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Ismea: industria alimentare, in 2023 valore aggiunto +16%

Ismea: industria alimentare, in 2023 valore aggiunto +16%Roma, 21 nov. (askanews) – Contrariamente al settore primario, l’industria alimentare ha chiuso il 2023 con un risultato decisamente migliore: il valore aggiunto è aumentato del 16% a prezzi correnti e del 2,7% in volume, rispetto all’anno precedente, nel contesto di una dinamica molto positiva nel decennio 2014-2023, sia in termini nominali (+45%) che reali (+26%). La produzione l’anno scorso, ha registrato solo una leggera flessione (-1,7% rispetto al 2022), ma nel quadro di un trend decennale, comunque, positivo (+10,5%).


E’ quanto emerge dal Rapporto Ismea 2024 sull’agroalimentare italiano presentato oggi a Roma presso il ministero e alla presenza del ministro Francesco Lollobrigida. Il primo comparto dell’industria alimentare italiana è il lattiero-caseario, a cui si deve il 14,3% del fatturato complessivo; seguono ortofrutta (8,5%), elaborati a base di carni (8,1%), vino (7,6%) e macellazione di carni rosse (7,2%). Pasta e olio, prodotti di punta dell’export, coprono rispettivamente il 5,7% e il 5,1% del fatturato dell’industria alimentare italiana. Le dinamiche del 2023 sono positive per il lattiero-caseario (+3,4%), trainato da export e consumi interni; cioccolateria e confetteria (+1,6%), grazie alla spinta della domanda estera; mangimistica (+1,9%) e panetterie e pasticcerie artigianali (+0,9%).


Si riducono, al contrario, i fatturati di oli e grassi vegetali (-10,5%), industria ittica (-9,2%), carni rosse (-7,5%), succhi di frutta (-7,9%) e gelati (-8,1%). L’Italia si conferma al terzo posto per incidenza sul valore aggiunto dell’industria alimentare dell’UE, con una quota dell’11,9%, preceduta da Germania (leader con il 19,5%) e Francia (17,8%); quarta è la Spagna con il 10%.

Ismea: agricoltura italiana seconda in Ue per valore aggiunto

Ismea: agricoltura italiana seconda in Ue per valore aggiuntoRoma, 21 nov. (askanews) – L’agricoltura italiana è seconda in Europa per valore aggiunto. Il nostro paese copre poco meno del 17% dell’economia del settore primario dell’UE: un’incidenza, in termini di valore aggiunto, che pone il nostro Paese al secondo posto, appena dietro alla Francia (con il 17,4%), ma davanti a Spagna (14,7%) e Germania (13,8%). Una posizione confermata anche nel 2023, nonostante la riduzione del 3,3% del valore aggiunto in termini reali (al netto cioè della dinamica dei prezzi), conseguente a un’annata agraria pesantemente condizionata dagli eventi climatici avversi. E’ quanto emerge dal Rapporto Ismea 2024 sull’agroalimentare italiano presentato oggi a Roma presso il ministero e alla presenza del ministro Francesco Lollobrigida.


L’annata 2023 è stata negativa per le coltivazioni legnose, che più di altre hanno risentito dell’impatto di grandine e gelo tardivo sulla produzione: frutta (-3%), ma soprattutto vino (-16,1%), che nel 2023 ha sperimentato la peggiore vendemmia dal dopoguerra ad oggi. Il consuntivo dell’anno si è rivelato negativo anche per patate (-4,4%), ortaggi (-1,5%), per il comparto florovivaistico (-3,8%) e per la zootecnia (-2,6% le carni bovine e -1,1% il latte). Le coltivazioni erbacee, al contrario, hanno registrato un andamento complessivamente positivo, in particolare le colture industriali (+8,5%) e i cereali (+6,6). In recupero la produzione di olio di oliva, aumentata in misura significativa (+36%) anche se lontana dai potenziali.

Agricoltura, Ismea: da alluvioni e siccità 1 miliardo di danni

Agricoltura, Ismea: da alluvioni e siccità 1 miliardo di danniRoma, 21 nov. (askanews) – Dai fenomeni alluvionali del mese di maggio in Emilia-Romagna, Toscana e Marche alle le gelate tardive, che hanno interessato il 40% delle aree agricole italiane, specie nel Nord-Est e lungo la dorsale appenninica, fino alle ondate di calore al Sud, il bilancio dei danni, a carico soprattutto di frutta, foraggi e cereali è stimato da Ismea attorno a un miliardo di euro per i soli eventi catastrofali. E’ quanto emerge dal rapporto 2024 presentato oggi a Roma al Masaf.

