiello, dagli ornamenti antichi a quelli contemporanei in infinite creazioni griffate. Uva, melograni, ananas, fragole, frumento, baccelli di pisello, funghi, pomodori, pasta, pesci, granchi, uova e selvaggina… senza dimenticare il mood “drink”, suggerito in maniera più o meno sfiziosa da anelli da cocktail e oggetti maschili come i gemelli da polso. È da questo originalissimo concept che ha preso forma la mostra ideata da Mara Cappelletti, storica del gioiello, realizzata nel 2015 con il prezioso contributo delle curatrici Maria Canella (sezione Fashion), Mariateresa Chirico e Anty Pansera (sezione Contemporary) e impreziosita dagli allestimenti di Alejandro Ruiz, geniale designer di fama internazionale che ha saputo creare uno scenario poetico e delicato, composto di origami.


A distanza di dieci anni dalla sua “prima”, Gioielli di Gusto si presenta dunque al Museo del Bijou di Casalmaggiore in una nuova ulteriore veste, orientata sì al bijou storico e fashion, ma con nuove incursioni nel prestigioso ambito contemporaneo. Quelle forme, quei colori che ispirano da sempre artigiani illustri e stilisti di moda, un’arte sopraffina, unita alla fantasia dei designer, grazie alla quale il cibo, svincolato dalla sua funzione principe, si trasforma in oggetto cult, particolare, divertente. Un’interpretazione che va dall’iconico all’ironico del prezioso bijou.


È questo il fil rouge di “Gioielli di Gusto” che mostra come il cibo sia da stimolo per la creatività, sottolineandone la sua valenza estetica e anche culturale. “Il tema food” – spiega Mara Cappelletti, ideatrice e curatrice della mostra – “è proposto in maniera ricorrente negli ornamenti. Sia i ‘pezzi’ più preziosi, ma anche i bijoux vintage, quelli contemporanei e quelli della griffe della moda, hanno interpretato nel corso della storia e in modi diversi, il mondo della tavola. Con questa mostra abbiamo voluto esplorare e rappresentare tutti questi ambiti. Grazie all’appassionato lavoro di ricerca svolto, chi visiterà la mostra al Museo del Bijou, si immergerà in una serie di ‘racconti fantastici’, che accomunano il piacere estetico a quello del gusto”. La mostra si snoda in un percorso che conduce il visitatore tra gli ornamenti più golosi, attraverso tre aree distinte. IL GUSTO DELLA MODA: le ispirazioni gustose non mancano nella moda che spesso ricorre a frutti, gelati, dolci, bacche, pasta e persino uova per dare forma ai bijoux e agli accessori più divertenti. Moschino, Ferrè, Valentino, Missoni, solo per citarne alcuni, si sono rifatti al tema ‘cibo’ per realizzare le loro creazioni. IL GUSTO CONTEMPORARY: la sezione presenta una collezione di pezzi unici o realizzati in piccolissime serie, inerenti al tema, tra i più interessanti del panorama italiano e internazionale, frutto di un’accurata ricerca sulle forme e sui materiali. Tra questi i gioielli di Lucilla Giovanninetti, Angela Simone, Barbara Uderzo e Eleonora Ghilardi. IL GUSTO VINTAGE: questa sezione ospita una serie di bijoux appartenenti al periodo compreso dalla seconda metà dell’Ottocento fino agli anni Novanta del Novecento, con pezzi dei grandi bigiottieri internazionali come Trifari e italiani come Ornella Bijoux e Sharra Pagano, compresi i bijoux “golosi” che appartengono alla collezione del Museo.

A Roma la prima mostra personale di Valeria Carrieri

A Roma la prima mostra personale di Valeria CarrieriRoma, 4 apr. (askanews) – Domani 5 aprile Valeria Carrieri popola di ninfe Casa Vuota, in occasione di “Portagioie”, la sua prima mostra personale, che si inaugura dalle ore 18 alle 21 (via Maia 12 interno 4A – metro Porta Furba Quadraro).


E’ una prima restituzione al pubblico di un progetto di ricerca che l’artista porta avanti a partire dal 2022 sulle figure mitologiche delle ninfe e sulla rilettura del mito antico. Viene presentata nella forma di una grande installazione site-specific costruita dall’artista per abitare lo spazio espositivo domestico, secondo le regole di una sintassi onirica che dispone sculture, dipinti e ricami in dialogo tra loro. Alcune opere che Valeria Carrieri ha realizzato per Casa Vuota si pongono in dialogo diretto con opere di artiste del Novecento appartenenti alla collezione dei padroni di casa (Ercolina Baroni, Paola Consolo, Nedda Guidi e Antonietta Raphaël).


