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Neutrini, completato lo scavo delle caverne per l’esperimento Dune

Neutrini, completato lo scavo delle caverne per l’esperimento DuneRoma, 5 feb. (askanews) – Negli Stati Uniti, in South Dakota, a Lead, sono stati completati gli scavi delle caverne che ospiteranno i giganteschi rivelatori di particelle dell’esperimento internazionale DUNE (Deep Underground Neutrino Experiment), a cui lavorano anche scienziati e scienziate dell’Infn, fin dalla sua ideazione. Situate a un miglio sotto la superficie, le tre grandissime caverne – si legge sul sito dell’Istituto nazionale di fisica nucleare – ospiteranno una nuova infrastruttura di ricerca che si estenderà su un’area sotterranea grande quanto otto campi da calcio.


L’obiettivo dell’esperimento DUNE sarà studiare il comportamento dei neutrini per cercare le risposte ad alcune delle più fondamentali domande sul nostro universo: perché è composto di materia? Come una stella che esplode dà origine a un buco nero? I neutrini sono connessi alla materia oscura o ad altre particelle non ancora scoperte? Nelle caverne saranno alloggiati quattro grandi rivelatori di neutrini, ciascuno delle dimensioni di un edificio di sette piani, che saranno riempiti di argon liquido e registreranno le rare interazioni dei neutrini con il liquido. Con DUNE, le ricercatrici e i ricercatori cercheranno di rivelare i neutrini provenienti dalle stelle che esplodono ma studieranno anche il comportamento di un fascio di neutrini prodotto al Fermilab, vicino a Chicago, e che arriverà ai rivelatori dopo un percorso di circa 800 miglia.


Le squadre di ingegneria, costruzione e scavo lavorano dal 2021 nei pressi della Sanford Underground Research Facility, sede dell’esperimento DUNE in South Dakota. Le squadre di costruzione hanno smantellato pesanti attrezzature minerarie e, pezzo per pezzo, le hanno trasportate sottoterra utilizzando un pozzo esistente. Una volta sottoterra, hanno riassemblato l’attrezzatura e hanno trascorso quasi due anni a far saltare e rimuovere la roccia. Quasi 800.000 tonnellate di roccia sono state scavate e trasportate dal sottosuolo in un’ampia ex area mineraria fuori terra, chiamata Open Cut. A breve, – conclude l’Infn – inizieranno i lavori per attrezzare le caverne con i sistemi necessari per l’installazione dei rivelatori di DUNE e per le operazioni quotidiane della struttura di ricerca: l’inizio dell’installazione della struttura in acciaio che ospiterà il primo rivelatore di neutrini è prevista iniziare già quest’anno, con l’obiettivo di rendere operativo il primo rivelatore dell’esperimento entro la fine del 2028.

Gianotti (Cern): scienza e tecnologia essenziali per sfide globali

Gianotti (Cern): scienza e tecnologia essenziali per sfide globaliRoma, 2 feb. (askanews) – “Le settimane Stem sono iniziative estremamente utili per incoraggiare i giovani a intraprendere percorsi di studio o professionali nelle materie scientifiche, tecnologiche e ingegneristiche e anche per riflettere su come formarli al meglio. Non possiamo pensare di affrontare con successo le sfide globali attuali, dalla salute all’energia, al cambiamento climatico, senza l’apporto della scienza e della tecnologia. Inoltre viviamo in un’epoca che è dominata dalla tecnologia e in cui il numero degli impieghi nelle aree Stem cresce tre volte più rapidamente che in ogni altra area. Eppure oggi solo il 25% degli studenti sceglie queste materie all’università. Non stiamo preparando al meglio la forza lavoro necessaria per il futuro della società non stiamo incoraggiando abbastanza le giovani generazioni a scegliere i percorsi professionali che in futuro saranno i più richiesti”. Lo ha detto Fabiola Gianotti, direttrice generale del Cern di Ginevra intervenendo da remoto all’evento “STEM – La chiave del futuro: giovani, donne, imprese” promosso dal ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella in vista della settimana dedicata alle materie tecnico-scientifiche che avrà luogo dal 4 all’11 febbraio.