Ismea: agroalimentare italiano dipende da import in filiere chiave

Ismea: agroalimentare italiano dipende da import in filiere chiaveRoma, 21 nov. (askanews) – Mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, ma anche frumenti, carne bovina e olio extravergine di oliva. Sono le materie prime da trasformare in prodotti caratteristici delle filiere del made in Italy per le quali l’Italia ha una significativa dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento.


Questo è dovuto da un lato a un’agricoltura deficitaria di alcuni prodotti e dall’altro a un’industria alimentare orientata all’esportazione. Nonostante questa criticità, l’agroalimentare italiano migliora sia sul fronte interno sia estero. E questo grazie a una maggiore apertura internazionale che ha favorito i rapporti commerciali con l’estero e una più solida struttura produttiva e logistica che ha alzato il grado di autonomia delle forniture rispetto ai fabbisogni alimentari. A confermarlo è una batteria di indicatori contenuti nel Rapporto sull’agroalimentare italiano di Ismea presentato stamattina, che quest’anno propone un approfondimento sulle catene globali del valore e sul grado di approvvigionamento delle diverse filiere nazionali, temi di stringente attualità alla luce del quadro di crescente incertezza che sta inducendo diversi paesi a rivedere le strategie di delocalizzazione adottate negli ultimi decenni.


Uno degli indicatori chiave è il tasso di approvvigionamento generale del settore agroalimentare italiano, inteso come rapporto tra il valore della produzione interna e quello dei consumi, che nel complesso si è attestato, nel 2023, vicino al 100% (99,2%). Il dato – sottolinea l’Ismea – è frutto, tuttavia, di situazioni differenziate a livello di singoli comparti e prodotti. Una tendenza che si è accentuata negli ultimi anni di pari passo all’aumento della capacità di penetrazione sui mercati esteri dell’industria alimentare e alla contestuale minore disponibilità di materia prima nazionale a causa dell’impatto dei cambiamenti climatici e dello spopolamento delle aree interni. Questo deficit rende alcune filiere più vulnerabili a fattori geopolitici, climatici e sanitari che influenzano le catene di fornitura, specie laddove il tasso di approvvigionamento è basso e la provenienza delle importazioni è fortemente concentrata o legata a paesi lontani e a rischio, spiega Ismea.


I primi dieci prodotti importati dall’Italia sono in ordine: caffè, olio extravergine d’oliva, mais, bovini vivi, prosciutti e spalle di suini, frumento tenero e duro, fave di soia, olio di palma e panelli di estrazione dell’olio di soia. Il grado di autosufficienza dell’Italia per questi prodotti varia dallo 0% nel caso del caffè e dell’olio di palma a oltre il 60% nel caso dei prosciutti. Ma sono mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, i prodotti che, secondo l’analisi di Ismea, presentano le maggiori criticità in termini di approvvigionamento. Per entrambi le importazioni negli ultimi venti anni sono considerevolmente aumentate, comportando una drastica riduzione del tasso di approvvigionamento (al 46% per il mais e al 32% per la soia nel 2023). Quanto ai Paesi d’origine, per la soia si evidenzia una forte concentrazione delle forniture dal Brasile (50%), mentre nel caso del mais, pur in presenza di un livello di concentrazione minore, prevalgono gli arrivi dall’Ucraina, un Paese chiaramente a rischio elevato.


Il tasso di approvvigionamento italiano è basso anche per i frumenti, con l’industria pastaria che dipende per il 44% dalle forniture provenienti da Canada, Russia, Grecia e Turchia e quella dei prodotti da forno che per il 64% del suo fabbisogno ricorre al prodotto di origine ungherese, francese, austriaco, ucraino e romeno. Anche per la carne bovina il tasso di approvvigionamento è sceso a livelli molto bassi nel 2023 (40%), con la Francia che concentra l’85% del valore dell’import di bovini da ristallo. La prevalenza di un solo fornitore, trattandosi della Francia, è rassicurante sul fronte geopolitico ma rende comunque vulnerabile la filiera nazionale ad altri fattori, come testimoniano le recenti difficoltà dovute alle restrizioni sanitarie associate alla diffusione negli allevamenti francesi di epizoozie e alla più recente emergenza Blue tongue. Infine, per l’olio extravergine di oliva, di cui l’Italia è il secondo maggiore esportatore mondiale e il primo consumatore, le forniture provenienti dagli altri paesi del bacino Mediterraneo, in primis la Spagna, sfiorano il 50% del nostro fabbisogno, legando a doppio filo le sorti del prodotto nazionale a quello estero, soprattutto in termini di variabilità dei prezzi.

