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Ismea: a fine 2023 -8,1% imprese agricole rispetto al 2014

Ismea: a fine 2023 -8,1% imprese agricole rispetto al 2014Roma, 21 nov. (askanews) – Alla fine del 2023 le imprese agricole iscritte nei registri camerali erano 704mila, l’8,1% in meno rispetto al 2014, con il loro peso sul totale delle imprese italiane ridotto dal 12,7% nel 2014 all’11,8% nel 2023. In questo contesto, grazie anche al sostegno della Pac, hanno assunto un maggiore rilievo le imprese agricole condotte da giovani, in crescita del 3,2% rispetto al 2014. Anche nell’industria alimentare le imprese, 68mila alla fine del 2023, si sono ridotte dell’1,3% rispetto al 2014 e del 3,6% rispetto al 2019. E’ quanto emerge dal Rapporto Agroalimentare 2024 di Ismea, presentato oggi al Masaf a Roma.


Questo andamento, specie nell’industria alimentare, spiega Ismea è anche frutto di un processo di ristrutturazione che comporta accorpamenti d’imprese e maggiore capacità competitiva e si riflette nella dinamica del valore aggiunto medio per impresa: questo tra il 2014 e il 2023 è cresciuto del 33% per l’intera economia, del 38% per l’agricoltura e del 44% per l’industria alimentare. Nel complesso dell’occupazione del settore agroalimentare la componente agricola si è ridotta del 3,1% nel decennio 2014-2023, portando a 872mila il numero degli occupati, il 3,3% del totale dell’economia. Al contrario, con 489mila unità (l’1,9% del totale economia) nel 2023 l’occupazione nell’industria alimentare e delle bevande è aumentata dell’8,8% rispetto al 2014.

Ismea: agricoltura e industria alimentare valgono 4% Pil italiano

Ismea: agricoltura e industria alimentare valgono 4% Pil italianoRoma, 21 nov. (askanews) – Agricoltura e industria alimentare, realizzano insieme un valore aggiunto di 77,2 miliardi di euro, pari a circa il 4% del Pil nazionale, con il contributo maggiore riconducibile al settore primario (40,5 miliardi).


E’ quanto emerge dal Rapporto Ismea 2024 sull’agroalimentare italiano presentato oggi a Roma presso il ministero e alla presenza del ministro Francesco Lollobrigida. Comprendendo anche le fasi a valle del sistema produttivo della distribuzione e della ristorazione, l’incidenza sul Pil sale al 7,7%, spingendosi fino al 15% se si includono i servizi di logistica, trasporto e intermediazione relativi alla filiera agroalimentare.

Ismea: industria alimentare, in 2023 valore aggiunto +16%

Ismea: industria alimentare, in 2023 valore aggiunto +16%Roma, 21 nov. (askanews) – Contrariamente al settore primario, l’industria alimentare ha chiuso il 2023 con un risultato decisamente migliore: il valore aggiunto è aumentato del 16% a prezzi correnti e del 2,7% in volume, rispetto all’anno precedente, nel contesto di una dinamica molto positiva nel decennio 2014-2023, sia in termini nominali (+45%) che reali (+26%). La produzione l’anno scorso, ha registrato solo una leggera flessione (-1,7% rispetto al 2022), ma nel quadro di un trend decennale, comunque, positivo (+10,5%).


E’ quanto emerge dal Rapporto Ismea 2024 sull’agroalimentare italiano presentato oggi a Roma presso il ministero e alla presenza del ministro Francesco Lollobrigida. Il primo comparto dell’industria alimentare italiana è il lattiero-caseario, a cui si deve il 14,3% del fatturato complessivo; seguono ortofrutta (8,5%), elaborati a base di carni (8,1%), vino (7,6%) e macellazione di carni rosse (7,2%). Pasta e olio, prodotti di punta dell’export, coprono rispettivamente il 5,7% e il 5,1% del fatturato dell’industria alimentare italiana. Le dinamiche del 2023 sono positive per il lattiero-caseario (+3,4%), trainato da export e consumi interni; cioccolateria e confetteria (+1,6%), grazie alla spinta della domanda estera; mangimistica (+1,9%) e panetterie e pasticcerie artigianali (+0,9%).


