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Osiris-Rex, in arrivo i campioni prelevati dall’asteroide Bennu

Osiris-Rex, in arrivo i campioni prelevati dall’asteroide BennuRoma, 22 set. (askanews) – A distanza di sette anni dal lancio, avvenuto nel settembre 2016, la missione della Nasa Osiris-Rex si appresta a portare a casa il suo bottino: i campioni dell’asteroide Bennu, contenuti in una capsula che atterrerà nel deserto dello Utah domenica 24 settembre.

La prima missione dell’agenzia spaziale statunitense con l’obiettivo di prelevare e riportare sulla Terra frammenti di un asteroide è arrivata a destinazione nel 2018 e ha trascorso due anni in orbita attorno al corpo celeste per studiarne il terreno e la conformazione per scegliere il punto più adatto alla toccata e fuga necessaria per il prelievo del materiale, avvenuto con successo il 20 ottobre 2020. “Ho lavorato sulle immagini raccolte da Osiris-Rex durante la sua orbita intorno a Bennu per individuare il sito più adatto al prelievo”, spiega ad askanews Maurizio Pajola, ricercatore all’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) di Padova e membro del team scientifico della missione Osiris-Rex. “Il tipo di superficie alla fine ci ha dato una mano, ha opposto meno resistenza del previsto e quindi siamo riusciti a penetrare con il braccio robotico più a fondo e a raccogliere molto più del quantitativo minimo atteso di 60 grammi. Nella capsula dovrebbero esserci circa 250 grammi di materiale, tra rocce e polvere, ma lo si saprà con esattezza solo dopo che il contenitore verrà aperto”.

Una volta effettuato il prelievo, nel 2021 la sonda ha lasciato l’asteroide per iniziare il suo lungo viaggio verso la Terra che si concluderà domenica prossima, 24 settembre, quando a poco più di 100.000 chilometri dal nostro pianeta – alle 12.42 ora italiana – rilascerà la capsula con i campioni che entrerà in atmosfera a una velocità di oltre 40.000 km orari. Velocità che si ridurrà rapidamente per l’attrito fino a raggiungere, grazie all’apertura del paracadute, una velocità di poco meno di 18 km/h e finalmente toccare, alle 16.55 ora italiana, il suolo desertico dello Utah. A guidare la sonda nel suo rientro sulla Terra ci pensa il sensore d’assetto stellare realizzato da Leonardo a Campi Bisenzio. A partire dal suo lancio nel 2016 e durante tutta la vita della missione, come una “bussola dello spazio”, il sensore d’assetto realizzato da Leonardo ha fornito i dati sulla posizione della sonda, grazie alla mappa stellare memorizzata nel suo software, che conta oltre 3.000 stelle: lo star tracker calcola in ogni istante – 10 volte in un secondo – l’orientamento del satellite fornendo al computer di bordo le informazioni per tenerlo sulla rotta prestabilita.

Inoltre, durante l’avvicinamento e la raccolta dei campioni del suolo nel 2020, il sensore d’assetto ha svolto un ruolo cruciale per il posizionamento accurato di Osiris-Rex rispetto all’asteroide Bennu. Il sensore ha infatti permesso di effettuare manovre di precisione per avvicinarsi alla sua superficie con cautela e poi ha contribuito a garantire una posizione stabile e sicura per la raccolta del materiale. Negli stabilimenti Leonardo del Regno Unito è stato realizzato il sensore infrarosso per lo strumento Thermal Emission Spectrometer (OTES), fornito all’Arizona State University (ASU), che ha permesso di contribuire a individuare i minerali presenti sull’asteroide, raccogliere dati termici e permettere agli scienziati di comprendere meglio la composizione di Bennu. “Bennu è un asteroide di 500 metri di diametro, ricco di composti organici di cui il carbonio è l’elemento fondamentale, ha una superficie molto scura e che presenta una certa porosità, elemento questo che ha reso meno rischioso il touch and go per il prelievo dei campioni”, racconta Pajola. “Gli asteroidi come Bennu sono ricchi di composti organici e per questo riteniamo che abbiano favorito lo sviluppo della vita. Il valore aggiunto che l’analisi dei campioni di Bennu porterà alle nostre conoscenze – prosegue il ricercatore – deriva dal fatto che si tratta di un asteroide ‘primitivo’, cioè è un buon rappresentante di quei mattoni primordiali che hanno portato alla formazione di pianeti come la Terra. Di questi asteroidi primitivi abbiamo pochissimi campioni perché, proprio per la loro composizione friabile, quando precipitano, a contatto con l’atmosfera, si sbriciolano. Ecco dunque perché bisogna procurarseli in loco”. Una volta recuperata la capsula, i campioni saranno portati al Johnson Space Center della Nasa a Houston, in Texas, e potranno essere studiati da scienziati di tutto il mondo.

