Per Meloni l’intesa con l’Albania funzionerà, ma non è il vero modello UeBruxelles-Roma, 31 ott. (askanews) – I centri in Albania “funzioneranno, sono la chiave di volta nella gestione dei flussi non solamente italiani” ed è per questo che l’intesa “riscuote tanta attenzione da parte dell’Ue, l’Europa guarda con interesse all’intesa”. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni lo ha ripetuto ieri sera nel salotto televisivo di ‘Porta a porta’, rivelando anche di aver ricevuto “minacce di morte” da parte dei “trafficati”.
Che l’accordo tra Italia e Albania sia il nuovo modello per l’Europa è però un’affermazione non (completamente) vera, a maggior ragione dopo lo stop dei giudici di Roma al trattenimento dei primi dodici migranti, riportati infatti subito in Italia e il ricorso del Tribunale di Bologna alla Corte di Giustizia europea per i dubbi sul cosiddetto decreto Paesi sicuri (nel frattempo diventato emendamento al decreto Flussi). Il decreto – firmato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella solo dopo che i tecnici del Quirinale avevano provveduto a una preventiva e profonda “limatura” delle parti più controverse – ha specificato quali sono i Paesi ritenuti “sicuri” ma (come visto) non garantisce il superamento del problema perché un Paese, per essere ritenuto sicuro, deve esserlo “in tutte le sue parti e rispetto a tutte le categorie di potenziali richiedenti asilo”, come ha precisato la Corte Ue. Comunque sia, lo stop dei giudici crea un problema anche di opportunità per l’Ue, dato che la decisione è stata presa “in applicazione dei principi vincolanti” contenuti nella sentenza della Corte di Giustizia europea del 4 ottobre 2024. “Che l’intesa con l’Albania sarebbe andata incontro a problemi di legittimità si sapeva – sottolinea un membro dell’esecutivo a patto di mantenere l’anonimato -. Infatti l’obiettivo, più che una soluzione concreta, appariva quello di sollevare un tema, anche una contrapposizione netta. Adesso vedremo come andrà a finire e se questa strategia sarà premiata dal consenso dei cittadini”.
Anche prima degli ultimi contenziosi, nella ricerca delle cosiddette “soluzioni innovative” per la gestione dei rimpatri quello italiano non era il ‘modello’ primario di ispirazione di Ursula von der Leyen, proprio per un impianto non considerato “a prova di ricorsi”. Ci sono, in effetti, altri due ‘modelli’ a cui sta guardando la Commissione europea, per rispondere alle sollecitazioni dei governi dell’Ue, ormai in gran parte di centrodestra o di destra. Il primo è quello dei “return hub”, gli hub per i rimpatri esterni all’Ue, per i quali non esiste ancora un esempio concreto, anche se l’Olanda sta discutendo con l’Uganda una possibile prima applicazione, e la Danimarca ci sta provando con il Kosovo, ma in questo caso con condizioni specifiche più limitate. Il secondo non ha ancora un nome, ma può riferirsi già a un esempio concreto, quello dell’accordo del 2016 (chiamato eufemisticamente “dichiarazione”) con la Turchia per i profughi siriani. La differenza tra i due modelli è abbastanza chiara. Il primo riguarderebbe i migranti cosiddetti “economici”, ovvero quelli arrivati illegalmente in un paese dell’Ue che si vedono respingere le loro domande d’asilo. Queste persone, senza il diritto di restare nell’Ue, sarebbero accompagnate (“deportate”, il termine inglese, sarebbe più corretto) in un “return hub” fuori dall’Unione in attesa del loro rimpatrio, se vengono da un Paese “sicuro”(che però deve avere degli accordi in questo senso con l’Ue), oppure in un altro Paese considerato “sicuro”, se questo non è possibile perché il Paese d’origine non è sicuro o non ha accordi con l’Ue per riportarli a casa. E’ quest’ultimo caso che complica le cose: per deportare i migranti in un Paese terzo sicuro diverso da quello di provenienza, bisognerà definire nuove regole Ue (con la revisione, annunciata da von de der Leyen, dell’ultima versione della “direttiva rimpatri”, che è rimasta da anni bloccata in Consiglio), e la Commissione dovrà anche proporre una nuova lista comune europea dei “Paesi terzi sicuri”, visto che oggi ogni Stato membro ha la sua specifica lista, determinata a livello nazionale.
