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Aumento siccità moltiplica le migrazioni interne in tutto il mondo

Aumento siccità moltiplica le migrazioni interne in tutto il mondoRoma, 7 nov. (askanews) – L’aumento delle ondate di calore e dei periodi di siccità dovuto al cambiamento climatico sta portando milioni di persone a lasciare le loro case per spostarsi altrove. In molti casi questi movimenti migratori avvengono però tra regioni diverse dello stesso stato e restano così spesso invisibili.


Per cercare di quantificare e tracciare questo fenomeno, un gruppo internazionale di studiosi ha elaborato per la prima volta i dati delle migrazioni interne avvenute in 72 paesi tra il 1960 e il 2016. I risultati – pubblicati su “Nature Climate Change” – mostrano in che modo l’aumento della siccità favorisce lo spopolamento delle regioni colpite, soprattutto se si tratta di territori con una forte diffusione dell’agricoltura. “L’aumento della siccità ha un impatto significativo sulle migrazioni interne in particolare nelle regioni aride dell’Europa meridionale, del sud dell’Asia, dell’Africa, del Medio Oriente e del Sud America”, spiega Raya Muttarak, professoressa al Dipartimento di Scienze Statistiche “Paolo Fortunati” dell’Università di Bologna, tra gli autori dello studio. “Questi fenomeni migratori sono influenzati dal livello di ricchezza, dalla dipendenza dall’agricoltura e dal livello di urbanizzazione delle aree di origine e di destinazione: in particolare le regioni rurali e agricole sono quelle più colpite dallo spopolamento”.


Molte aree del mondo – evidenzia Unibo in una nota – stanno subendo prolungati periodi di siccità e un conseguente aumento dell’aridificazione a causa dell’aumento delle temperature e dei cambiamenti nella stagionalità delle precipitazioni. Secondo la Banca Mondiale, questi fenomeni potrebbero spingere fino a 216 milioni di persone, entro il 2050, a lasciare le loro case e migrare in altre regioni del loro paese. Si tratta di movimenti migratori già in corso ma finora poco studiati. Per indagarli più da vicino, i ricercatori hanno elaborato i dati presenti in 201 censimenti di 72 Paesi nel periodo compreso tra il 1960 e il 2016. In questo modo, analizzando 107.840 movimenti migratori tra le 1.410 regioni amministrative considerate, hanno dato vita, per la prima volta, a un database globale delle migrazioni interne. I dati mostrano chiaramente che le migrazioni aumentano con l’aumentare dei livelli di aridità: la pressione climatica porta le popolazioni a un punto in cui lasciare la propria casa diventa l’unica soluzione possibile. Una spinta alla migrazione che coinvolge soprattutto le persone più giovani, nella fascia di età tra 21 e 30 anni, in prevalenza maschi e con un livello di istruzione medio-alto.


“Mentre gli effetti del cambiamento climatico continuano a mostrarsi davanti ai nostri occhi, i modelli previsionali suggeriscono che continueranno ad aumentare la frequenza e la dimensione dei periodi di siccità in varie regioni del pianeta”, aggiunge Muttarak. “Problemi di scarsità idrica e difficoltà nella gestione dei terreni agricoli diventeranno sempre più profondi in queste aree, costringendo le popolazioni a cercare condizioni di vita migliori altrove”. A partire da questi scenari – suggeriscono gli studiosi – diventa fondamentale creare dei corridoi migratori, offrendo strutture e infrastrutture adeguate a sostenere i movimenti delle persone, oltre a servizi sociali e sanitari in grado di gestire le necessità di popolazioni urbane in continua crescita. “Sono necessarie politiche per promuovere la diversificazione delle attività economiche, soprattutto nelle regioni molto legate all’agricoltura, e reti sociali di sostegno che possano mitigare il ricorso forzato alla migrazione”, conferma Muttarak. “Solo in questo modo sarà possibile proteggere le popolazioni e favorire la resilienza nelle comunità colpite da siccità e aridificazione”.

Monte Rosa, Legambiente: il ghiacciaio di Flua non c’è più

Monte Rosa, Legambiente: il ghiacciaio di Flua non c’è piùRoma, 26 ago. (askanews) – Sul versante sud del Monte Rosa, la seconda vetta più alta delle Alpi, il ghiacciaio di Flua è estinto. Non c’è più.