La sonda però non ha concluso il suo viaggio. Allontanatasi in sicurezza dalla Terra dopo aver consegnato il suo prezioso carico, la navicella si dirigerà verso il suo nuovo obiettivo: Apophis. A partire dal 2029 studierà questo asteroide roccioso, di circa 370 metri di diametro, destinato a compiere un sorvolo ravvicinato alla Terra. Nuovo obiettivo, nuovo nome: non più Osiris-Rex ma Osiris-Apex (Apophis Explorer).

Astronomia, esopianeta GJ 367 b: ultra-denso con un cuore di ferro

Astronomia, esopianeta GJ 367 b: ultra-denso con un cuore di ferroRoma, 15 set. (askanews) – L’esopianeta GJ 367 b ha una densità quasi doppia rispetto a quella della Terra e questo suggerisce che sia costituito quasi interamente di ferro. A scoprirlo Elisa Goffo, dottoranda presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e il Thüringer Landessternwarte (Germania), insieme a un team di ricerca internazionale. Lo studio, di cui Goffo è prima autrice, è stato pubblicato sulla rivista “The Astrophysical Journal Letters”.

Negli ultimi decenni, gli astronomi hanno scoperto diverse migliaia di pianeti extrasolari. I pianeti extrasolari orbitano attorno a stelle al di fuori del nostro sistema solare. La nuova frontiera in questo campo di ricerca include lo studio della loro composizione e struttura interna, al fine di comprendere meglio il loro processo di formazione. La ricercatrice – informa Unito – fa parte della collaborazione internazionale KESPRINT che ha confermato come l’esopianeta, che impiega sole 7.7 ore a compiere una rivoluzione attorno alla sua stella, sia anche ultra-denso. La densità di un pianeta viene determinata a partire dalla sua massa e dal suo raggio. Il pianeta GJ 367 b è denominato ultra-denso perché i ricercatori hanno scoperto che la sua densità è di 10,2 grammi per centimetro cubo. Si tratta di una densità quasi doppia rispetto a quella della Terra, il che suggerisce che questo pianeta extrasolare sia costituito quasi interamente di ferro.

Una simile composizione per un pianeta è molto rara e pone diversi interrogativi sulla sua formazione. “Si potrebbe paragonare GJ 367 b a un pianeta simile alla Terra che ha però perso il suo mantello roccioso. Questo potrebbe avere importanti implicazioni sulla sua formazione. Ipotizziamo infatti che il pianeta possa essere stato inizialmente simile alla Terra, con un core denso di ferro circondato da uno spesso mantello ricco di silicati. Un evento catastrofico potrebbe aver stappato il mantello di GJ 367 b, scoprendo il denso core del pianeta. In alternativa GJ 367 b potrebbe essere nato in una regione del disco protoplanetario ricca di ferro”, spiega Elisa Goffo. Durante l’osservazione di GJ 367 b, il team ha scoperto altri due pianeti di piccola massa che orbitano intorno alla stella GJ 367, rispettivamente in 11,5 e 34 giorni. Insieme questi tre pianeti e la loro stella costituiscono un sistema planetario extrasolare.

GJ 367 b è stato individuato per la prima volta dal telescopio spaziale della Nasa Tess (Transiting Exoplanet Survey Satellite). TESS utilizza il metodo dei transiti per misurare il raggio degli esopianeti, oltre ad altre proprietà. I ricercatori dell’Università di Torino e del Thüringer Landessternwarte hanno utilizzato misure di velocità radiale, ottenute con lo spettrografo HARPS dell’ESO, per determinare con precisione la sua massa e confermare che il pianeta ha una densità molto elevata. Lo spettrografo HARPS è uno strumento ad alta precisione installato presso il telescopio con uno specchio di 3,6 metri di diametro dell’European Southern Observatory (ESO) a La Silla, in Cile. Il consorzio di ricerca KESPRINT, composto da oltre 40 membri di nove Paesi (Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Italia, Giappone, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti), è specializzato nella conferma e nella caratterizzazione di esopianeti transitanti individuati da diversi telescopi spaziali. Per determinare la densità di GJ 367 b, il team ha ottenuto quasi 300 misure in due anni utilizzando lo spettrografo HARPS, nell’ambito di una campagna osservativa coordinata dal professor Davide Gandolfi, docente del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Grazie a queste numerose osservazioni i ricercatori sono riusciti a misurare la densità con grande precisione.

“Grazie all’intensa campagna osservativa con lo spettrografo HARPS abbiamo anche rivelato la presenza di altri due pianeti di piccola massa con periodi orbitali di 11,5 e 34 giorni. Questo riduce il numero di scenari possibili che potrebbero aver portato alla formazione di un pianeta così denso”, afferma Davide Gandolfi. “Mentre GJ 367 b potrebbe essersi formato in un ambiente ricco di ferro, non escludiamo uno scenario di formazione che coinvolga eventi violenti e catastrofici come la collisione tra pianeti”. Artie Hatzes, direttore del Thüringer Landessternwarte, sottolinea l’importanza di questa scoperta: “GJ 367 b è un caso estremo. Prima di poter sviluppare valide teorie sulla sua formazione abbiamo dovuto misurare con elevata precisione la sua massa e il suo raggio. Ci aspettiamo che un sistema planetario sia composto da diversi pianeti, quindi era importante cercare e trovare altri pianeti in orbita nel sistema – studiare cioè la sua architettura”.