Il secondo modello è una nuova ipotesi di cui finora non si era parlato, se non informalmente tra i governi e la Commissione: lo ha prefigurato per la prima volta “formalmente”, anche se in modo sibillino, la stessa von der Leyen, durante la conferenza stampa al termine del Consiglio europeo, giovedì 17 ottobre. “Per i migranti che hanno bisogno di protezione la discussione riguarda i Paesi terzi sicuri, perchè riconosciamo pienamente la necessità di protezione e ce ne assumiamo la responsabilità” ha detto la presidente della Commissione. Ma, ha aggiunto, “questo non significa che la protezione debba essere solo nell’Unione europea: si può avere anche in Paesi terzi sicuri”. In altre parole, von der Leyen dice che si possano mandare nei Paesi terzi sicuri non solo i migranti a cui è stata respinta la richiesta d’asilo, ma anche quelli che ne avrebbero diritto nei Paesi dell’Ue. E questa è un’ipotesi del tutto nuova, che somiglia più al “modello Ruanda” su cui aveva puntato, senza successo, il precedente governo conservatore britannico, che agli “hub per i rimpatri”. Ma soprattutto, un caso simile esiste già, già realizzato e funzionante, e con cospicui finanziamenti da parte dell’Unione: è quello dell’accordo con la Turchia, che dal 2016 si riprende tutti i profughi siriani passati dal suo territorio e diretti in Grecia e nell’Europa centro settentrionale attraverso la “rotta balcanica”. In quel caso, l’accordo con Ankara, stipulato sotto gli auspici dall’allora cancelliera Angela Merkel, era giustificato da un’emergenza evidente: quella della guerra civile in Siria e dell’ondata di sfollati che aveva causato. Generalizzare oggi quel modello, in assenza di una evidente situazione di emergenza e di una collocazione geografica specifica (che comporta comunque il transito dei migranti da quel paese), segnerebbe un notevole salto di qualità, fino a prefigurare una vera e propria negazione del diritto d’asilo nell’Unione europea.
Per quanto riguarda – ha detto ancora von der Leyen – “coloro che non hanno il diritto di rimanere nell’Unione europea”, perché hanno ricevuto una risposta negativa alla loro richiesta d’asilo, “sono stati discussi i ‘centri di rimpatrio’. Ci sono domande aperte su quanto tempo le persone possono rimanere in quei centri. Cosa si fa, ad esempio, se un rimpatrio non è possibile? Insomma, è una questione non banale, ed è un argomento ancora in discussione”. Quanto al patto Italia- Albania “è un accordo bilaterale; ne seguiamo con attenzione gli sviluppi, ma non possiamo commentarlo”, ha puntualizzato la presidente della Commissione. La prudenza dell’Ue è motivata dal fatto che il protocollo con l’Albania è realizzato con la legislazione europea vigente, che non prevede questo tipo di accordi, e può essere tollerato solo con l’artificio di considerarlo, appunto, un accordo bilaterale, in cui non è coinvolta la legislazione europea ma solo il diritto nazionale italiano. Gli altri due modelli di esternalizzazione della gestione dell’immigrazione irregolare, i centri di rimpatrio e quella che potremmo definire la generalizzazione del modello turco, oggi non sono ancora possibili, ma si prevede che lo saranno quando la legislazione europea sarà stata modificata nel senso indicato da von der Leyen, e saranno ben più radicali. Questo non significa, tuttavia, che il Protocollo con Tirana non possa essere modificato e adattato, in modo da rientrare tra le “soluzioni innovative” che saranno previste dalla futura legislazione Ue.