“Se i giovani vogliono impegnarsi in prima linea su temi quali il clima e l’ambiente lo studio delle materie scientifiche è di cruciale importanza. In modo concreto – ha detto ancora la scienziata, al suo secondo mandato alla guida del più importante laboratorio per lo studio della fisica delle particelle – bisogna introdurre programmi educativi per i bambini a partire dai primissimi anni, scuola elementare e prescolare che insegnino la scienza in modo divertente con metodi atti a sviluppare immaginazione, creatività e capacità di risolvere i problemi. Quando sento i ragazzi dire che odiano la matematica mi chiedo in che modo questa materia sia stata insegnata, perché la matematica è alla base di tutte le scienze e le tecnologie ed è un gioco intellettuale. Se insegnata bene è divertentissima e affascinante. Bisogna aiutare gli insegnanti ad avvalersi di programmi e metodi moderni di insegnamento delle materie Stem anche con esempi pratici e che mostrino l’impatto di queste materie sulla società”. Lo Science Gateway, il centro per l’educazione e la comunicazione scientifica per il grande pubblico di tutte le età, a partire dai 5 anni, inaugurato di recente dal Cern, in circa tre mesi, ha detto Gianotti, “ha attirato 90mila visitatori, la maggior parte studenti e questo dimostra che c’è un grande interesse per la scienza e la tecnologia tra i giovani. Interesse che bisogna stimolare e nutrire e penso che iniziative come Science Gateway siano passi concreti per raggiungere questo scopo”.


Quanto alla presenza femminile nelle materie Stem, “nel mio campo, la fisica, – ha detto Fabiola Gianotti – le donne sono circa il 20%, la frazione più alta è tra le giovani generazioni, circa il 35%, poi comincia a diminuire attorno ai 30 anni quando iniziano i doveri familiari. Bisogna quindi da un lato attirare più ragazze alla scienza con iniziative mirate, ad esempio noi mandiamo regolarmente ingegneri e fisici donne del Cern nelle scuole in Svizzera e in Francia per dare dei ‘role models’ femminili nei campi Stem. Dall’altro bisogna creare le condizioni perché le donne non abbandonino le carriere scientifiche innanzitutto fornendo infrastrutture e modalità lavorative adeguate (asili nido, orari flessibili, smart working, ecc.) che permettano ai genitori, in particolare alle donne, di conciliare vita familiare e vita professionale. Inoltre bisogna monitorare le carriere per assicurare che uomini e donne abbiano lo stesso trattamento in termini di stipendi, promozioni e opportunità di crescita professionale. E bisogna avere più donne nei comitati di selezione per assunzioni e promozioni e in posti apicali, decisionali in università, centri di ricerca e imprese”. “Una solida formazione nelle materie Stem – ha concluso la scienziata – è importante al di là della carriera specifica che i giovani decidono di intraprendere, è una formazione per la vita. Insegnare il metodo scientifico, il giudizio basato sui fatti sperimentali, è importante per combattere le fake news e aumentare la fiducia nella scienza nella società di oggi e in generale formare persone consapevoli indipendentemente dal loro percorso professionale”.

Esa, così EarthCare studierà influenza di nuvole e aerosol sul clima

Esa, così EarthCare studierà influenza di nuvole e aerosol sul climaRoma, 1 feb. (askanews) – Il satellite EarthCARE dell’Agenzia spaziale europea si appresta a fornire una grande quantità di nuove informazioni su come le nuvole e gli aerosol influenzano il clima terrestre. Con il decollo previsto per maggio su un Falcon 9 di SpaceX dalla base aerea di Vandenberg in California, il satellite è stato sottoposto all’ultima serie di test e controlli meticolosi in Germania. Pronto per affrontare il viaggio verso gli Stati Uniti EarthCARE, del peso di due tonnellate, è stato esposto in una camera bianca presso gli stabilimenti Airbus di Friedrichshafen.