Misure simultanee da due missioni fanno luce sulla corona solare

Misure simultanee da due missioni fanno luce sulla corona solareRoma, 14 set. (askanews) – Grazie all’intuizione del team di missione della sonda Esa/Nasa Solar Orbiter e a una accurata sequenza di manovre in volo per sfruttare il concomitante supporto osservativo di Parker Solar Probe, un altro veicolo spaziale destinato allo studio del Sole, sono state realizzate per la prima volta in assoluto misure simultanee della struttura a grande scala della corona solare e delle sue proprietà cinetiche e microfisiche. I risultati dello studio, pubblicati oggi in un articolo sulla rivista “The Astrophysical Journal Letters” e ottenuti da un team internazionale a guida Inaf a cui partecipano anche ricercatori dell’Università di Firenze, Agenzia Spaziale Italiana e Consiglio Nazionale delle Ricerche, indicano che i fenomeni di turbolenza siano i principali responsabili del riscaldamento della corona solare alle temperature osservate, gettando così nuova luce su un enigma cosmico che dura ormai da parecchi decenni.

L’atmosfera del Sole è chiamata corona. È costituita da un gas elettricamente carico – il cosiddetto plasma – e ha una temperatura di circa un milione di gradi Celsius. La sua temperatura è un mistero per gli scienziati perché la superficie del Sole è di “appena” 6000 gradi. La corona dovrebbe essere più fredda della superficie perché l’energia del Sole proviene dalle reazioni di fusione nucleare che avvengono nelle sue regioni centrali e la temperatura diminuisce progressivamente via via che ci si allontana da esse. Eppure la corona è più di 150 volte più calda della superficie. Deve esserci un altro metodo per trasferire l’energia nel plasma, ma quale? Da tempo – informano Inaf e Asi una nota – si sospetta che la turbolenza nell’atmosfera solare possa provocare un riscaldamento significativo del plasma nella corona. Ma quando si tratta di studiare questo fenomeno, i fisici solari si scontrano con un problema pratico: è impossibile raccogliere tutti i dati necessari con un solo veicolo spaziale. Per avere un quadro completo, sono intanto necessari almeno due veicoli spaziali. Oggi, questa prima richiesta è soddisfatta grazie a Solar Orbiter e alla sonda Parker Solar Probe della Nasa. Solar Orbiter è stato progettato per avvicinarsi il più possibile al Sole ed eseguire operazioni di telerilevamento e misurazioni in situ. Parker Solar Probe rinuncia in gran parte al telerilevamento per avvicinarsi ancora di più alla nostra stella, realizzando misurazioni in situ.

Ma per sfruttare appieno le loro caratteristiche complementari, i due veicoli spaziali devono utilizzare i loro strumenti simultaneamente e Parker Solar Probe deve trovarsi nel campo visivo di uno degli strumenti di Solar Orbiter. In questa configurazione, Solar Orbiter può registrare le conseguenze su larga scala di ciò che Parker Solar Probe sta misurando in loco. Daniele Telloni, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Torino, fa parte del team scientifico dello strumento Metis a bordo di Solar Orbiter. Metis è un coronografo progettato da Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), Università di Firenze, Università di Padova, Cnr-Ifn, e realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana con la collaborazione dell’industria italiana, che riesce a bloccare la luce proveniente dalla superficie del Sole e fotografa con elevato contrasto e livello di dettaglio la corona. Metis insomma è lo strumento perfetto da utilizzare per le misurazioni su larga scala delle regioni più esterne dell’atmosfera solare.

Così, Telloni e il suo team hanno iniziato a cercare date e orari in cui Parker Solar Probe si sarebbe trovato nella giusta posizione per realizzare osservazioni congiunte con Solar Orbiter, scoprendo che questo sarebbe avvenuto il 1 giugno 2022. Rimaneva però ancora un problema da superare: pur trovandosi nella giusta posizione reciproca la sonda Parker Solar Probe sarebbe comunque rimasta appena fuori del campo di vista di Metis, vanificando così la fortunata configurazione orbitale. Da ulteriori analisi, Telloni si è reso conto che per risolvere il problema era necessario impartire delle correzioni nell’assetto di Solar Orbiter, ovvero una rotazione di 45 gradi e poi un puntamento leggermente disassato rispetto al Sole. Manovre queste, seppur apparentemente semplici, che hanno allertato il team operativo del veicolo spaziale, per il rischio di un possibile danneggiamento causato da una diversa esposizione alle radiazioni solari della strumentazione del veicolo spaziale. Tuttavia, una volta chiarito il potenziale ritorno scientifico della manovra, il via libera è arrivato con grande convinzione. Tutte le procedure sono state quindi eseguite alla perfezione, le due sonde si sono trovate nella configurazione prevista ed è stato così possibile effettuare le prime misurazioni simultanee della configurazione su larga scala della corona solare e delle proprietà microfisiche del plasma che lo compone.