La mostra é visitabile su appuntamento fino al 1 giugno.

Biennale Architettura, i Leoni d’oro a Donna Haraway e Italo Rota

Biennale Architettura, i Leoni d’oro a Donna Haraway e Italo RotaMilano, 4 apr. (askanews) – I Leoni d’oro della 19esima Biennale di Architettura di Venezia sono stati assegnati alla filosofa statunitense Donna Haraway e all’architetto, progettista e designer italiano Italo Rota, a un anno dalla sua morte. Ad Haraway va il Leone d’Oro alla Carriera, mentre a Rota il Leone d’Oro Speciale alla Memoria.


La decisione è stata approvata dal Cda della Biennale presieduto da Pietrangelo Buttafuoco, su proposta di Carlo Ratti, Curatore della Biennale di Architettura, quest’anno intitolata “Intelligens. Naturale. Artificiale. Collettiva”, che aprirà al pubblico il prossimo 10 maggio, giorno anche delle premiazioni. “Donna Haraway – ha dichiarato Carlo Ratti – è una delle voci più riconoscibili del pensiero contemporaneo a cavallo tra scienze sociali, antropologia, critica femminista e filosofia della tecnologia. Negli ultimi quattro decenni ha saputo esplorare, in maniera multidisciplinare e con una costante capacità di invenzione linguistica, temi come l’impatto dell’evoluzione tecnologica sulla nostra natura biologica, o i modi in cui il contesto ambientale del Chthulucene stiano ridefinendo i confini tra umano e non umano. Haraway ha inventato questa definizione – sulla scia dello scrittore statunitense H.P. Lovecraft – come alternativa al termine ‘Antropocene’ (normalmente usato per definire l’impatto umano sulla Terra) per enfatizzare l’urgenza della coesistenza e della simbiosi con altre specie”.


“Quale che sia la prospettiva che si adotta nel leggere la convergenza delle molteplici forme di intelligenza nel plasmare il nostro futuro – ha aggiunto il curatore – il pensiero di Donna Haraway si ripropone sempre come imprescindibile. Il suo lavoro e la sua filosofia, dalla radicale natura critica e al contempo ottimista e immaginativa, si distinguono per il loro impegno nel creare mondi alternativi: visioni positive in cui le difficoltà del presente possano essere superate o mitigate attraverso la creazione di nuovi miti e la coltivazione di nuove forme di parentela. Il suo contributo al modo in cui s’intendono la scienza, la tecnologia, l’etnia, il genere, la geografia e la storia ambientale dell’umanità ha lasciato segni indelebili nello studio di ciascuno di questi concetti, ed è evidente che abbia dato il via all’idea che le intelligenze naturali, artificiali e collettive agiscano insieme. Mentre i progettisti si confrontano con un presente in rapida trasformazione, in cui natura, tecnologia e società manifestano sintomi di divergenza dal mondo per come lo conosciamo, la teoria di Haraway ci dà forza e le sue osservazioni ci guidano. Riconosciamo con gratitudine la letteratura visionaria che ha creato nel corso della sua vita e che dona al futuro e celebriamo le ispirazioni che il suo pensiero offre all’architettura, espresse in questa Mostra e al di là di essa” “Italo Rota – ha detto ancora Ratti – è stato un precursore. La sua visione era quella di un mondo in cui la rilevanza delle entità viventi e della biologia in generale, la natura nella definizione più ampia possibile, infine la scienza e la tecnologia applicata erano unite in un’unica entità vivente. Nella sua vita, ha avuto la straordinaria capacità di attraversare il secondo Novecento e il primo quarto del nuovo secolo, volando al di sopra degli stili e delle maggiori culture del design, affermandosi come una delle figure più originali dell’architettura italiana ed europea. Formatosi con maestri quali Franco Albini, Vittorio Gregotti e Gae Aulenti, ha coltivato un eclettismo unico e una rara capacità di unire visione poetica ed estrema lucidità analitica. Uomo dalla cultura sconfinata, appassionato collezionista e ricercatore, tanto di oggetti da Wunderkammer quanto di dispositivi tecnologici, nonché maestro generoso, ha contributo alla creazione di alcuni dei luoghi della cultura più influenti in Europa negli ultimi decenni, con progetti come il restauro del Musée d’Orsay a Parigi e il Museo del Novecento a Milano. Il suo lascito culturale è ben espresso dal titolo della sua ultima monografia: Solo diventare natura ci salverà (Milano: Libri Scheiwiller, 2023). Il Leone d’Oro Speciale alla Memoria sarà ritirato da Margherita Palli, scenografa e costumista, partecipante alla Biennale Architettura 2025 con il progetto Material Bank: Matters Make Sense, insieme a Stefano Capolongo e Ingrid Maria Paoletti (Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito, Politecnico di Milano), Konstantin Novosëlov (National University of Singapore).