Ismea: su 100 euro spesi da consumatore a agricoltore utile di 7 euro

Ismea: su 100 euro spesi da consumatore a agricoltore utile di 7 euroRoma, 21 nov. (askanews) – Su 100 euro spesi dal consumatore per l’acquisto di prodotti agricoli freschi, meno di 20 euro remunerano il valore aggiunto degli agricoltori, ai quali, sottratti gli ammortamenti e i salari, resta un utile di 7 euro, contro i circa 19 euro del macro-settore del commercio e trasporto. Per i prodotti trasformati, che implicano un passaggio in più dalla fase agricola a quella industriale, l’utile dell’agricoltore si riduce a 1,5 euro, solo di poco inferiore a quello dell’industria, pari a 1,6 euro, contro i 13,1 euro del commercio e trasporto.


Lo si legge nella analisi della catena del valore, realizzata da Ismea sulla base dei dati più recenti dell’Istat e illustrata oggi nell’ambito della presentazione del Rapporto Agroalimentare 2024. L’ approfondimento sulla filiera della pasta e su quella della carne bovina ha messo in luce una situazione di sofferenza, con margini particolarmente compressi, se non addirittura negativi, per le aziende agricole e gli allevamenti, mitigati solo dal sostegno pubblico, attraverso la Pac e gli aiuti nazionali.


Nella catena del valore della pasta, i costi di produzione del frumento duro rappresentano una quota molto elevata (36%) del valore finale al consumo. Sia in presenza di bassi prezzi della granella, come nel 2017, sia di valori quasi doppi nel 2023, i costi unitari a carico delle aziende agricole sono sempre risultati più elevati dei prezzi di vendita, con conseguenti valori negativi del reddito operativo. Nella filiera della pasta è soprattutto il margine della distribuzione a incidere sul prezzo al consumo, con un peso del 30% circa nel 2017, salito al 36% nel 2023. Anche nella catena del valore della carne bovina la fase più critica è quella dell’allevamento, stretta nella morsa dei costi di approvvigionamento dei capi da ingrasso e dei costi di alimentazione, che nel loro insieme rappresentano oltre il 60% del valore finale del prodotto. La fase primaria è anche quella su cui gravano i maggiori rischi di natura esogena, dovuti ai bassi livelli di autosufficienza per i ristalli e le materie prime. In alcuni anni, come nel 2023, le implicazioni di tale dipendenza sono state particolarmente evidenti, con i costi di allevamento che hanno superato i ricavi generati dalla vendita dei capi, determinando un reddito operativo negativo. La fase dell’industria di macellazione mantiene più o meno la sua redditività (4,5% nel 2022 e 3,1% nel 2023), con una struttura in grado di diversificare il rischio; la distribuzione, infine, funge da cassa di compensazione, ritardando il trasferimento dell’inflazione ai prezzi al consumo, ma assicurandosi un margine lordo di 3,56 euro/kg, che in quota rappresenta quasi il 30% del prezzo finale.

Ismea: ripartire più equamente valore lungo filiera agroalimentare

Ismea: ripartire più equamente valore lungo filiera agroalimentareRoma, 21 nov. (askanews) – E’ urgente in Italia una ripartizione più equa del valore lungo la filiera alimentare, in cui la fase agricola è penalizzata, in alcuni casi anche in modo estremamente pesante, da squilibri strutturali che si sono accentuati tra il 2019 e il 2023 quando, nel contesto dei grandi stravolgimenti dovuti all’emergenza pandemica e allo shock energetico, il fisiologico ritardo nella trasmissione degli aumenti dei prezzi delle materie prime alle fasi a valle dell’agricoltura, in particolare all’industria e alla distribuzione, “ha comportato temporanei cambiamenti nella distribuzione del valore che non hanno tuttavia modificato, a conclusione di questo percorso, gli assetti a sfavore delle componenti produttive, in particolare del settore primario”. A trattenere la gran parte del valore, a discapito della fase agricola, sono logistica e distribuzione.