“Questo lavoro è il risultato del contributo di moltissime persone e per coordinarlo servivano competenze sia sull’ambiente coronale che eliosferico”, continua Daniele Telloni. “Io ho avuto la fortuna e il privilegio di avere come mentori due giganti della fisica coronale e dello spazio interplanetario, Ester Antonucci e Roberto Bruno, rispettivamente, entrambi dell’Inaf”. Confrontando i dati misurati con le previsioni teoriche sviluppate nel corso degli anni, il team ha dimostrato che i fisici solari avevano quasi certamente ragione nell’identificare la turbolenza come un modo efficiente per trasferire energia dalla superficie del Sole agli strati più esterni della sua atmosfera. “Questo è solo l’ultimo di una serie di importanti risultati ottenuti grazie ai dati acquisiti da Metis e dimostra quanto sia utile poter combinare dati simultanei di remote sensing e misure in-situ del vento solare, consentendo di studiare processi fisici come quelli legati al riscaldamento coronale su tutte le scale spaziali di interesse” dichiara Marco Stangalini, ricercatore e responsabile di programma Asi della missione Solar Orbiter. Il modo specifico in cui la turbolenza agisce è non dissimile da quello che accade quando si mescola il caffè in una tazza. Stimolando i movimenti casuali di un fluido, sia esso un gas o un liquido, l’energia viene trasferita su scale sempre più piccole, arrivando a trasformarsi in calore. Nel caso della corona solare, il fluido che la compone è anche magnetizzato e quindi l’energia magnetica immagazzinata è disponibile per essere convertita in calore. Questo trasferimento di energia magnetica e cinetica da scale più grandi a scale più piccole è l’essenza stessa della turbolenza. Alle scale più piccole, permette alle fluttuazioni di interagire con le particelle elementari, soprattutto protoni, e di riscaldarle. Saranno ancora necessarie ulteriori indagini prima di poter affermare che l’enigma del riscaldamento solare è risolto, ma ora, grazie al lavoro del team di Telloni, i fisici solari hanno a disposizione la prima misura di questo processo.

Arianespace, contratto con Intelsat per lancio IS-45 con Ariane 6

Arianespace, contratto con Intelsat per lancio IS-45 con Ariane 6Roma, 12 set. (askanews) – Arianespace ha annunciato oggi un contratto con Intelsat per lanciare il satellite l’IS-45 con Ariane 6. IS-45 – del peso di circa 1 tonnellata al lancio, progettato e costruito da SWISSto12, sulla base dell’innovativa piattaforma HummingSat dell’azienda stessa – volerà a bordo di un Ariane 6 (nella sua versione pesante Ariane 64, condivisa con i co-passeggeri). L’obiettivo di lancio è la prima metà del 2026.

Quest’anno – informa una nota – segna il quarto decennio da quando Arianespace ha iniziato la sua storica relazione con Intelsat. Arianespace lanciò Intelsat 507 a bordo di un Ariane 1 della Guyana Francese nell’ottobre 1983, avviando una partnership che ha superato la prova del tempo e cinque diverse varianti del razzo Ariane. IS-45 sarà il terzo carico Intelsat assegnato ad Ariane 6 dopo IS-41 e IS-44. “Arianespace è onorata della sua partnership di quattro decenni con la società satellitare leader mondiale, Intelsat” ha detto Stéphane Israël, amministratore delegato di Arianespace. “Nel 1983, Arianespace ha lanciato il primo di quelli che sarebbero diventati decine di satelliti per Intelsat. Siamo felici di costruire su un patrimonio di fiducia per lanciare IS-45 a bordo di un Ariane 64 nel 2026”.

“Dopo decenni di lanci di successo con Arianespace, siamo sicuri che Ariane 6 fornirà l’efficienza e la flessibilità necessarie per le nostre missioni future”, ha detto Jean-Luc Froeliger, Intelsat senior VP dei sistemi spaziali.

Spazio, dall’Ue 166 mln per sostenere 54 progetti di ricerca

Spazio, dall’Ue 166 mln per sostenere 54 progetti di ricercaRoma, 8 set. (askanews) – La Commissione ha annunciato i risultati degli inviti a presentare proposte 2022-2023 per progetti di ricerca legati allo spazio nell’ambito del programma Horizon Europe. Un totale di 166 milioni di euro sosterranno 54 progetti di ricerca spaziale, attuati dall’Agenzia esecutiva europea per la salute e il digitale (HaDEA) e dall’Agenzia per il programma spaziale dell’Ue (Euspa), con l’obiettivo di apportare innovazioni nel settore. Start up e Pmi rappresentano circa il 25% dei partecipanti selezionati, ricevendo quasi il 30% dei finanziamenti stanziati.