Dotato di quattro diversi strumenti, EarthCARE – informa l’Agenzia spaziale europea – è la più complessa delle missioni Earth Explorer dell’Esa, missioni che restituiscono informazioni scientifiche chiave che fanno progredire la nostra comprensione di come funziona il pianeta Terra come sistema e dell’impatto che gli esseri umani stanno avendo sui processi naturali. Con la crisi climatica che stringe sempre più la sua morsa, EarthCARE – Earth Cloud Aerosol and Radiation Explorer – è stato sviluppato per gettare nuova luce sulle complesse interazioni tra nuvole, aerosol e radiazioni all’interno dell’atmosfera terrestre. L’energia nell’atmosfera è un equilibrio tra la radiazione in entrata dal Sole, che riscalda il sistema terrestre, e la radiazione termica in uscita, che raffredda la Terra. Sebbene sia noto che le nuvole svolgono un ruolo estremamente importante nel riscaldamento e nel raffreddamento atmosferico, rimangono una delle maggiori incertezze nella comprensione di come l’atmosfera guidi il sistema climatico. Le nuvole e, in misura minore, gli aerosol riflettono l’energia solare in entrata nello spazio, ma intrappolano anche l’energia infrarossa in uscita. Ciò porta a un effetto netto di raffreddamento o riscaldamento. Inoltre, gli aerosol influenzano il ciclo di vita delle nuvole e quindi contribuiscono indirettamente al loro effetto radiativo.

Il set di quattro strumenti all’avanguardia di EarthCARE – spiega l’Esa – lavorerà insieme per fornire una visione olistica della complessa interazione tra nuvole, aerosol e radiazioni per fornire nuove informazioni sul bilancio delle radiazioni della Terra sullo sfondo della crisi climatica. Il Project Manager EarthCARE dell’Esa, Dirk Bernaerts, ha dichiarato: “È bello vedere EarthCARE in tutto il suo splendore e sono estremamente orgoglioso di ciò che Esa, Jaxa e i nostri partner industriali hanno raggiunto nello sviluppo di questa straordinaria missione. EarthCARE è certamente pronto a dare un contributo importante ai complicati modelli climatici e alle previsioni meteorologiche numeriche”. “EarthCARE si aggiungerà presto alla nostra crescente famiglia di missioni di ricerca Earth Explorer – ha osservato il direttore dei Programmi di Osservazione della Terra dell’Esa, Simonetta Cheli -. Finora, tutte queste missioni hanno superato i loro obiettivi e le aspettative scientifiche e mi aspetto che EarthCARE segua l’esempio. Anche se EarthCARE è una missione dell’Esa, rivolgiamo un ringraziamento speciale alla Japan Aerospace Exploration Agency, Jaxa, che ha fornito il radar di profilazione delle nuvole, uno degli strumenti di misurazione chiave del satellite”.

Il radar di profilazione delle nuvole del satellite fornisce informazioni sulla struttura verticale e sulla dinamica interna delle nuvole, il suo lidar atmosferico fornisce informazioni sulla cima delle nuvole e profili di nuvole sottili e aerosol, il suo imager multispettrale offre un’ampia scena panoramica in più lunghezze d’onda e il suo radiometro a banda larga misura la radiazione solare riflessa e la radiazione infrarossa in uscita. Maximilian Sauer, Project leader di Airbus EarthCARE, ha dichiarato: “EarthCARE ha richiesto 15 anni per essere sviluppato con esperti provenienti da oltre 15 Paesi in Europa, Canada, Stati Uniti e Giappone. E grazie a questo duro lavoro abbiamo un satellite che è destinato a migliorare i modelli climatici. Questo è anche un grande risultato per i colleghi di tre diversi siti Airbus e per le oltre 40 società di subappalto che sono state coinvolte”.