E’ quanto emerge dalla analisi della catena del valore, realizzata da Ismea sulla base dei dati più recenti dell’Istat e illustrata oggi nell’ambito della presentazione del Rapporto Agroalimentare 2024. Le cifre sono chiare: su 100 euro spesi dal consumatore per l’acquisto di prodotti agricoli freschi, meno di 20 euro remunerano il valore aggiunto degli agricoltori, ai quali, sottratti gli ammortamenti e i salari, resta un utile di 7 euro, contro i circa 19 euro del macro-settore del commercio e trasporto. Per i prodotti trasformati, che implicano un passaggio in più dalla fase agricola a quella industriale, l’utile dell’agricoltore si riduce a 1,5 euro, solo di poco inferiore a quello dell’industria, pari a 1,6 euro, contro i 13,1 euro del commercio e trasporto.


L’ approfondimento, realizzato dall’Istituto, sulla filiera della pasta e su quella della carne bovina ha messo in luce una situazione di sofferenza, con margini particolarmente compressi, se non addirittura negativi, per le aziende agricole e gli allevamenti, mitigati solo dal sostegno pubblico, attraverso la Pac e gli aiuti nazionali. Nella catena del valore della pasta, i costi di produzione del frumento duro rappresentano una quota molto elevata (36%) del valore finale al consumo. Sia in presenza di bassi prezzi della granella, come nel 2017, sia di valori quasi doppi nel 2023, i costi unitari a carico delle aziende agricole sono sempre risultati più elevati dei prezzi di vendita, con conseguenti valori negativi del reddito operativo. Nella filiera della pasta è soprattutto il margine della distribuzione a incidere sul prezzo al consumo, con un peso del 30% circa nel 2017, salito al 36% nel 2023.


Anche nella catena del valore della carne bovina la fase più critica è quella dell’allevamento, stretta nella morsa dei costi di approvvigionamento dei capi da ingrasso e dei costi di alimentazione, che nel loro insieme rappresentano oltre il 60% del valore finale del prodotto. La fase primaria è anche quella su cui gravano i maggiori rischi di natura esogena, dovuti ai bassi livelli di autosufficienza per i ristalli e le materie prime. In alcuni anni, come nel 2023, le implicazioni di tale dipendenza sono state particolarmente evidenti, con i costi di allevamento che hanno superato i ricavi generati dalla vendita dei capi, determinando un reddito operativo negativo. La fase dell’industria di macellazione mantiene più o meno la sua redditività (4,5% nel 2022 e 3,1% nel 2023), con una struttura in grado di diversificare il rischio; la distribuzione, infine, funge da cassa di compensazione, ritardando il trasferimento dell’inflazione ai prezzi al consumo, ma assicurandosi un margine lordo di 3,56 euro/kg, che in quota rappresenta quasi il 30% del prezzo finale.

Proietti (Ismea): vicinissimi a quota 70 mld export a fine 2024

Proietti (Ismea): vicinissimi a quota 70 mld export a fine 2024Roma, 21 nov. (askanews) – “L’intuizione di spingere sull’agroalimentare ha dato risultati confortanti. Vogliamo arrivare a quota 70 miliardi di euro di export agroalimentare entro la fine di quest’anno e siamo vicinissimi”. Lo ha detto il presidente di Ismea, Livio Proietti, intervenendo in apertura della presentazione del rapporto Ismea 2024 in corso al Masaf a Roma.


“Ci sono certo delle criticità – ha aggiunto Proietti – innanzitutto il rischio in agricoltura dovuto ai cambimenti climatici, poi le situazioni di crisi internazionale e l’approvvigionamento che è una sfida da affrontare a causa della riduzione della produzione agricola che deriva soprattuto dallo spopolamento delle aree interne. Ismea – ha ricordato Proietti – sostiene le iniziative per ripopolarle e soprattutto per non perdere ulteriore superficie agricola produttiva”.