Se nella metà dell’800 la sua superficie era di circa 80 ettari, ossia grande quanto 112 campi di calcio, oggi il ghiacciaio di Flua è solo un mare di rocce e detriti. Qua e là si intravedono piccoli cumuli di neve frutto delle ultime nevicate tardive della primavera 2024. A causa delle alte temperature che caratterizzano la crisi climatica in atto è questo il destino a cui i ghiacciai alpini con quote massime al di sotto dei 3500 metri andranno incontro dal 2050 in avanti; tra questi ci saranno anche il ghiacciaio dell’Adamello e quello della Marmolada. A scattare questa fotografia è Carovana dei ghiacciai 2024, la campagna nazionale di Legambiente in collaborazione con CIPRA Italia e con la partnership scientifica del Comitato Glaciologico Italiano, che per la sua terza tappa è arrivata in Piemonte sul Monte Rosa per osservare quel che resta del ghiacciaio di Flua. Qui il ghiacciaio è solo un lontano ricordo. A dominare, insieme a detriti e rocce, è un lungo cordone morenico, mentre il vuoto del ghiacciaio inizia ad essere “colonizzato” da piante, insetti, ecc… che costituiscono nuovi ecosistemi in evoluzione.


Sul versante sud del Monte Rosa, anche i ghiacciai limitrofi al Flua, ovvero il ghiacciaio delle Piode e il Sesia-Vigne non se la passano bene. Dagli anni ‘8o il ghiacciaio delle Piode e il Sesia-Vigna (ramo orientale) sono arretrati di oltre 600 metri lineari, con una risalita della quota minima frontale di oltre 100 metri. I dati sui ghiacciai del Monte Rosa, versante sud, sono stati presentati oggi in conferenza stampa a Torino. A pesare sullo stato di salute dei ghiacciai è la crisi climatica: le alte temperature che la caratterizzano, non solo mettono in sofferenza quelli al di sotto dei 3500 metri, ma anche i ghiacciai posti nelle zone più alte. Con lo zero termico a quote sempre più elevate, viene meno l’accumulo di neve e si registra una perdita di massa glaciale. Negli ultimi anni, si verifica una fusione pluricentrimetrica del ghiaccio anche a quote intorno ai 3500 m.


Preoccupa anche l’aumento degli eventi meteo estremi in quota: ben 101 quelli registrati nelle regioni dell’arco alpino in questi primi sette mesi del 2024 (da gennaio a luglio) dall’Osservatorio Città Clima di Legambiente. Erano 87 nel 2023 e 70 nel 2022 (sempre nello stesso periodo). Lombardia, Veneto e Piemonte le regioni più colpite in questi primi mesi del 2024, rispettivamente con 40, 27 e 13 eventi estremi. Tra le province più in sofferenza, quelle di Torino (9), Brescia, Milano e Vicenza (7), Genova e Udine (6), Mantova, Varese e Verona (5). Anche il versante sud del Monte Rosa – prosegue Legambiente – è stato colpito il 29-30 giugno 2024 da una violenta precipitazione piovosa, lo stesso evento che ha colpito la Valpelline (seconda tappa di Carovana dei ghiacciai 2024) ed altre località di Valle d’Aosta e Piemonte. In particolare, lungo il tragitto della terza tappa, i partecipanti alla Carovana dei Ghiacciai hanno verificato numerosi effetti al suolo causati dall’evento piovoso sulla viabilità e sulle infrastrutture, così come hanno apprezzato gli interventi di ripristino dei sentieri che hanno reso possibile l’accesso alle zone glaciali. Restano comunque ben visibili i detriti e i fenomeni di erosione lungo gli alvei dei torrenti.

Il clima influenza l’estensione delle aree bruciate dagli incendi

Il clima influenza l’estensione delle aree bruciate dagli incendiRoma, 22 lug. (askanews) – Uno studio internazionale che ha coinvolto l’Istituto di geoscienze e georisorse del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Igg), guidato dall’Università di Murcia in Spagna, ha permesso di ottenere, per la prima volta, una stima precisa di come i cambiamenti climatici influenzino l’estensione delle aree bruciate dagli incendi.


Sebbene spesso siano le attività umane, intenzionali o accidentali, a innescare gli incendi, è il clima a determinarne la portata. Una volta divampate, – spiega il Cnr – le fiamme bruciano un’area che dipende dalle condizioni meteorologiche durante l’incendio, come la presenza di forte vento, ma anche da altri due fattori cruciali: la disponibilità di combustibile, come legna e vegetazione secca, e l’efficacia delle misure di prevenzione e controllo. Lo studio, condotto su scala globale, mette infatti in evidenza che lo stato e la quantità di combustibile sono strettamente legati alle condizioni climatiche dell’area interessata dagli incendi. “I risultati della nostra ricerca mostrano che le condizioni climatiche nel periodo immediatamente precedente l’incendio sono cruciali in ampie regioni del mondo, specialmente negli ecosistemi più umidi, perché determinano lo stato del combustibile vegetale. Tuttavia, anche le condizioni climatiche degli anni precedenti possono giocare un ruolo importante, specialmente nelle zone più aride, perché determinano l’abbondanza della vegetazione che può essere bruciata” spiega Antonello Provenzale, direttore del Cnr-Igg. “In una vasta parte del globo, pari a circa il 77% delle aree continentali soggette a incendi, circa il 60% delle variazioni annuali dell’area bruciata dipende direttamente dalle variazioni climatiche osservate di anno in anno”, continua.