(Credits: ESA/ATG medialab)

Archeologia, identificato l’archivio dell’antica città di Doliche

Archeologia, identificato l’archivio dell’antica città di DolicheRoma, 31 gen. (askanews) – Dagli scavi dell’antica città di Doliche, situata nel sud-est dell’odierna Turchia, emergono i resti di un edificio che, grazie alle numerose impronte di sigillo in terracotta ritrovate dagli archeologi, è stato possibile identificare come l’antico archivio cittadino, il luogo in cui venivano conservati i documenti in papiro e pergamena.

Sono questi i primi risultati della missione archeologica che l’Università di Pisa ha intrapreso la scorsa estate in collaborazione con l’Università di Münster a Doliche, città nota nell’antichità come uno dei centri urbani più importanti dell’antica Siria del Nord. Fondata sotto i successori di Alessandro Magno (i Seleucidi), era stata chiamata come molte altre fondazioni di quella zona col nome della città greca da cui i coloni provenivano: Doliche in Tessaglia, vicino al Monte Olimpo. “Il sito dell’antica Doliche è stato oggetto di indagini tedesche già dagli anni ’70 del secolo scorso – spiega Margherita Facella, professoressa di Storia greca nell’Ateneo di Pisa e direttrice della missione pisana – Dal 2015 un team internazionale sotto la guida del professor Engelbert Winter ha condotto prospezioni e scavi, portando alla luce i resti di alcuni edifici pubblici, tra cui delle terme romane. Accanto a queste terme, erano stati identificate le tracce di un’altra costruzione, ora parzialmente scavata dai nostri archeologi. Si tratta di un archivio cittadino, come rivelano le numerose impronte di sigillo in terracotta qui trovate: più di 2.000 impronte (cosiddette bullae) sono state recuperate nell’area e sottoposte, laddove possibile, a pulizia e restauro. Le impronte di sigillo indicano chiaramente che qui venivano conservati documenti scritti su papiro e pergamena, andati poi distrutti a causa di un incendio”.

Gli antichi documenti venivano sigillati con cordicelle attorno alle quali erano posti grumi di argilla di piccole dimensioni (0,5-2 cm), spesso frammentate e difficili da riconoscere a occhio nudo. Su questa argilla venivano impressi anelli, decorati o iscritti, così da poter sigillare i documenti e impedirne l’apertura. Solo nel caso in cui un archivio sia stato distrutto da un grave incendio, le impronte dei sigilli si possono conservare, in quanto cotte e dunque indurite, mentre i documenti periscono nel fuoco. “Le poleis dell’Oriente ellenistico e romano dovevano certamente possedere archivi per la conservazione di documenti di carattere amministrativo e legale – aggiunge la professoressa Facella – La loro sopravvivenza, tuttavia, è un evento assai raro, possibile solo in caso di incendio e successivo abbandono dell’edificio. Infatti, se da una parte il fuoco causa la distruzione dei documenti, dall’altra consente la cottura dell’argilla cruda su cui i sigilli sono impressi, garantendone così la sopravvivenza. Nel 253 d.C., il re persiano Shapur I distrusse numerose città nella provincia romana della Siria, inclusa Doliche, come conseguenza di una sanguinosa guerra tra l’Impero Romano e quello dei Sasanidi”.

Uno studio preliminare di questi materiali rivela che si tratta sia di sigilli privati come di sigilli ufficiali della città. “Le immagini sui sigilli ufficiali della città sono direttamente collegate alla città. Di solito mostrano le divinità più importanti come Giove Dolicheno, il dio principale della città – spiega Michael Blömer, professore dell’Università di Munster e visiting professor dell’Università di Pisa nel 2023, che ha co-diretto gli scavi – Le impronte dei sigilli privati più piccoli mostrano una vasta gamma di immagini e simboli che dicono molto sul patrimonio culturale e religioso degli abitanti di Doliche. Figure mitiche e rari ritratti privati indicano una forte influenza greco-romana su questa regione a metà fra Oriente e Occidente”. Lo studio di queste impressioni è quindi del tutto essenziale per ricostruire non solo la realtà amministrativa di una città, ma anche il suo tessuto culturale e religioso. “Siamo felici dei risultati di questa prima campagna e siamo grati al rettore Riccardo Zucchi e al professor Federico Cantini, delegato per la promozione della ricerca nel settore delle scienze sociali e umanistiche, per il sostegno economico e a tutto il personale amministrativo che ci ha affiancato in questo lavoro – conclude la professoressa Facella – A nostro avviso è anche importante che il progetto interessi una zona recentemente colpita da un devastante terremoto, in cui l’investimento di risorse è di sicuro aiuto per la popolazione, che ha trovato nelle strutture della missione archeologica un rifugio e da parte del gruppo di ricerca un aiuto concreto. La valorizzazione del patrimonio archeologico a fini turistici sarebbe poi indubbiamente un apporto significativo alla ripresa di questa regione, che vive molto di turismo interno ed esterno”.