I progetti selezionati – informa la Commissione – contribuiranno a rafforzare sia il programma spaziale dell’Unione europea che altre priorità di ricerca spaziale in vari settori, dall’osservazione della Terra al sistema europeo globale di navigazione satellitare (Egnos), alle telecomunicazioni sicure e all’accesso autonomo allo spazio. I progetti coprono un’ampia gamma di applicazioni, dal monitoraggio dei gas serra e degli aerosol all’osservazione delle coste e delle colture, e affrontano anche le esigenze in orbita e la scienza. La selezione rafforzerà la competitività e l’autonomia tecnologica dell’Unione e porterà allo sviluppo di nuovi servizi e applicazioni a valle per Copernicus, Galileo, il servizio europeo di copertura per la navigazione geostazionaria (Egnos) e il programma di comunicazioni satellitari governative dell’Unione europea (GovSatCom).

Si prevede che i progetti legati allo spazio riceveranno quasi 1,6 miliardi di euro in totale durante i sette anni di attuazione di Orizzonte Europa, corrispondenti a una media di 225 milioni di euro all’anno, comprese le attività delegate all’Agenzia spaziale europea (Esa).

Erc Advanced Grant a Elena Pancino (Inaf) per la danza delle stelle

Erc Advanced Grant a Elena Pancino (Inaf) per la danza delle stelleRoma, 8 set. (askanews) – Dal primo novembre prossimo e per i successivi cinque anni, Elena Pancino – ricercatrice Inaf a Firenze – guiderà il progetto europeo “StarDance” che, con un budget di 2,5 mln di euro messo a disposizione dall’European Research Council (Erc) attraverso un Advanced Grant, cercherà di dare risposta a una domanda fondamentale aperta da decenni: “Come si formano le stelle?”.

StarDance – informa l’Istituto nazionale di astrofisica – studierà le proprietà fisiche e chimiche delle popolazioni stellari esotiche negli ammassi stellari e nella popolazione di campo della Via Lattea, per comprovare la nuova ipotesi proposta da Elena Pancino basata sullo studio di un tipo di stelle “non-canoniche”, risultato di interazioni tra stelle binarie che si fonderebbero dando origine a un’unica stella più massiccia. Queste popolazioni di stelle verranno studiate soprattutto negli ammassi stellari, sia aperti che globulari, ovvero le “culle” entro cui la maggior parte delle stelle si forma, rendendoli quindi ambienti molto attivi dal punto di vista chimico e dinamico. Proprio di questi ammassi, a oggi non è ancora del tutto chiaro quale sia il meccanismo di formazione, soprattutto per i più antichi (i globulari), né se la formazione stellare nell’universo primordiale fosse diversa da quella che è possibile osservare oggi. Alcune di queste stelle esotiche attendono da decenni una interpretazione certa della loro origine. La definizione deriva da alcune loro caratteristiche peculiari: per esempio una composizione chimica anomala, il tipo di rotazione o la loro estrema ricchezza di litio, oppure la perdita di una parte importante della loro atmosfera.

Il titolo accattivante del progetto StarDance richiama la danza delle stelle, un concetto spesso usato per descrivere il percorso di oggetti che gravitano l’uno attorno all’altro. “Nel mio progetto, metterò assieme la danza delle stelle che da sole ruotano molto velocemente sul loro asse, delle stelle binarie che ruotano l’una attorno all’altra, e degli ammassi stellari in cui migliaia o addirittura milioni di stelle seguono i loro percorsi non-deterministici, solitarie o in coppie e multipli, sotto l’azione del comune campo gravitazionale” spiega Elena Pancino. “Con StarDance – prosegue – avrò la possibilità di mettere alla prova una mia nuova ipotesi, secondo cui le interazioni tra stelle molto vicine tra loro, con scambio di massa e anche con la fusione delle due stelle, possono spiegare tutte le osservazioni in maniera naturale e organica. L’ambizione sta nel fatto che il progetto richiede una batteria di test ad ampio spettro, con osservazioni che vanno dalla banda dei raggi X fino all’infrarosso, ottenute per di più con tecniche diversissime, dalle più classiche fino all’intelligenza artificiale, e richiede anche competenze astrofisiche molto variegate. In sostanza, per la prima volta si guarderà il problema da diversi angoli in maniera organica e spaziando tra diversi campi di ricerca che tradizionalmente non comunicano molto tra loro”.

Questa ricerca si inserisce in un contesto scientifico già in grande fermento nel campo della formazione e dell’evoluzione stellare, grazie anche al contributo della missione astrometrica europea Gaia e altre missioni spaziali e grandi survey da Terra, che stanno producendo una enorme mole di dati di altissima qualità ancora lontana, però, dall’essere interpretata in modo soddisfacente. In questo contesto, gli ammassi stellari si confermano come potenti laboratori astrofisici da utilizzare per testare i modelli teorici. “Io e il mio gruppo potremo contare su una enorme mole di lavoro fatta dalla comunità a cui apparteniamo. Tuttavia, l’Erc finanzia progetti alla cui base c’è un elemento di novità o di rottura con il passato, soprattutto dove ci sono grandi problemi aperti da lungo tempo, a cui le tecniche tradizionali non hanno saputo dare finora una risposta, proprio come nel nostro caso” conclude Pancino.