I risultati sono frutto dell’analisi di venti anni di dati raccolti sia al suolo sia da satellite: lavoro che ha permesso di creare il primo database globale che raccoglie informazioni sugli incendi boschivi da fonti nazionali. “Questo strumento unisce dati provenienti da diverse parti del mondo, offrendo una visione d’insieme delle aree colpite dagli incendi”, afferma Andrina Gincheva, dell’Università di Murcia, in Spagna, e prima autrice del lavoro. “Grazie a questo database gli esperti potranno studiare meglio come gli incendi boschivi stanno cambiando nel tempo e capire quali fattori li influenzano. Queste conoscenze saranno preziose per sviluppare strategie più efficaci per prevenire e gestire gli incendi, una sfida sempre più importante in molte parti del mondo”. Lo studio dimostra in modo chiaro la dipendenza diretta dell’area bruciata dalle condizioni climatiche e come le variazioni del clima influenzino la dinamica degli ecosistemi, determinando, in definitiva, l’estensione degli incendi. Naturalmente, anche altri fattori possono influire in alcune aree, come la tipologia e la distribuzione della vegetazione, la capacità di identificare tempestivamente l’insorgenza di un incendio e la rapidità degli interventi di controllo. “Ancora una volta, si vede come i cambiamenti climatici abbiano un impatto diretto sull’ambiente e sulla nostra società, e come sia necessario affrontare senza indugio la crisi climatica e al contempo predisporre adeguate misure di previsione dei pericoli naturali, per poter intervenire tempestivamente”, conclude Provenzale.


Lo studio è frutto di una vasta collaborazione internazionale che coinvolge, oltre al Cnr-Igg, numerosi enti a livello globale, tra cui l’Università di Murcia in Spagna, l’Università della California, l’Università di Montpellier in Francia, l’Università Australe del Chile, il Centro di ricerca sugli incendi boschivi e i pericoli naturali del Nuovo Galles del Sud in Australia.

Desertificazione, Ispra: al 2019 in Italia in degrado 17,4% del suolo

Desertificazione, Ispra: al 2019 in Italia in degrado 17,4% del suoloRoma, 17 giu. (askanews) – In Italia, il territorio presenta evidenti segni di degrado, che si manifesta in forma diverse, dall’erosione alla salinizzazione, dalla compattazione alla contaminazione e all’impermeabilizzazione. Calcolando i principali indicatori adottati dalle Nazioni Unite per il calcolo delle aree degradate, ovvero lo stato e il trend di copertura del suolo, di produttività e di contenuto di carbonio organico, al 2019 risulta in stato di degrado il 17,4% della superficie nazionale. Le aree si distribuiscono lungo tutto il territorio. Così l’Ispra in occasione della Giornata mondiale per la lotta alla desertificazione e alla siccità che ricorre oggi, 17 giugno, per celebrare l’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite per la Lotta alla Desertificazione, di cui quest’anno ricorre il trentesimo anniversario. Quest’anno la giornata è dedicata a sollecitare tutte le parti coinvolte ad adottare modelli di gestione sostenibile del territorio, con lo slogan “Uniti per la terra: la nostra eredità. Il nostro futuro”.


A livello globale, con un’immagine sintetica proposta dalla Convenzione delle Nazioni Unite per combattere la desertificazione (UNCCD), – prosegue l’Ispra – ogni secondo l’equivalente di quattro campi da calcio di terreno sano viene degradato, per un totale di 100 milioni di ettari ogni anno e sono già stati promossi impegni per il recupero di 1 miliardo di ettari di aree degradate entro il 2030. Tra le iniziative politiche più rilevanti, i paesi del G20 hanno dichiarato la volontà di arrivare a dimezzare le aree degradate entro il 2040. Secondo quanto ha dichiarato Ibrahim Thiaw, segretario esecutivo dell’UNCCD, “Fino al 40% del territorio mondiale è già degradato, colpendo quasi la metà dell’umanità. Eppure le soluzioni sono sul tavolo. Il ripristino del territorio fa uscire le persone dalla povertà e rafforza la resilienza ai cambiamenti climatici. È tempo di unirsi per la terra e mostrare il cartellino rosso alla perdita e al degrado della terra in tutto il mondo”.