FiloBot: il robot che cresce e si muove come una pianta rampicante

FiloBot: il robot che cresce e si muove come una pianta rampicanteRoma, 29 gen. (askanews) – Anche i robot possono crescere e muoversi nell’ambiente come le piante rampicanti. È il risultato ottenuto dal gruppo di ricerca dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) a Genova che ha progettato FiloBot, un robot che è in grado di costruire autonomamente il proprio corpo dalla punta grazie a una tecnica di stampa 3D direttamente integrata nel robot stesso. L’invenzione è stata descritta in un articolo pubblicato di recente sulla prestigiosa rivista scientifica “Science Robotics”. L’invenzione – informa l’IIT – potrà trovare applicazione nel monitoraggio ambientale e nella perlustrazione di ambienti naturali complessi o difficili da raggiungere.

La ricerca è stata realizzata dal gruppo coordinato da Barbara Mazzolai, Associate Director per la Robotica di IIT e a capo del laboratorio Bioinspired Soft Robotics di IIT a Genova. L’idea nasce dall’osservazione delle piante e dalle loro strategie di esplorazione ambientale. In particolare, il progetto europeo GrowBot, coordinato da Mazzolai, mirava a trarre ispirazione dalle piante rampicanti che mostrano notevoli capacità adattative dei loro corpi flessibili. Le piante, infatti, si muovono nell’ambiente attraverso la divisione cellulare e l’allungamento implementato alle estremità dei germogli e delle radici in risposta a stimoli esterni, come luce o gravità, con comportamenti chiamati tropismi. Il robot FiloBot è stato ideato in modo che costruisca il proprio corpo crescendo da una delle sue estremità – rappresentata da una testa robotizzata – proprio come la crescita apicale adottata nelle piante. La crescita è resa possibile da una tecnica di stampa 3D additiva che il gruppo ha integrato nel robot stesso; il materiale usato è una termoplastica (PLA) che viene stesa sottoforma di filo che gira intorno all’asse del corpo del robot. Questa tecnica consente al robot di adattare la sua forma all’ambiente con cui entra in contatto in modo passivo, ovvero sfruttando le proprietà del materiale di cui è composto e seguendo le caratteristiche del supporto o del luogo in cui cresce.

Il movimento di FiloBot è guidato da alcuni sensori ambientali che riproducono le capacità sensoriali delle piante rampicanti e i comportamenti a loro associati, chiamati tropismi. Il robot è in grado di sentire la forza di gravità e di analizzare il tipo di luce che lo circonda, e di conseguenza determinare in modo attivo la direzione di crescita. Le piante, infatti, hanno la capacità di riconoscere se la luce circostante possiede una componente blu, la quale attiva la fotosintesi, oppure una percentuale di rosso e infrarosso, che indica la presenza di altri vegetali. La combinazione di adattamento passivo e attivo fa sì che FiloBot acquisisca configurazioni diverse ogni volta che viene rilasciato. “La natura sessile delle piante ci porta a pensare che non si muovano. Al contrario, si muovono continuamente in modo mirato, efficace ed efficiente, ma su una scala temporale non facilmente percepibile dall’essere umano se non attraverso strumenti di osservazione, come ad esempio il time-lapse,” commentano Barbara Mazzolai ed Emanuela Del Dottore, prima autrice dello studio. “Per spostarsi da un punto all’altro, le piante devono crescere e adattare continuamente il proprio corpo alle condizioni ambientali esterne. Alla luce di questa osservazione, abbiamo compreso come la crescita apicale sia un prerequisito importante per esprimere una forma di movimento e adattamento nei robot come nelle piante”.