Esa nella missione giapponese XRISM, studierà Universo a raggi X

Esa nella missione giapponese XRISM, studierà Universo a raggi XRoma, 7 set. (askanews) – Esplorare la crescita degli ammassi di galassie, la composizione chimica dell’Universo e gli estremi dello spazio-tempo. Questo l’obiettivo della missione XRISM (X-Ray Imaging and Spectroscopy Mission) della Japan Aerospace Exploration Agency (Jaxa) in collaborazione con la Nasa e una significativa partecipazione dell’Agenzia spaziale europea, decollata oggi su un razzo H-IIA dal Tanegashima Space Center in Giappone, insieme al lander lunare Slim (Smart Lander for Investigating Moon).

L’Esa e le istituzioni europee hanno contribuito con linee guida scientifiche e tecnologie vitali a XRISM, anche per gli strumenti scientifici e per i sistemi che mantengono XRISM puntato e orientato correttamente. In cambio di questi contributi, informa l’Esa, all’agenzia spaziale europea verrà assegnato l’8% del tempo di osservazione disponibile di XRISM. Ciò consentirà agli scienziati europei di proporre obiettivi cosmici da osservare nella luce a raggi X e fare progressi in questo settore dell’astronomia. “L’Esa – dichiara Matteo Guainazzi, scienziato del progetto XRISM dell’Esa – ha già una forte eredità e presenza nell’astronomia delle alte energie. Le nostre missioni XMM-Newton e Integral hanno studiato l’Universo nei raggi X e nei raggi gamma per oltre due decenni, e attualmente stiamo pianificando la missione Athena. Con questa esperienza, siamo stati in grado di dare importanti contributi a quella che ci aspettiamo sarà una missione XRISM molto produttiva”.

Mentre XMM-Newton rimane un eccellente osservatore di raggi X a bassa energia, XRISM è stato ottimizzato per osservare grandi strutture diffuse nel cosmo (come gli ammassi di galassie), con una capacità senza precedenti di distinguere i “colori” della luce a raggi X ad alta energia. Combinando le osservazioni dei due osservatori, – spiega l’Esa – avremo misurazioni complementari che rivelano un quadro più completo dell’Universo caldo ed energetico. Agli astronomi che richiedono il tempo di osservazione con XRISM potrebbe in futuro essere offerto il tempo di osservazione su XMM-Newton. XRISM getterà le basi per la missione Athena dell’Esa, attualmente in fase di studio e destinata ad essere il più grande osservatorio a raggi X mai costruito. XRISM fornirà le prime misure di spettroscopia a raggi X ad alta risoluzione di oggetti nell’Universo vicino; Athena si baserà su queste scoperte per osservare oggetti più distanti, nell’epoca in cui si è formata la più grande struttura legata gravitazionalmente nell’Universo, o quando i primi buchi neri supermassicci al centro delle galassie sono diventati attivi.

Una volta che XRISM raggiungerà la sua orbita operativa a 550 km sopra la superficie terrestre, scienziati e ingegneri inizieranno una fase di dieci mesi di test e calibrazione degli strumenti scientifici del veicolo spaziale e verifica delle prestazioni scientifiche della missione. XRISM trascorrerà quindi almeno tre anni osservando gli oggetti e gli eventi più energetici del cosmo sulla base di proposte elaborate da scienziati di tutto il mondo.

Astronomi rilevano campo magnetico galassia più lontana di sempre

Astronomi rilevano campo magnetico galassia più lontana di sempreRoma, 6 set. (askanews) – Utilizzando ALMA (l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), alcuni astronomi hanno rilevato il campo magnetico di una galassia così lontana che la sua luce ha impiegato più di 11 miliardi di anni per raggiungerci: la vediamo com’era quando l’Universo aveva appena 2,5 anni miliardi di anni. Il risultato fornisce agli astronomi indizi vitali su come si sono formati i campi magnetici delle galassie come la Via Lattea.

I campi magnetici sono comuni a molti corpi astronomici nell’Universo, siano essi pianeti, stelle o galassie. “Molti potrebbero non sapere che la nostra intera galassia e altre galassie sono permeate da campi magnetici, che si estendono per decine di migliaia di anni luce”, afferma James Geach, professore di astrofisica presso l’Università dell’Hertfordshire, nel Regno Unito, e autore principale dello studio pubblicato oggi da Nature. “In realtà sappiamo molto poco su come si formano questi campi, nonostante siano fondamentali per l’evoluzione delle galassie”, aggiunge Enrique Lopez Rodriguez, ricercatore presso l’Università di Stanford, negli Stati Uniti, che ha partecipato allo studio. Non è chiaro quanto presto nella vita dell’Universo e quanto velocemente si formino i campi magnetici nelle galassie, perché finora gli astronomi hanno mappato i campi magnetici solo nelle galassie vicine a noi.