Il degrado del territorio e la desertificazione – che ne rappresenta il suo livello più grave – stanno avanzando in tutto il mondo, aggravati dagli effetti dei cambiamenti climatici su suoli già fortemente compromessi da un utilizzo non sostenibile. Vengono messi a rischio i servizi essenziali per la vita umana che il suolo offre, in primo luogo la produzione agricola, ma anche la capacità di contenere i corsi d’acqua e contribuire alla gestione delle risorse idriche e di conservare in maniera permanente la CO2 in eccesso. Anche l’Agenda 2030 riconosce la gravità dei problemi e la necessità di agire, con l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile 15.3, che chiama i Paesi a adottare le opportune iniziative per raggiungere una situazione di neutralità del degrado del suolo attraverso la promozione di pratiche per la sua protezione e gestione sostenibile e per il recupero delle aree già degradate.


L’Ispra è da tempo impegnato nell’analisi dei dati relativi al degrado e della desertificazione del territorio e del suolo e partecipa a progetti nazionali ed internazionali. Negli ultimi anni, ha avviato specifici progetti volti alla definizione dei modelli per la valutazione delle capacità di risposta al degrado e di ripristino dei suoli degradati, ad esempio attraverso la partecipazione al progetto NewLife4Drylands, nel cui ambito sono stati applicati e valutati gli effetti dell’adozione di Naturebased Solutions in sei casi studio e in altrettante aree. È poi in fase di avvio la partecipazione come partner al progetto Horizon Europe MONALISA, tra i cui obiettivi è prevista l’identificazione di un indice di rischio di desertificazione per le aree maggiormente problematiche nel bacino del Mediterraneo ed in altri paesi europei, oltre alla realizzazione di casi studio di azioni per la protezione e lo sviluppo sostenibile del territorio. A fianco dei Ministeri dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (Mase) e degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (Maeci), contribuisce attivamente all’attuazione della UNCCD a livello nazionale e internazionale, tra cui le valutazioni e le analisi per la partecipazione dell’Italia al programma della UNCCD “Land Degradation Neutrality Target Setting” per la definizione delle misure associate al raggiungimento della neutralità del degrado del suolo, avviato dal MASE. Inoltre, predispone i rapporti periodici alla UNCCD per la valutazione dei suoi indicatori tra cui il degrado, la siccità e indicatori socio economici. Sempre in ambito internazionale, l’Ispra ricopre un ruolo di rilievo nella preparazione e nello svolgimento delle Conferenze delle Parti, la cui sedicesima sessione (COP 16) si svolgerà a Riyadh a dicembre 2024.

Mediterraneo rovente nell’inverno più caldo degli ultimi 40 anni

Mediterraneo rovente nell’inverno più caldo degli ultimi 40 anniRoma, 9 mag. (askanews) – Il Mar Mediterraneo è sempre più caldo. Nell’inverno appena trascorso la temperatura media del golfo di Napoli ha registrato per la prima volta un aumento di circa 1°C rispetto alla media degli ultimi 7 anni, toccando i 15,5°C. Le temperature in crescita sono confermate anche in superficie in quasi tutti i mari italiani e, in particolare, nell’Adriatico, con valori superiori al grado rispetto alla media 2020-2022. Questi dati sono stati rilevati nell’ambito del progetto MedFever – che riunisce Enea, associazione MedSharks, l’azienda Lush, Università Sapienza di Roma, OGS, Guardia Costiera e un gruppo di subacquei volontari – e confermati dal sistema previsionale Enea MITO sulla circolazione marina del Mediterraneo.


Per controllare la temperatura del Tirreno e monitorare l’impatto del cambiamento climatico sull’ecosistema marino e sui processi di dinamica costiera, i ricercatori di MedFever, insieme a un team di subacquei-sentinelle, hanno creato una vera e propria rete di un centinaio di sensori-termometro posizionati fino a 50 metri di profondità, sia a largo che sotto costa, in 15 punti di osservazione nel Tirreno: Isola del Giglio (Toscana), Nettuno (Lazio), Capri, Palinuro e Vico Equense (Campania), Reggio Calabria e Scilla (Calabria); Capo Peloro e Porticello (Sicilia), Capo Figari, Mortoriotto e Santa Teresa di Gallura (Sardegna). A questi punti di osservazione, si sono recentemente aggiunte anche tre stazioni coordinate dai nuclei subacquei della Guardia Costiera, al largo di Portofino (Liguria), lungo la Costiera Amalfitana (Campania) e nel Golfo di Cagliari. “Le osservazioni MedFever sono estremamente importanti poiché ‘guardano’ non solo la superficie del mare ma anche ciò che accade sul fondo delle aree costiere”, sottolinea Eleonora de Sabata, di MedSharks e coordinatrice del progetto. “In questo contesto che potremmo definire emergenziale, – aggiunge – il supporto dei diving center è fondamentale sia per la gestione della rete di misure, senza le quali il progetto non potrebbe proseguire, ma soprattutto per l’osservazione quotidiana dello stato di salute dell’ecosistema marino. Il contributo di ogni individuo, dalla comunità scientifica ai cittadini appassionati di mare, è fondamentale per monitorare e proteggere le nostre preziose risorse acquatiche”.