Si riducono, al contrario, i fatturati di oli e grassi vegetali (-10,5%), industria ittica (-9,2%), carni rosse (-7,5%), succhi di frutta (-7,9%) e gelati (-8,1%). L’Italia si conferma al terzo posto per incidenza sul valore aggiunto dell’industria alimentare dell’UE, con una quota dell’11,9%, preceduta da Germania (leader con il 19,5%) e Francia (17,8%); quarta è la Spagna con il 10%.

Ismea: agricoltura italiana seconda in Ue per valore aggiunto

Ismea: agricoltura italiana seconda in Ue per valore aggiuntoRoma, 21 nov. (askanews) – L’agricoltura italiana è seconda in Europa per valore aggiunto. Il nostro paese copre poco meno del 17% dell’economia del settore primario dell’UE: un’incidenza, in termini di valore aggiunto, che pone il nostro Paese al secondo posto, appena dietro alla Francia (con il 17,4%), ma davanti a Spagna (14,7%) e Germania (13,8%). Una posizione confermata anche nel 2023, nonostante la riduzione del 3,3% del valore aggiunto in termini reali (al netto cioè della dinamica dei prezzi), conseguente a un’annata agraria pesantemente condizionata dagli eventi climatici avversi. E’ quanto emerge dal Rapporto Ismea 2024 sull’agroalimentare italiano presentato oggi a Roma presso il ministero e alla presenza del ministro Francesco Lollobrigida.


L’annata 2023 è stata negativa per le coltivazioni legnose, che più di altre hanno risentito dell’impatto di grandine e gelo tardivo sulla produzione: frutta (-3%), ma soprattutto vino (-16,1%), che nel 2023 ha sperimentato la peggiore vendemmia dal dopoguerra ad oggi. Il consuntivo dell’anno si è rivelato negativo anche per patate (-4,4%), ortaggi (-1,5%), per il comparto florovivaistico (-3,8%) e per la zootecnia (-2,6% le carni bovine e -1,1% il latte). Le coltivazioni erbacee, al contrario, hanno registrato un andamento complessivamente positivo, in particolare le colture industriali (+8,5%) e i cereali (+6,6). In recupero la produzione di olio di oliva, aumentata in misura significativa (+36%) anche se lontana dai potenziali.

Agricoltura, Ismea: da alluvioni e siccità 1 miliardo di danni

Agricoltura, Ismea: da alluvioni e siccità 1 miliardo di danniRoma, 21 nov. (askanews) – Dai fenomeni alluvionali del mese di maggio in Emilia-Romagna, Toscana e Marche alle le gelate tardive, che hanno interessato il 40% delle aree agricole italiane, specie nel Nord-Est e lungo la dorsale appenninica, fino alle ondate di calore al Sud, il bilancio dei danni, a carico soprattutto di frutta, foraggi e cereali è stimato da Ismea attorno a un miliardo di euro per i soli eventi catastrofali. E’ quanto emerge dal rapporto 2024 presentato oggi a Roma al Masaf.

Ismea: agroalimentare italiano dipende da import in filiere chiave

Ismea: agroalimentare italiano dipende da import in filiere chiaveRoma, 21 nov. (askanews) – Mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, ma anche frumenti, carne bovina e olio extravergine di oliva. Sono le materie prime da trasformare in prodotti caratteristici delle filiere del made in Italy per le quali l’Italia ha una significativa dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento.


Questo è dovuto da un lato a un’agricoltura deficitaria di alcuni prodotti e dall’altro a un’industria alimentare orientata all’esportazione. Nonostante questa criticità, l’agroalimentare italiano migliora sia sul fronte interno sia estero. E questo grazie a una maggiore apertura internazionale che ha favorito i rapporti commerciali con l’estero e una più solida struttura produttiva e logistica che ha alzato il grado di autonomia delle forniture rispetto ai fabbisogni alimentari. A confermarlo è una batteria di indicatori contenuti nel Rapporto sull’agroalimentare italiano di Ismea presentato stamattina, che quest’anno propone un approfondimento sulle catene globali del valore e sul grado di approvvigionamento delle diverse filiere nazionali, temi di stringente attualità alla luce del quadro di crescente incertezza che sta inducendo diversi paesi a rivedere le strategie di delocalizzazione adottate negli ultimi decenni.