Le funzionalità racchiuse nel robot FiloBot gli consentono di navigare in ambienti 3D non strutturati in modo adattivo, riducendo i costi di costruzione in termini di energia e impiego di materiale. Queste capacità adattive possono essere preziose per applicazioni di monitoraggio ambientale, per accompagnare operazioni di perlustrazione in ambienti altamente complessi, misurare l’inquinamento ambientale in aree pericolose, esplorare ambienti naturali o in generale in applicazioni in cui è difficile prevedere o pilotare un percorso esatto attraverso terreni sconosciuti e mutevoli. (Credits: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved)

Beyond Epica, conclusa con successo terza campagna di perforazione

Beyond Epica, conclusa con successo terza campagna di perforazioneRoma, 29 gen. (askanews) – In Antartide si è conclusa con successo la terza campagna di perforazione del progetto Beyond EPICA (European Project for Ice Coring in Antarctica) – Oldest Ice, presso il campo remoto Little Dome C (LDC).

Diventa ogni anno più reale l’obiettivo di tornare indietro nel tempo di 1,5 milioni di anni per ricostruire le temperature del passato e le concentrazioni di gas serra, attraverso l’analisi di una carota di ghiaccio estratta dalle profondità della calotta glaciale. Finanziato dalla Commissione Europea con 11 milioni di euro e con contributi da parte delle nazioni partecipanti, il progetto, iniziato nel 2019 e della durata di sette anni, – informa una nota – è coordinato da Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp) e professore all’Università Ca’ Foscari Venezia. Dodici i centri di ricerca partner del progetto, provenienti da dieci Paesi europei ed extraeuropei. Per l’Italia, oltre al Cnr e all’Università Ca’ Foscari, l’Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile (ENEA), che si occupa insieme all’Istituto Polare francese (IPEV) del modulo di lavoro relativo alla logistica.

Dalla metà di novembre 2023 alla metà di gennaio 2024, in quasi otto settimane di lavoro, il team internazionale ha raggiunto una profondità di oltre 1.800 metri: a questa profondità il ghiaccio conserva informazioni sul clima e sull’atmosfera degli ultimi 195.000 anni. Trascorsi i primi giorni, dedicati alla riapertura del campo, il team composto da scienziati e tecnici europei provenienti da 6 nazioni si è riunito a LDC e ha organizzato il lavoro in due turni, lavorando per 16 ore al giorno senza soste con il prezioso carotiere, proveniente dall’Alfred-Wegener-Institut in Germania e dall’Università di Copenhagen in Danimarca. “Il carotiere ha prodotto carote di ghiaccio di 4,5 metri di lunghezza e abbiamo perforato la calotta per oltre 1000 metri in 6 settimane, raccogliendo carote di ghiaccio di alta qualità e raggiungendo una profondità finale di 1836,18 metri”, afferma Matthias Hüther, chief driller dell’Alfred-Wegener-Institut.

L’obiettivo finale del progetto è raggiungere una profondità di circa 2.700 metri, che rappresenta lo spessore della calotta di ghiaccio sotto Little Dome C, un’area di 10 chilometri quadrati situata a 3.233 metri sul livello del mare, a 34 chilometri dalla stazione franco-italiana Concordia, uno dei luoghi più estremi della Terra. “Questa stagione è stata abbastanza regolare: abbiamo avuto un avvio lento, ma poi il team ha lavorato intensamente e ha ottenuto risultati sorprendenti, lavorando instancabilmente per due mesi al campo di Little Dome C. Anche il processamento delle carote è andato molto bene: in soli due mesi, il team è riuscito a completare l’operazione di processing delle carote di ghiaccio estratte durante la scorsa stagione e a mettersi al passo con la profondità di perforazione di quest’anno”, afferma Carlo Barbante.