Da oggi il singolo che anticipa l’album “Lo-Fi” di Valerio Billeri

Da oggi il singolo che anticipa l’album “Lo-Fi” di Valerio BilleriRoma, 4 apr. (askanews) – Esce oggi su tutte le piattaforme di streaming musicale il nuovo singolo di Valerio Billeri, ‘Bellerophon’, che anticipa il disco ‘Lo-Fi’, in uscita il 10 maggio per Moonlight Records. Il disco è stato registrato voce e chitarra su un vecchio multitraccia degli anni ’90 in presa diretta, e nulla è stato ritoccato in fase di missaggio.


Nell’era dell’intelligenza artificiale e del digitale, Billeri ha registrato un album di otto tracce, composto da sette composizioni originali e una cover di un brano folk di epoca napoleonica, avvalendosi di un multitraccia analogico degli anni ’90. Partendo dall’idea dell’esilio di Napoleone a Sant’Elena, il disco si sviluppa come una ricerca di Billeri sulla solitudine, in cui l’esilio diventa mentale e spirituale, in contrapposizione al rumore odierno. “Tutti i rumori – anche quelli captati da altre dimensioni”, afferma, “gli scricchiolii, i sospiri, le corde che vibrano sono stati lasciati inalterati in fase di missaggio per rendere l’atmosfera sospesa e fuori dal tempo”. Mentre in “Verso Bisanzio” la ricerca di Billeri si affacciava su una città bronzea e celeste, in questo nuovo lavoro la nebbia dell’incertezza avvolge ogni cosa, lasciando solo l’io narrante con i suoi dubbi; la solitudine, ricercata o imposta, è l’unico modo per scoprire la verità.


Il processo di svanire per divenire parte è, d’altronde, il tema centrale di tutto il disco, che ruota attorno alla frase della poetessa Sara Teasdale: “Lascia che io sfumi nell’oblio silente come un fiore o un fuoco una volta ardente”, contenuta nel brano “Distese”.

La tipologia principio della fotografia e il cuore della Germania

La tipologia principio della fotografia e il cuore della GermaniaMilano, 4 apr. (askanews) – La fotografia, che Fondazione Prada ha raccontano finora nelle mostre nell’Osservatorio in Galleria Vittorio Emanuele a Milano, arriva anche negli spazi di Largo Isarco e lo fa con un progetto poderoso dedicato alla fotografia tedesca del XX secolo, che parte dall’idea della “tipologia”, ossia della documentazione ripetuta di un solo tipo di soggetti. Il principio, nato nel Seicento per la classificazione botanica delle piante, in ambito fotografico è stato reso celebre e seminale da Bernd e Hilla Becher, che hanno formato generazioni di fotografi e artisti, ma che a loro volta hanno tratto ispirazione dal lavoro sulle tipologie di Karl Blossfeldt e August Sander, che, rispettivamente in ambito botanico e sociale, hanno segnato la storia della fotografia.