La rete di sensori di rilevazione della temperatura di MedFever è stata calibrata presso il Centro Ricerche Enea di Santa Teresa (La Spezia). Inoltre, – si legge nella notizia che apre il numero odierno del settimanale ENEAinform@ – Enea ha messo in campo anche il modello di circolazione del Mediterraneo MITO, sviluppato e gestito dal Laboratorio di Modellistica climatica e impatti, in grado di fornire previsioni su temperatura, salinità e velocità delle correnti marine con un dettaglio spaziale fino a poche centinaia di metri. Nello specifico, il trend risulta anche peggiore: negli ultimi quarant’anni le temperature medie dei fondali del Golfo di Napoli sono aumentate di circa 1,5° (da 14 a 15,5° C), se all’aumento di un grado registrato da MedFever si abbina il confronto con i dati storici della Stazione Zoologica Anton Dohrn. Anche in questo caso il dato è confermato da MITO sia per quanto riguarda la superficie che per la rapidità con la quale il calore si trasferisce ai fondali, specialmente nelle aree costiere. Il raffronto con i dati del sistema previsionale Enea, infatti, ha consentito di rilevare che soprattutto nei mesi invernali, a causa dei venti che soffiano sulla superficie marina, si innescano processi di mescolamento verticali che riscaldano tutta la colonna d’acqua sottostante, con conseguente aumento dei rischi per gli ecosistemi. In particolare, il sistema MITO rileva a 100 metri di profondità nel golfo di Napoli anomalie di circa + 0,5 °C, in accordo con i dati dei sensori di MedFever, e punte di circa + 1 °C nel Tirreno, nel canale di Sicilia e nello Ionio centrale.


“Questi dati confermano l’allarme sulle temperature dell’aria e del mare lanciato ieri dal Servizio UE Copernicus, che ha rilevato che, dopo febbraio e marzo 2024, anche aprile è stato globalmente il più caldo mai registrato al mondo”, sottolinea Ernesto Napolitano del Laboratorio Enea di Modellistica climatica. “Sulla stessa scia anche la temperatura superficiale marina media globale che ad aprile è stata di 21,04°C, valore più alto mai registrato per questo mese, di poco sotto i 21,07°C registrati a marzo 2024, la più alta di qualsiasi mese nella storia dei dati, anche superiore a quella di agosto 2023 (20,98°C). Aprile è stato anche il 13esimo mese di seguito in cui la temperatura globale della superficie del mare è stata la più alta mai registrata in quel mese. Questi cambiamenti non sono solo numeri ma segnalano che ci troviamo agli inizi di un processo più ampio e che tali fenomeni accadranno in modo sempre più frequente”, conclude Napolitano.

Insicurezza alimentare acuta per 280 mln di persone: +9% in un anno

Insicurezza alimentare acuta per 280 mln di persone: +9% in un annoMilano, 28 apr. (askanews) – Il numero di persone che si trovano ad affrontare alti livelli di insicurezza alimentare acuta sta crescendo per il quinto anno consecutivo: oltre 280 milioni di persone in 59 Paesi: si tratta di 24 milioni di persone in più rispetto all’anno precedente, per un aumento di oltre il 9%. E’ quanto emerge dal “Global Report on Food Crises”, che analizza 59 Paesi colpiti da crisi alimentari a livello globale ed è pubblicato dalla Rete globale contro le crisi alimentari, fondata dalle Nazioni Unite e dalla Commissione Europea.


La fame nel mondo ha raggiunto proporzioni drammatiche: Azione contro la Fame invita la comunità globale ad agire urgentemente affinché vengano soddisfatti i crescenti bisogni umanitari, agendo al contempo sulle cause strutturali. “L’aumento, per il quinto anno consecutivo, del numero di persone che vivono condizioni di grave insicurezza alimentare conferma l’enormità della sfida di raggiungere l’obiettivo ‘Fame Zero’ entro il 2030 – dichiara Simone Garroni, direttore di Azione contro la Fame – oltre all’intensificarsi dei conflitti, delle disuguaglianze e della crisi climatica, che rappresentano le cause da rimuovere, la diminuzione dei finanziamenti umanitari e l’aumento dei costi rappresentano un’ulteriore minaccia, che ha già portato a una riduzione del numero delle persone aiutate e delle quantità di aiuti alimentari destinati alle popolazioni in condizioni di insicurezza alimentare. La comunità internazionale deve agire con urgenza per evitare che milioni di persone muoiano di fame”.