Uno degli indicatori chiave è il tasso di approvvigionamento generale del settore agroalimentare italiano, inteso come rapporto tra il valore della produzione interna e quello dei consumi, che nel complesso si è attestato, nel 2023, vicino al 100% (99,2%). Il dato – sottolinea l’Ismea – è frutto, tuttavia, di situazioni differenziate a livello di singoli comparti e prodotti. Una tendenza che si è accentuata negli ultimi anni di pari passo all’aumento della capacità di penetrazione sui mercati esteri dell’industria alimentare e alla contestuale minore disponibilità di materia prima nazionale a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e dello spopolamento delle aree interni. Questo deficit rende alcune filiere più vulnerabili a fattori geopolitici, climatici e sanitari che influenzano le catene di fornitura, specie laddove il tasso di approvvigionamento è basso e la provenienza delle importazioni è fortemente concentrata o legata a paesi lontani e a rischio, spiega Ismea.


I primi dieci prodotti importati dall’Italia sono in ordine: caffè, olio extravergine d’oliva, mais, bovini vivi, prosciutti e spalle di suini, frumento tenero e duro, fave di soia, olio di palma e panelli di estrazione dell’olio di soia. Il grado di autosufficienza dell’Italia per questi prodotti varia dallo 0% nel caso del caffè e dell’olio di palma a oltre il 60% nel caso dei prosciutti. Ma sono mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, i prodotti che, secondo l’analisi di Ismea, presentano le maggiori criticità in termini di approvvigionamento. Per entrambi le importazioni negli ultimi venti anni sono considerevolmente aumentate, comportando una drastica riduzione del tasso di approvvigionamento (al 46% per il mais e al 32% per la soia nel 2023). Quanto ai Paesi d’origine, per la soia si evidenzia una forte concentrazione delle forniture dal Brasile (50%), mentre nel caso del mais, pur in presenza di un livello di concentrazione minore, prevalgono gli arrivi dall’Ucraina, un Paese chiaramente a rischio elevato.


Il tasso di approvvigionamento italiano è basso anche per i frumenti, con l’industria pastaria che dipende per il 44% dalle forniture provenienti da Canada, Russia, Grecia e Turchia e quella dei prodotti da forno che per il 64% del suo fabbisogno ricorre al prodotto di origine ungherese, francese, austriaco, ucraino e romeno. Anche per la carne bovina il tasso di approvvigionamento è sceso a livelli molto bassi nel 2023 (40%), con la Francia che concentra l’85% del valore dell’import di bovini da ristallo. La prevalenza di un solo fornitore, trattandosi della Francia, è rassicurante sul fronte geopolitico ma rende comunque vulnerabile la filiera nazionale ad altri fattori, come testimoniano le recenti difficoltà dovute alle restrizioni sanitarie associate alla diffusione negli allevamenti francesi di epizoozie e alla più recente emergenza Blue tongue. Infine, per l’olio extravergine di oliva, di cui l’Italia è il secondo maggiore esportatore mondiale e il primo consumatore, le forniture provenienti dagli altri paesi del bacino Mediterraneo, in primis la Spagna, sfiorano il 50% del nostro fabbisogno, legando a doppio filo le sorti del prodotto nazionale a quello estero, soprattutto in termini di variabilità dei prezzi.

Ismea: su 100 euro spesi da consumatore a agricoltore utile di 7 euro

Ismea: su 100 euro spesi da consumatore a agricoltore utile di 7 euroRoma, 21 nov. (askanews) – Su 100 euro spesi dal consumatore per l’acquisto di prodotti agricoli freschi, meno di 20 euro remunerano il valore aggiunto degli agricoltori, ai quali, sottratti gli ammortamenti e i salari, resta un utile di 7 euro, contro i circa 19 euro del macro-settore del commercio e trasporto. Per i prodotti trasformati, che implicano un passaggio in più dalla fase agricola a quella industriale, l’utile dell’agricoltore si riduce a 1,5 euro, solo di poco inferiore a quello dell’industria, pari a 1,6 euro, contro i 13,1 euro del commercio e trasporto.