Di tutti questi progetti la mostra “Typologien: Photography in 20th Century Germany”, curata da Susanne Pfeffer, dà un’ampia testimonianza. La mostra occupa i due livelli del Podium, la cui struttura appare completamente cambiata da una serie di interventi allestitivi mobili, ed è vastissima, con oltre 600 opere di 25 artisti. SI può dire che lo stesso approccio al progetto sulle tipologie non poteva che essere tipologico, anche nel rispetto di una volontà, per così dire, mimetica, che Fondazione Prada ha sempre avuto nei confronti delle proprie mostre. Ma quello che colpisce di più è come la densità seriale dei lavori, anziché risolvere una tematica, ne amplifichi invece il mistero, ne allarghi lo spazio simbolico e apra le porte a una serie di domande che partono dai soggetti delle opere, per poi allargarsi al medium fotografico e infine, per esempio di fronte all’Atlas di Gerhard Richter, arrivare alle questioni più profonde sulla sconfinata oscurità del cuore umano. Grande spazio, e grande formato fotografico, è riservato ai lavori di alcuni dei più celebri allievi dei Becher all’Accademia di Dusseldorf, come Andreas Gursky, Candida Hofer, Thomas Ruff o Thomas Struth, tutti presenti con le loro opere più celebri, che si inseriscono alla perfezione nel tema della tipologia, in una maniera che è così evidente da farci sospettare che proprio questo principio seriale possa essere il motore di tutta la fotografia contemporanea intesa come arte. Perché poi ci sono anche gli sconfinamenti nel territorio del concettuale, per esempio con le raccolte di immagini di Hans-Peter Feldman, ma perfino con i ritratti di famiglia di Christian Borchert o dello stesso Struth. O ancora con i commoventi e inafferrabili Concorde fotografati da Wolfgang Tillmans.


Ma è possibile che la sensazione più forte con cui si lasci la mostra, che per ricchezza e intensità richiederebbe probabilmente anche una serialità nelle visite, sia quella di un’esposizione che è anche un esame di coscienza della stessa Germania, dei suoi artisti, o, forse, più che un esame, una sorta di messa a nudo di ciò che ha significato essere tedeschi nel Novecento, o perfino, per dirlo ancora in un altro modo, un catalogo di cosa si proverebbe se vivessimo dentro un saggio filosofico di Walter Benjamin. Che poi equivale a essere costretti a guardare con lucidità dentro noi stessi, come se tutto il progetto espositivo ad un tratto si rivelasse essere un misterioso e segreto grande specchio per ognuno di noi. (Leonardo Merlini)

Apre un miart vivace, Ricciardi: fiera è complementare alla città

Apre un miart vivace, Ricciardi: fiera è complementare alla cittàMilano, 3 apr. (askanews) – C’è, e si percepisce, una energia particolare, una vivacità che passa dai lavori presenti negli stand e arriva ai collezionisti e agli operatori del settore. Miart 2025, che si apre al MiCo di Fiera Milano, è l’evento intorno al quale è stata strutturata tutta la Art Week del capoluogo lombardo. “A me – ha detto ad askanews il direttore artistico di miart Nicola Ricciardi – piace pensare che miart 2025 sia complementare alla città. C’è un collegamento diretto tra quello che succede dentro la fiera e quello che succede nelle principali istituzioni. Ad esempio la mostra di Rauschenberg al Museo del 900: noi abbiamo anche molti Rauschenberg come quello all’interno della fiera. Lo stesso accade con Rondinone o con Adrian Paci. Complementarietà vuol dire che se un visitatore vuole vedere tutta l’opera di artisti come quelli che ho citato deve venire dentro la fiera e poi dentro i musei, dentro il museo e poi dentro la fiera. Questo movimento è molto biunivoco, l’abbiamo costruito così apposta, abbiamo cercato di restituire alla città di Milano anche progetti di grande qualità, l’abbiamo fatto con Fiera Milano che ha sostenuto proprio direttamente alcune delle mostre che ci sono all’interno delle istituzioni cittadine quest’anno”.


Le suggestioni delle 179 gallerie, quindi, si muoveranno per la città, ma anche il mercato è pronto a muoversi, trattandosi comunque di un evento che ha una importante componente commerciale “È un momento non facilissimo, diciamo così, per il mercato dell’arte – ha aggiunto Ricciardi – ma il fatto che gallerie così importanti, penso a Sadie Coles, penso al ritorno di Massimo De Carlo, penso a Vittoria Miro, Esther Schipper, Meyer Riegger, che queste realtà così importanti europee decidano di venire a Miart vuol dire che c’è fiducia nel sistema che con Fiera Milano stiamo allestendo e costruendo. Io credo che la parola giusta sia proprio ‘responsabilità’ da parte nostra di cercare di costruire una piattaforma che possa offrire un ritorno a tutti i galleristi che decidono di investire su di noi”. Un investimento che è, più in generale, quello di una città che ormai occupa uno spazio riconoscibile nello scenario culturale europeo e prova, anche attraverso l’arte, a non fermarsi.