Caffè Borbone: fatturato III trim sale a 243 mln trainato dall’estero (+60%)

Caffè Borbone: fatturato III trim sale a 243 mln trainato dall’estero (+60%)Milano, 20 nov. (askanews) – Caffè Borbone ha chiuso il terzo trimestre dell’anno con ricavi a 243,1 milioni di euro, in aumento del 10% rispetto allo stesso periodo del 2023.


A trainare il fatturato è l’espansione del mercato estero cresciuto del 60%, con una incidenza sul fatturato in aumento. Nella grande distribuzione organizzata, l’azienda napoletana, partecipata al 60% da Italmobiliare, ha registrato un aumento del 35% confermando una posizione di leader di mercato nel comparto delle cialde mentre, se si guarda il segmento completo di cialde e capsule, è seconda (fonte Nielsen). Sul fronte delle vendite digitali, invece, in Italia si è registrato un aumento del 2%. “Siamo molto soddisfatti dei risultati ottenuti nei nove mesi e ci prepariamo a un 2025 sfidante per il settore del caffè – ha dichiarato Marco Schiavon, Amministratore Delegato di Caffè Borbone – un futuro che affronteremo con il solito impegno ed entusiasmo nel dare a tutti la possibilità di avere esperienze di gusto uniche, ogni giorno. Amplieremo l’offerta dei prodotti a marchio Caffè Borbone e manterremo alti gli standard di qualità e sostenibilità che contraddistinguono i nostri prodotti, e prospettiamo una chiusura dell’anno con risultati molto positivi”. “Questi ottimi risultati arrivano in un momento in cui il costo della varietà Robusta è più che triplicato, e quello dell’Arabica è aumentato del 30% rispetto al 2023. Tutto questo è dovuto ad alcune manifestazioni climatiche dannose per le coltivazioni dei principali Paesi di approvvigionamento – conclude Schiavon – a ciò si aggiungono le sfide logistiche, come il blocco dei porti e la carenza globale di container, che ostacolano il movimento del caffè in tutto il mondo, con effetti maggiori in Europa. Nel corso di quest’anno non abbiamo trasferito l’aumento dei costi sul consumatore finale, mantenendo una crescita dei volumi assolutamente positiva, e anche in futuro ci impegneremo per contenere il più possibile l’aumento dei costi del caffè, nonostante le difficoltà di approvvigionamento della materia prima”.

Latte, ai soci delle cooperative remunerazione fino a +30% mercato

Latte, ai soci delle cooperative remunerazione fino a +30% mercatoMilano, 20 nov. (askanews) – Per un allevatore che conferisce il proprio latte in cooperativa, il prezzo di remunerazione della materia prima è stabilmente superiore a quello di mercato, con un differenziale positivo del 16% (2022) rispetto al prezzo del latte in Lombardia, mentre in alcune aree di montagna si arriva addirittura a un prezzo più alto del 30%. È questo uno dei principali numeri emersi da uno studio Nomisma sul valore economico del sistema cooperativo presentato a Milano al primo summit della cooperazione lattiero-casearia organizzato da Alleanza Cooperative Agroalimentari dal titolo “Latte italiano: la forza della cooperazione”.


Il patto mutualistico tra i soci e la cooperativa, che si fonda su garanzia del conferimento e remunerazione del latte a prezzi più alti di quelli del mercato, fornisce una prospettiva di lungo periodo alle imprese cooperative: resilienza del sistema e longevità del rapporto tra soci e cooperativa sono gli altri due elementi di distintività del modello cooperativo. La vita media delle cooperative è di circa 60 anni, più del doppio di quella delle società di capitali (27). L’analisi di Nomisma ha fotografato anche il ruolo cruciale che la cooperazione riveste per la tenuta e lo sviluppo dell’intero comparto lattiero-nazionale: con 17mila stalle, 540 imprese di trasformazione e più di 13mila lavoratori, la cooperazione rappresenta oltre il 65% del latte raccolto in Italia e il 70% della produzione dei principali formaggi Dop. Non solo. Tra le prime 20 imprese del settore lattiero-caseario, sette sono cooperative o appartengono a gruppi cooperativi. Il 63% del giro d’affari cooperativo lattiero-caseario è sviluppato dalle 25 imprese più dimensionate. Le performance economiche hanno registrato una crescita costante nell’ultimo decennio: nel periodo 2013-2022 le cooperative lattiero casearie hanno consolidato un incremento del fatturato del +52% (a fronte del +59% delle aziende di capitali) e la crescita è stata accompagnata da un robusto consolidamento delle dimensioni, in virtù sia di processi di crescita che di fusioni fra cooperative.