Lo si legge nella analisi della catena del valore, realizzata da Ismea sulla base dei dati più recenti dell’Istat e illustrata oggi nell’ambito della presentazione del Rapporto Agroalimentare 2024. L’ approfondimento sulla filiera della pasta e su quella della carne bovina ha messo in luce una situazione di sofferenza, con margini particolarmente compressi, se non addirittura negativi, per le aziende agricole e gli allevamenti, mitigati solo dal sostegno pubblico, attraverso la Pac e gli aiuti nazionali.


Nella catena del valore della pasta, i costi di produzione del frumento duro rappresentano una quota molto elevata (36%) del valore finale al consumo. Sia in presenza di bassi prezzi della granella, come nel 2017, sia di valori quasi doppi nel 2023, i costi unitari a carico delle aziende agricole sono sempre risultati più elevati dei prezzi di vendita, con conseguenti valori negativi del reddito operativo. Nella filiera della pasta è soprattutto il margine della distribuzione a incidere sul prezzo al consumo, con un peso del 30% circa nel 2017, salito al 36% nel 2023. Anche nella catena del valore della carne bovina la fase più critica è quella dell’allevamento, stretta nella morsa dei costi di approvvigionamento dei capi da ingrasso e dei costi di alimentazione, che nel loro insieme rappresentano oltre il 60% del valore finale del prodotto. La fase primaria è anche quella su cui gravano i maggiori rischi di natura esogena, dovuti ai bassi livelli di autosufficienza per i ristalli e le materie prime. In alcuni anni, come nel 2023, le implicazioni di tale dipendenza sono state particolarmente evidenti, con i costi di allevamento che hanno superato i ricavi generati dalla vendita dei capi, determinando un reddito operativo negativo. La fase dell’industria di macellazione mantiene più o meno la sua redditività (4,5% nel 2022 e 3,1% nel 2023), con una struttura in grado di diversificare il rischio; la distribuzione, infine, funge da cassa di compensazione, ritardando il trasferimento dell’inflazione ai prezzi al consumo, ma assicurandosi un margine lordo di 3,56 euro/kg, che in quota rappresenta quasi il 30% del prezzo finale.

Ismea: ripartire più equamente valore lungo filiera agroalimentare

Ismea: ripartire più equamente valore lungo filiera agroalimentareRoma, 21 nov. (askanews) – E’ urgente in Italia una ripartizione più equa del valore lungo la filiera alimentare, in cui la fase agricola è penalizzata, in alcuni casi anche in modo estremamente pesante, da squilibri strutturali che si sono accentuati tra il 2019 e il 2023 quando, nel contesto dei grandi stravolgimenti dovuti all’emergenza pandemica e allo shock energetico, il fisiologico ritardo nella trasmissione degli aumenti dei prezzi delle materie prime alle fasi a valle dell’agricoltura, in particolare all’industria e alla distribuzione, “ha comportato temporanei cambiamenti nella distribuzione del valore che non hanno tuttavia modificato, a conclusione di questo percorso, gli assetti a sfavore delle componenti produttive, in particolare del settore primario”. A trattenere la gran parte del valore, a discapito della fase agricola, sono logistica e distribuzione.


E’ quanto emerge dalla analisi della catena del valore, realizzata da Ismea sulla base dei dati più recenti dell’Istat e illustrata oggi nell’ambito della presentazione del Rapporto Agroalimentare 2024. Le cifre sono chiare: su 100 euro spesi dal consumatore per l’acquisto di prodotti agricoli freschi, meno di 20 euro remunerano il valore aggiunto degli agricoltori, ai quali, sottratti gli ammortamenti e i salari, resta un utile di 7 euro, contro i circa 19 euro del macro-settore del commercio e trasporto. Per i prodotti trasformati, che implicano un passaggio in più dalla fase agricola a quella industriale, l’utile dell’agricoltore si riduce a 1,5 euro, solo di poco inferiore a quello dell’industria, pari a 1,6 euro, contro i 13,1 euro del commercio e trasporto.