Ora, utilizzando ALMA, di cui l’ESO (Osservatorio Europeo Australe) è partner, Geach e il suo gruppo hanno scoperto un campo magnetico già completamente formato in una galassia distante, simile nella struttura a quello osservato nelle galassie vicine a noi. Il campo è circa 1000 volte più debole del campo magnetico terrestre, ma si estende per oltre 16.000 anni luce. “Questa scoperta ci fornisce nuovi indizi su come si formano i campi magnetici su scala galattica”, spiega Geach. L’osservazione di un campo magnetico completamente sviluppato in questa fase iniziale della storia dell’Universo indica che i campi magnetici che abbracciano intere galassie possono formarsi rapidamente mentre le giovani galassie crescono.

L’equipe ritiene che l’intensa formazione stellare nell’Universo primordiale potrebbe aver avuto un ruolo nell’accelerare lo sviluppo dei campi. Inoltre, questi campi possono a loro volta influenzare il modo in cui si formeranno le generazioni successive di stelle. Il coautore e astronomo dell’ESO Rob Ivison afferma che la scoperta apre “una nuova finestra sui meccanismi interni delle galassie, perché i campi magnetici sono collegati al materiale che sta formando nuove stelle”. Per effettuare questa rilevazione, l’equipe ha cercato la luce emessa dai grani di polvere in una galassia distante, 9io9

Spazio, successo prova a fuoco completa stadio principale Ariane 6

Spazio, successo prova a fuoco completa stadio principale Ariane 6Roma, 6 set. (askanews) – Il 5 settembre i team di ArianeGroup, dell’agenzia spaziale francese Cnes (Centre National d’Etudes Spatiales) e dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) hanno completato con successo una sequenza di lancio completa per Ariane 6 sulla rampa di lancio del Centro Spaziale della Guyana, culminata con il test di combustione dello stadio principale del lanciatore con l’avviamento del motore Vulcain 2.1.

Questo secondo test di combustione dello stadio principale dell’Ariane 6 inclusiuvo dell’avvio completo del motore – informa ArianeGroup in una nota – è una pietra miliare nella campagna di test combinati. Fa seguito alla prima integrazione del lanciatore Ariane 6 sulla rampa di lancio, quindi ai test di qualificazione funzionale elettrica e dei fluidi e infine al primo test di temporizzazione del lancio effettuato il 18 luglio, che è stato completato con successo, convalidando il test fino all’accensione della camera di combustione. La sequenza di test si è svolta nello stesso modo della precedente, in uno scenario cronologico finale per il lanciatore completo, rappresentativo di un lancio, comprendente la rimozione del portale mobile e il riempimento dei serbatoi dello stadio principale e dello stadio superiore del lanciatore con idrogeno liquido (-253° Celsius) e ossigeno liquido (-183° Celsius). Si è conclusa con l’accensione e poi l’avvio del motore dello stadio principale Vulcain 2.1 per 4 secondi.

Il successo di questo test di accensione contribuisce alla qualificazione delle operazioni di cronometraggio e alla qualificazione dell’accensione del motore sulla rampa di lancio. Il lanciatore dovrà ancora sottoporsi, in ottobre, a un test di accensione di lunga durata dello stadio principale, che prevede circa 8 minuti (470 secondi) di funzionamento del motore Vulcain 2.1. Questo test coprirà l’intera fase di volo dello stadio principale e contribuirà a rendere lo stadio principale “pronto per il volo”. “La riuscita di questa prova di accensione dello stadio principale completa il test effettuato il 18 luglio e rappresenta un passo importante verso la qualificazione di Ariane 6, poiché abbiamo convalidato tutte le operazioni necessarie per effettuare una campagna di lancio completa. Il nostro obiettivo è ridurre di tre volte il tempo tra due voli rispetto ad Ariane 5, il che è essenziale per il ramp-up di Ariane 6, a vantaggio dei clienti di Arianespace. Questi successi sono possibili grazie alla stretta collaborazione tra i team dell’Esa, del Cnes e di ArianeGroup e al loro costante impegno nello sviluppo del sistema di lancio Ariane 6”, spiega Martin Sion, amministratore delegato di ArianeGroup.