In 32 dei Paesi in condizione di crisi alimentare presi in esame, più di 36 milioni di bambini sotto i cinque anni soffrono di malnutrizione acuta, di cui quasi 10 milioni di malnutrizione acuta grave, che è la forma più letale e la principale causa di mortalità infantile. Il rapporto conferma anche che la malnutrizione colpisce le bambine e le donne in modo sproporzionato rispetto alla popolazione maschile, a ulteriore conferma che le disuguaglianze, incluse quelle di genere, sono esse stesse cause della fame. Secondo il Report pubblicato oggi, nel 2023 guerre e conflitti sono stati la principale causa della fame. Rappresentano infatti il fattore predominante dell’insicurezza alimentare per 135 milioni di persone in 20 dei Paesi esaminati. Nel 2023, infatti, le crisi alimentari si sono intensificate in modo allarmante nelle aree colpite da conflitti o da situazioni di violenza interna, come ad esempio a Gaza e in Palestina, in Sudan, ad Haiti, dove Azione contro la Fame opera da molti anni.

Tornado in Pianura Padana, Cnr: dinamica simile a quella degli Usa

Tornado in Pianura Padana, Cnr: dinamica simile a quella degli UsaMilano, 17 apr. (askanews) – I tornado sul Nord Italia si formano spesso in corrispondenza di un “punto triplo”, cioè alla confluenza di tre masse d’aria provenienti da direzioni diverse e con caratteristiche differenti, come masse d’aria umida, secca e più fredda. È quanto ha messo in luce uno studio condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac), in collaborazione con le Università di Bologna, Bari e Milano.


La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica statunitense Monthly Weather Review, si focalizza sui fenomeni legati ai tornado che si verificano con particolare frequenza tra Lombardia ed Emilia-Romagna. Tra questi, un evento di notevole rilevanza è quello accaduto nel settembre 2021, dove si sono sviluppati sette tornado in poche ore, causando gravi danni in numerose località della Pianura Padana. Ben quattro di questi vortici sono stati classificati di grado F2 secondo la scala Fujita (che classifica i tornado da 0, debole, a 5, danni devastanti), mentre tre sono stati classificati di grado F1. Sebbene la Pianura Padana sia ritenuta un hot-spot per lo sviluppo di tornado in Europa, per via della complessa orografia della regione dove Alpi e Appennini modulano i flussi atmosferici nei bassi strati, la sequenza registrata ha rappresentato un evento inusuale, che ha spinto i ricercatori ad approfondire i meccanismi fisici che hanno portato alla genesi dei vortici. “Lo studio delle osservazioni al suolo durante l’evento ha evidenziato come i tornado si siano sempre sviluppati a non più di 20-30 km di distanza da una dryline, ossia da un fronte di aria secca che discendeva dagli Appennini, e nei pressi di una discontinuità fredda generata da temporali sulla pedemontana alpina -, afferma Vincenzo Levizzani, dirigente di ricerca del Cnr-Isac -. Contemporaneamente, correnti da sud-est molto umide soffiavano dal Mar Adriatico verso la Pianura Padana. Significativamente, altri temporali, che si sono sviluppati durante quella giornata in Pianura Padana ma a distanza maggiore dal punto triplo, non hanno generato tornado”.


Particolarità dello studio è stato realizzare simulazioni numeriche ad alta risoluzione con il modello meteorologico MOLOCH, sviluppato presso l’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima di Bologna (Cnr-Isac), allo scopo di simulare le supercelle che hanno generato i tornado. “Il modello è stato in grado di riprodurre correttamente lo sviluppo delle supercelle tornadiche e la complessa interazione dei flussi in superficie emersa dalle osservazioni”, aggiunge Silvio Davolio, professore presso l’Università degli Studi di Milano, associato al Cnr-Isac. “Il modello ha rivelato una marcata rotazione del vento nelle vicinanze della dryline in relazione alla quota: da sud-est nei pressi del suolo, a sud-ovest sopra il primo chilometro. Questo peculiare profilo del vento ha generato la vorticità che porta allo sviluppo dei tornado – osserva Mario Marcello Miglietta, professore presso l’Università degli Studi di Bari e associato di ricerca Cnr-Isac -. Inoltre, nei pressi del punto triplo si è accumulata molta umidità, che incrementa l’instabilità potenziale, un altro elemento importante per la genesi di questi fenomeni violenti”.