L’ approfondimento, realizzato dall’Istituto, sulla filiera della pasta e su quella della carne bovina ha messo in luce una situazione di sofferenza, con margini particolarmente compressi, se non addirittura negativi, per le aziende agricole e gli allevamenti, mitigati solo dal sostegno pubblico, attraverso la Pac e gli aiuti nazionali. Nella catena del valore della pasta, i costi di produzione del frumento duro rappresentano una quota molto elevata (36%) del valore finale al consumo. Sia in presenza di bassi prezzi della granella, come nel 2017, sia di valori quasi doppi nel 2023, i costi unitari a carico delle aziende agricole sono sempre risultati più elevati dei prezzi di vendita, con conseguenti valori negativi del reddito operativo. Nella filiera della pasta è soprattutto il margine della distribuzione a incidere sul prezzo al consumo, con un peso del 30% circa nel 2017, salito al 36% nel 2023.


Anche nella catena del valore della carne bovina la fase più critica è quella dell’allevamento, stretta nella morsa dei costi di approvvigionamento dei capi da ingrasso e dei costi di alimentazione, che nel loro insieme rappresentano oltre il 60% del valore finale del prodotto. La fase primaria è anche quella su cui gravano i maggiori rischi di natura esogena, dovuti ai bassi livelli di autosufficienza per i ristalli e le materie prime. In alcuni anni, come nel 2023, le implicazioni di tale dipendenza sono state particolarmente evidenti, con i costi di allevamento che hanno superato i ricavi generati dalla vendita dei capi, determinando un reddito operativo negativo. La fase dell’industria di macellazione mantiene più o meno la sua redditività (4,5% nel 2022 e 3,1% nel 2023), con una struttura in grado di diversificare il rischio; la distribuzione, infine, funge da cassa di compensazione, ritardando il trasferimento dell’inflazione ai prezzi al consumo, ma assicurandosi un margine lordo di 3,56 euro/kg, che in quota rappresenta quasi il 30% del prezzo finale.

Ricerca: un libero professionista su due non teme la burocrazia

Ricerca: un libero professionista su due non teme la burocraziaMilano, 21 nov. (askanews) – In Italia l’83% dei liberi professionisti è soddisfatto di lavorare in autonomia, scelta che nel 52% dei casi deriva dal desiderio di libertà nella gestione di tempo. In particolare, per i lavoratori della Gen Z, la generazione compresa tra i 18 e i 26 anni, è più accentuata l’idea di non riconoscersi nel lavoro dipendente. In controtendenza rispetto all’immaginario collettivo, quasi un lavoratore su due, il 45%, afferma di non temere la burocrazia italiana, anche se emergono il desiderio di maggiori tutele in particolare per la malattia (36%) e la preoccupazione per tasse, contributi e scadenze (29%). Vorrebbe inoltre più fiducia dagli enti di credito (16%) e gradirebbe supporti per la genitorialità (8%). Sono alcuni dei dati emersi da un sondaggio effettuato da Fiscozen, tech company per la gestione fiscale della partita Iva, su oltre mille liberi professionisti con l’obiettivo di fotografare il livello di soddisfazione rispetto alla propria scelta professionale.


“In Italia ci sono più di 3 milioni di lavoratori con partita Iva. Sappiamo che il racconto stereotipato e spesso negativo non sempre rispecchia la realtà di queste persone, che cercano soprattutto la libertà nel proprio lavoro. Questo significa che nonostante le difficoltà legate a burocrazia, tasse o bisogno di maggiore tutela, sono soprattutto alla ricerca del proprio equilibrio come ci rivela il sondaggio. Vogliono conciliare autonomia, crescita professionale e benessere personale, trovando la formula giusta per realizzarsi appieno” afferma Enrico Mattiazzi, CEO e Co-Founder di Fiscozen. Sul piano della qualità della vita, il 56% afferma di essere ancora alla ricerca di un equilibrio tra soddisfazioni e difficoltà, mentre il 29% ha già trovato il ritmo giusto e si dichiara contento della propria condizione lavorativa. Solo una minima parte (15%) non è pienamente soddisfatta dello stile di vita da freelance. La motivazione principale per intraprendere questa strada è la ricerca di indipendenza che ispira oltre metà degli intervistati. Altre ragioni includono l’appartenenza ad albi professionali (20%) e la possibilità di guadagnare di più (8%). Il restante 20%, invece, ha aperto partita iva per necessità più che per scelta. L’aspetto più gratificante è la gestione di priorità, tempo e clienti, segnalato dal 49% degli intervistati. Seguono la possibilità di costruire il proprio futuro (14%), la libertà di esprimersi e sperimentare (11%), un guadagno proporzionale alle capacità e al merito (8%), la varietà di progetti e realtà con cui confrontarsi (8%), un aspetto molto apprezzato dai giovani tra i 18 e i 26 anni.