La crescita dimensionale è stata accompagnata da un sempre maggiore orientamento al mercato, e in particolare al più dinamico mercato estero: l’export delle prime 28 cooperative italiane vale da solo 1,2 miliardi di euro, pari al 23% del totale nazionale).

Alleanza Coop: attivare una Organizzazione comune di mercato per il latte

Alleanza Coop: attivare una Organizzazione comune di mercato per il latteMilano, 20 nov. (askanews) – Attivare una Organizzazione comune di mercato (Ocm) per il settore latte. E’ la proposta che avanzata dalle tre centrali cooperative riunite in Alleanza delle cooperative italiane (Fedagripesca Confcooperative, Legacoop Agroalimentare e AgciAgrital), al ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, e agli europarlamentari al primo summit della cooperazione lattiero-casearia organizzato da Alleanza Cooperative Agroalimentari dal titolo “Latte italiano: la forza della cooperazione”.


Le argomentazioni a sostegno della richiesta sono state supportate da alcune proiezioni emerse da due studi realizzati dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dalla Fondazione Crpa. “La proposta del sistema cooperativo lattiero-caseario – ha spiegato a nome di Alleanza cooperative il presidente del settore lattiero-caseario di Confcooperative Fedagri, Giovanni Guarneri – non è quella di ottenere ulteriori risorse, bensì di razionalizzare l’allocazione delle risorse Pac in modo da attivare degli strumenti che consentano un approccio più mirato a migliorare la competitività del settore lattiero-caseario e a consentire al settore un adattamento al mutato contesto ambientale, economico e dei consumi”. Come è emerso nella relazione della Crpa, a differenza di altre tipologie di sostegni finanziari previsti dalla Pac come quelli calcolati sul numero di capi, gli interventi settoriali concedono contributi sulla base di progetti specifici presentati dalle organizzazioni dei produttori o dalle associazioni di organizzazioni dei produttori per affrontare specifici temi.


“Con l’istituzione di una Ocm anche per il settore latte – ha dichiarato il presidente di Legacoop agroalimentare, Cristian Maretti – le imprese avranno la possibilità di fare investimenti strutturali necessari per consentire al settore di introdurre innovazioni che garantiscano anche una crescita del livello di sostenibilità della filiera lattiero-casearia”. Secondo il presidente di Agci-Agrital, Giampaolo Buonfiglio, “attraverso l’Ocm latte è possibile garantire quel livello di aggregazione indispensabile al settore anche nell’ottica di un riequilibrio del potere contrattuale lungo la filiera, nonché per la tutela della zootecnia nelle aree difficili, in particolare nelle aree interne e di montagna”. “Il modello cui ci ispiriamo – ha dichiarato Davide Vernocchi, vicepresidente reggente di Fedagripesca Confcooperative – è quella della Ocm attivata nel settore ortofrutticolo che rappresenta il modello di gestione della Pac più virtuoso: a differenza dei pagamenti diretti, interamente a carico della Pac, agli aiuti che l’Europa eroga alle organizzazioni dei produttori si aggiunge una analoga contribuzione pari al 50% da parte dei produttori, che viene erogata solo a fronte dell’approvazione di un programma operativo e della effettiva esecuzione di interventi ed investimenti su tutta la filiera, i cui effetti hanno ricadute positive in termini economici e occupazionali su centinaia di aziende agricole associate, spesso di piccole dimensioni, che proprio grazie ad un approccio collettivo riescono ad utilizzare più efficacemente i fondi Pac e ad affrontare il mercato. I fondi erogati a OP e cooperative generano inoltre vantaggi positivi anche per l’ambiente, dal momento che una parte dei programmi operativi previsti è riservata ad azioni di natura ambientale”. Analogamente, con l’istituzione di interventi specifici per il settore lattiero-caseario, si potrebbero finanziare anche in Italia diverse tipologie di interventi come già accade nei Paesi in cui è stata attivata l’Ocm latte, Slovacchia, Bulgaria e Lettonia, partendo dagli investimenti in tema di innovazione tecnologia come la zootecnia di precisione o di risparmio energetico.