“Il modello concettuale proposto, ottenuto da un’approfondita analisi di osservazioni e simulazioni numeriche, è ispirato alla dinamica osservata negli Stati Uniti nella cosiddetta ‘Tornado Alley’, dove i tornado si formano alla confluenza di masse d’aria umida provenienti dal Golfo del Messico, masse d’aria secca dalle Montagne Rocciose e masse d’aria più fredda dal Canada. Nel caso della Pianura Padana si osserva qualcosa di simile, ma a scala molto più ridotta”, conclude Francesco De Martin, dottorando dell’Università di Bologna e primo autore dell’articolo. Questo studio, grazie alla miglior comprensione delle dinamiche che generano i tornado, potrebbe contribuire a migliorarne le previsioni, anche se rimangono ancora caratterizzate da un certo grado di incertezza. Ancora oggi, infatti, è impossibile conoscere nel dettaglio se, dove e quando si svilupperà un tornado, anche a poche ore da un evento.

Giornata Meteo, gen. Baione (A.M.): in prima linea per il Clima

Giornata Meteo, gen. Baione (A.M.): in prima linea per il ClimaRoma, 22 mar. (askanews) – “Il nostro è un messaggio di educazione e di divulgazione nei confronti dei giovani. Valorizziamo il tema indicato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale ‘At the Frontline of Climate Action’, ossia stare in prima linea per l’azione, per il clima. Noi vogliamo che i giovani abbiano gli strumenti, la conoscenza, la cultura per fare il loro, per dare il loro rapporto per il cambiamento climatico”. E’ il messaggio lanciato ad askanews dal Generale di Brigata Luca Baione, Rappresentante Permanente d’Italia presso l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, a margine dell’evento “At the Frontline of Climate Action” organizzato dall’Aeronautica Militare al Palazzo della Fao, a Roma, in occasione della Giornata Meteorologica Mondiale.


“Le attenzioni sono quelle che riguardano anche l’uso quotidiano o meglio il non spreco delle risorse della Terra. Abbiamo parlato durante questa conferenza, dell’acqua – prosegue il gen. Baione – abbiamo parlato dell’elettricità, Geopop ci ha ricordato di staccare ad esempio i cellulari, i caricabatterie dopo che il cellulare è stato caricato, di chiudere l’acqua mentre non la stiamo usando e di riutilizzare possibilmente l’acqua. Sono delle risorse che non sono infinite, anzi”. Il 23 marzo si celebra la Giornata Meteorologica Mondiale. Per l’occasione, l’Aeronautica Militare ha organizzato un incontro con oltre 400 studenti delle scuole superiori di Roma e del Lazio sul tema indicato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale per il 2024: “At the Frontline of Climate Action”, ovvero “In prima linea per l’azione sul clima”.


L’evento, che ha visto la partecipazione di rappresentanti di istituzioni, del mondo accademico e della ricerca, ha avuto l’obiettivo di avvicinare le giovani generazioni ai temi del cambiamento climatico e alle molteplici iniziative nazionali e internazionali in atto per mitigarne gli effetti e adottare i necessari provvedimenti di adattamento, nonché per illustrare i compiti delle istituzioni nazionali e, in particolare, il ruolo del Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare nelle attività di monitoraggio dell’atmosfera nell’ambito delle collaborazioni esistenti a livello nazionale e mondiale sotto l’egida dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale. Gli studenti hanno avuto in particolare l’opportunità di interagire direttamente con i relatori, potendo così acquisire conoscenze e stimoli sui diversi strumenti utilizzati – dall’utilizzo dei satelliti meteorologici alla formazione universitaria, fino ad attività scientifiche dirette come ad esempio le spedizioni in Antartide- e recependo le “buone pratiche” quotidiane per diventare promotori consapevoli di iniziative che possano contribuire alle azioni nazionali e internazionali.

Giornata Meteo, Martina (Fao): lotta a crisi alimentare e climatica

Giornata Meteo, Martina (Fao): lotta a crisi alimentare e climaticaRoma, 22 mar. (askanews) – “Il messaggio è semplice ma importantissimo: crisi climatica e crisi alimentare sono due facce della stessa medaglia, soprattutto per i paesi più fragili. Quindi noi abbiamo bisogno di lavorare ancora di più sui grandi temi della lotta al cambiamento climatico, proprio perché il nesso tra questi temi e i temi dell’insicurezza alimentare è sempre più evidente”. Lo ha detto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, intervenendo all’evento “At the Frontline of Climate Action” organizzato dall’Aeronautica Militare al Palazzo della Fao, a Roma, in occasione della Giornata Meteorologica Mondiale.