L’irrinunciabile libertà ha tuttavia un prezzo che disturba la serenità dei liberi professionisti. Si tratta di alcune preoccupazioni che, insieme alla pressione fiscale, coinvolgono tutte le fasce di età, i generi e i codici ATECO: riuscire a guadagnare abbastanza (24%); mancanza di tutele (15%); reperire nuovi clienti (14%); eccesso di lavoro finendo per trascurare il resto (9%); accesso al credito (7%). Al Centro e Sud Italia c’è maggiore preoccupazione per tasse, contributi e burocrazia, mentre al Nord, complice un costo della vita mediamente più alto, si teme di non guadagnare abbastanza. Quanto agli aspetti prettamente burocratici, i principali fattori di preoccupazione emersi sono: il rischio di commettere errori e di incappare nelle conseguenti sanzioni (40%), la quantità di tasse e contributi (37%), rimanere aggiornati sulle leggi (9%), stare dietro alle scadenze (7%). Analizzando le differenze in base al genere, emerge che, sul piano motivazionale, le donne prediligono libertà e creatività, mentre gli uomini preferiscono essere i protagonisti della propria realizzazione. Quanto invece agli aspetti che potrebbero migliorare la serenità e lo stile di vita, i liberi professionisti vorrebbero più semplificazione fiscale, le libere professioniste maggiori tutele per malattia o maternità. Gli uomini, inoltre, aprono la partita Iva motivati dal desiderio di guadagnare di più e perché poco inclini al lavoro da dipendente, mentre le donne perché parte di un albo professionale. Tra le preoccupazioni principali delle libere professioniste spicca il timore di non incassare a sufficienza per una su quattro. Dalla Gen Z ai Baby Boomer. Ambizioni, sfide e soddisfazioni Considerando invece l’età degli intervistati, per gli under 26 della Gen Z scelgono di aprire partita iva perché desiderano maggiore libertà ed è più accentuata l’idea di non riconoscersi nel lavoro dipendente. A preoccupare di più sono l’accesso al credito, gli errori e le sanzioni. I Millennial, di età compresa tra i 27 e i 41, sono spinti e motivati più degli altri dal bisogno di libertà, ma soffrono il rischio di commettere errori e la mancanza di tutele e supporti per la genitorialità. La Generazione X e i baby boomer, con più di 42 anni, diventano liberi professionisti soprattutto perché parte di un albo professionale oppure non per propria scelta. Temono di non trovare nuovi clienti e hanno difficoltà a stare dietro ai cambiamenti delle leggi in materia fiscale. Nel 42,4% dei casi, si dichiarano interessati a maggiori tutele per malattia. “Questi dati mostrano come i lavoratori in partita iva, soprattutto i giovani, scelgano un modello di lavoro che riflette i loro valori e il desiderio di indipendenza. Vediamo svilupparsi sempre di più un approccio flessibile e autentico, che permette di costruire uno stile di vita più soddisfacente e in sintonia con le proprie aspirazioni” conclude Mattiazzi.

Proietti (Ismea): vicinissimi a quota 70 mld export a fine 2024

Proietti (Ismea): vicinissimi a quota 70 mld export a fine 2024Roma, 21 nov. (askanews) – “L’intuizione di spingere sull’agroalimentare ha dato risultati confortanti. Vogliamo arrivare a quota 70 miliardi di euro di export agroalimentare entro la fine di quest’anno e siamo vicinissimi”. Lo ha detto il presidente di Ismea, Livio Proietti, intervenendo in apertura della presentazione del rapporto Ismea 2024 in corso al Masaf a Roma.


“Ci sono certo delle criticità – ha aggiunto Proietti – innanzitutto il rischio in agricoltura dovuto ai cambimenti climatici, poi le situazioni di crisi internazionale e l’approvvigionamento che è una sfida da affrontare a causa della riduzione della produzione agricola che deriva soprattuto dallo spopolamento delle aree interne. Ismea – ha ricordato Proietti – sostiene le iniziative per ripopolarle e soprattutto per non perdere ulteriore superficie agricola produttiva”.