“Questa prova a fuoco completa dell’Ariane 6 era essenziale per ridurre al minimo il rischio di problemi durante la sequenza di lancio finale e garantirne il successo. Qualificare, passo dopo passo, tutte le operazioni che portano al decollo richiede un lavoro rigorosamente coordinato tra Cnes, ArianeGroup ed Esa. I prossimi mesi saranno molto importanti per il futuro dei nostri lanciatori europei. Vorrei ringraziare tutte le persone coinvolte per gli enormi sforzi compiuti per garantire il successo di Ariane 6”, ha aggiunto Philippe Baptiste, presidente e amministratore delegato del Cnes. “Questo importante test con un prototipo di Ariane 6 sulla rampa di lancio è un altro passo importante verso il volo inaugurale. Questo successo testimonia il duro lavoro e l’eccellente collaborazione dei team che stanno preparando l’Ariane 6 per il primo lancio. La nostra priorità non è solo il successo del volo inaugurale, ma anche il ramp-up che seguirà, dato il numero di contratti di servizio di lancio firmati finora per Ariane 6”, ha concluso Toni Tolker-Nielsen, direttore del trasporto spaziale dell’Esa.

Gli stadi a propulsione liquida del primo modello di volo di Ariane 6 sono attualmente in fase di integrazione e finalizzazione presso i siti di ArianeGroup a Les Mureaux, in Francia, per lo stadio principale, e a Brema, in Germania, per lo stadio superiore. I booster di Ariane 6 (noti come ESR per “Equipped Solid Rocket”) sono già stati qualificati da test al fuoco e il loro motore a propulsione solida P120C è stato utilizzato in volo con successo due volte su Vega-C. Sono integrati in loco presso il Centro Spaziale della Guyana, dove vengono prodotti i due esemplari del volo inaugurale (un Ariane 62). Ariane 6 è un programma gestito e finanziato dall’Agenzia Spaziale Europea (Esa). In qualità di prime contractor e autorità di progettazione del lanciatore, ArianeGroup è responsabile dello sviluppo e della produzione con i suoi partner industriali, nonché del marketing attraverso la sua controllata Arianespace. Il Cnes e i suoi partner contrattuali sono responsabili della costruzione del Complesso di lancio Nr.4 (ELA4), dedicato ad Ariane 6 compresa la rampa di lancio, a Kourou nella Guyana francese. Il Cnes sta inoltre effettuando i test combinati in collaborazione con ArianeGroup e sotto la responsabilità dell’Esa.

Inaf, l’astronoma Bianca Maria Poggianti nominata socia dei Lincei

Inaf, l’astronoma Bianca Maria Poggianti nominata socia dei LinceiRoma, 6 set. (askanews) – Prestigiosa nomina per Bianca Maria Poggianti, dirigente di ricerca all’Osservatorio astronomico di Padova dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf), eletta Socia corrispondente dell’Accademia dei Lincei per la classe di Scienze fisiche, matematiche e naturali. Ne dà notizia Media Inaf, il notiziario online dell’Istituto nazionale di astrofisica.

Laureata in fisica all’Università di Pisa, dopo aver conseguito il dottorato in astronomia a Padova Poggianti ha trascorso periodi di ricerca nei Paesi Bassi, nel Regno Unito e in Germania. Già premiata con il Bessel Award della von Humboldt Foundation nel 2006, Poggianti è leader di progetti internazionali di grande impatto, tra i quali la survey Wings/OmegaWings e il progetto Gasp, per il quale ha ricevuto nel 2019 un Advanced Grant dello European Research Council di 2,5 milioni di euro. “Sono molto onorata per questo riconoscimento. Entrare a far parte di un’accademia così antica e prestigiosa – dice Poggianti – non è solo fonte di grande soddisfazione personale, ma è anche un’opportunità unica di incontro e scambio intellettuale con soci e socie della mia e di altre discipline. In questa occasione il mio pensiero va con gratitudine a tutte le mie collaboratrici e tutti i miei collaboratori, in particolare del team Gasp, perché è solo grazie al lavoro duro fatto insieme negli anni che è stato possibile raggiungere i risultati di eccellenza per i quali oggi ho l’onore di ricevere un riconoscimento così autorevole”.

Il distintivo dell’Accademia le sarà consegnato il 10 novembre a Roma, durante la cerimonia di apertura dell’anno accademico 2023-2024. Prima donna dell’Inaf a entrare a far parte dei Lincei, Poggianti si va ad aggiungere al gruppo di astronome (universitarie) già socie dell’Accademia: Francesca Matteucci, Monica Colpi e Laura Maraschi, nonché la presidente del Consiglio scientifico dell’Inaf Marica Branchesi. Poggianti sarà poi in compagnia di altri tre astronomi padovani – Francesco Bertola, Roberto Ragazzoni e Alvio Renzini – e ai colleghi dell’Inaf Massimo Della Valle e Marco Tavani, presidente dell’Istituto.

L’Accademia Nazionale dei Lincei è una delle più antiche e più celebri istituzioni accademiche esistenti. Fondata nel 1603 da Federico Cesi, annovera tra i suoi soci Galileo Galilei, Giovanni Battista Della Porta, Quintino Sella, Vito Volterra e, venendo agli anni più recenti, i premi Nobel Carlo Rubbia e Giorgio Parisi, quest’ultimo attuale vice-presidente dell’Accademia.