Il video su askanews.it

Clima, AEA: Ue impreparata, rischi catastrofici se non si agisce

Clima, AEA: Ue impreparata, rischi catastrofici se non si agisceRoma, 11 mar. (askanews) – Nel mondo l’Europa è il continente che sta registrando i più rapidi aumenti delle temperature. I rischi climatici ne minacciano la sicurezza energetica e alimentare, gli ecosistemi, le infrastrutture, le risorse idriche, la stabilità economica e la salute dei cittadini. In base alla valutazione dell’Agenzia europea dell’ambiente (AEA), pubblicata oggi, molti di tali rischi hanno già raggiunto livelli critici, che potrebbero diventare catastrofici in assenza di interventi urgenti e decisivi.


Come si è visto già negli ultimi anni, in Europa caldo estremo, siccità, incendi boschivi e inondazioni sono destinati ad acuirsi anche in base agli scenari più ottimistici in materia di riscaldamento globale e a incidere sulle condizioni di vita in tutto il continente. L’AEA ha pubblicato i risultati della prima European Climate Risk Assessment (EUCRA) (valutazione europea dei rischi climatici) mai effettuata quale contributo all’individuazione delle priorità politiche in materia di adattamento ai cambiamenti climatici e in supporto ai settori sensibili al clima. Ne emerge che in Europa le politiche e gli interventi di adattamento non tengono il ritmo con la rapida evoluzione dei suddetti rischi. In molti casi, un adattamento incrementale non sarà sufficiente. Inoltre, poiché numerose misure volte a migliorare la resilienza ai cambiamenti climatici richiedono molto tempo, possono essere necessari interventi urgenti anche per rischi non ancora critici.


In alcune regioni d’Europa si concentrano rischi climatici multipli. L’Europa meridionale – informa AEA – è particolarmente a rischio a causa degli incendi boschivi nonché degli effetti delle ondate di calore e della scarsità di acqua sulla produzione agricola, sul lavoro all’aria aperta e sulla salute umana. Le inondazioni, l’erosione e l’infiltrazione di acqua salata minacciano le regioni costiere europee a bassa quota, comprese molte città densamente popolate. “Dalla nostra ultima analisi – dichiara Leena Ylä-Mononen, Direttrice esecutiva dell’AEA – si evince che l’Europa si trova di fronte a rischi climatici urgenti che si acuiscono più rapidamente di quanto le nostre società riescano a prepararsi. Per garantirne la resilienza i responsabili politici europei e nazionali devono agire immediatamente con interventi volti a limitare i rischi climatici, sia mediante una rapida riduzione delle emissioni sia con l’attuazione di politiche e di interventi di adattamento forti”.


La valutazione individua in Europa 36 principali rischi climatici nell’ambito di cinque grandi gruppi: ecosistemi, alimenti, salute, infrastrutture, economia e finanza. Sono già necessari interventi più incisivi per oltre la metà dei principali rischi climatici individuati dalla relazione, di cui otto da attuare con particolare urgenza, principalmente per preservare gli ecosistemi, limitare l’esposizione umana al calore, proteggere la popolazione e le infrastrutture da inondazioni e incendi boschivi e garantire la sostenibilità dei meccanismi di solidarietà europei, come il Fondo di solidarietà dell’UE. L’UE e i relativi Stati membri hanno compiuto notevoli progressi nella comprensionedei rischi climatici e nella preparazione ad affrontare tali rischi. A livello nazionale sono sempre più utilizzate valutazioni dei rischi climatici a fini di orientamento dello sviluppo delle politiche di adattamento. Tuttavia, – avverte l’AEA – la preparazione della società in generale è resa insufficiente dal ritardo nell’attuazione delle politiche rispetto al rapido aumento dei livelli di rischio.


La maggior parte dei principali rischi climatici individuati nella relazione è considerata un fattore che interessa “congiuntamente” l’UE, i relativi Stati membri e altri livelli di governo. La valutazione dell’AEA sottolinea che, per affrontare e limitare i rischi climatici in Europa, l’UE e gli Stati membri devono collaborare coinvolgendo anche i livelli regionali e locali laddove si rivelino necessari interventi urgenti e coordinati. Vi sono ancora molte lacune nelle conoscenze relative ai principali rischi climatici individuati nella relazione dell’AEA. L’UE – secondo la relazione – può svolgere un ruolo chiave nel favorire una migliore comprensione di tali rischi e dei soggetti che ne sono interessati nonché delle modalità con le quali affrontarli, sia in sede legislativa sia mediante strutture di governance, monitoraggio, finanziamenti e sostegno tecnico adeguati.