Durante questa stagione di perforazione 23/24, sono stati processati 1.367 metri di carote di ghiaccio nella trincea scientifica installata a Little Dome C, con osservazioni sulle carote, misurazioni dei parametri di conducibilità e con i primi tagli. In questa stagione sono state inoltre effettuate alcune analisi preliminari presso la Stazione Concordia: la determinazione della composizione isotopica dell’idrogeno e dell’ossigeno, realizzata con uno spettrometro laser sulle carote di ghiaccio appena estratte, permetterà al team di Beyond EPICA di avere alcuni dati preliminari da osservare. “Queste analisi sul campo ci permettono di confrontare alcune caratteristiche della carota di ghiaccio di Beyond EPICA con la carota di ghiaccio del precedente progetto EPICA perforata a Dome C. I dati ottenuti sono importanti per fornire una datazione preliminare delle carote di ghiaccio finora estratte e per studiare la conservazione del segnale climatico”, afferma Amaelle Landais, direttrice di ricerca presso il Laboratorio di Scienze Climatiche e Ambientali del Centro Nazionale Francese per la Ricerca Scientifica. “Riteniamo che questa carota di ghiaccio ci fornirà informazioni sul clima del passato e sui gas serra presenti nell’atmosfera durante la Transizione Medio-Pleistocenica (MPT), avvenuta tra 900.000 e 1,2 milioni di anni fa”, conclude Carlo Barbante. “Durante questa transizione, la ciclicità del clima tra le ere glaciali è passata da 41.000 a 100.000 anni: il motivo per cui ciò è accaduto è il mistero che speriamo di risolvere”. Presto le casse con i campioni di ghiaccio di Beyond EPICA raggiungeranno il continente europeo con la rompighiaccio Laura Bassi, dotata di due container refrigerati a – 50°C, che garantiranno le migliori condizioni per conservare i preziosi campioni durante il lungo viaggio attraverso gli emisferi. (Credits: Beyond EPICA©PNRA/IPEV)

Studio ricostruisce l’aspetto dell’enorme squalo estinto Megalodon

Studio ricostruisce l’aspetto dell’enorme squalo estinto MegalodonRoma, 28 gen. (askanews) – Da anni gli studiosi si interrogano sull’aspetto di Megalodon, enorme squalo estinto vissuto milioni di anni fa, e finalmente la risposta sembra essere arrivata. Un nuovo studio scientifico, a cui ha preso parte anche Alberto Collareta, paleontologo presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, ha dimostrato infatti che il gigantesco squalo – noto con il nome scientifico di Carcharocles megalodon (o Otodus megalodon) – era provvisto di un corpo più slanciato di quanto suggerito dagli studi precedenti.

“Nei romanzi e nei film di fantascienza il Megalodon è tipicamente rappresentato come uno squalo mostruoso e dalle proporzioni titaniche – spiega il dottor Alberto Collareta, unico italiano a far parte del team di 26 scienziati internazionali autori dello studio -. Ciò non deve stupire, in quanto la taglia massima di questo squalo, uno dei più grandi predatori marini mai esistiti, è oggi stimata intorno a 15-20 metri di lunghezza totale e vi sono pochi dubbi riguardo alla sua dieta ipercarnivora”. “Comprendere la biologia, l’evoluzione e l’estinzione del Megalodon – prosegue Collareta – è importante alla luce dell’impatto significativo che tale specie deve aver avuto sull’ecologia e sull’evoluzione degli ecosistemi marini che hanno dato origine agli oceani moderni. Tuttavia, la documentazione fossile del Megalodon è quasi essenzialmente rappresentata dai caratteristici enormi denti, mentre i reperti scheletrici sono estremamente rari”.

Proprio la mancanza di scheletri completi riferiti al Megalodon – spiega Unipi – ha da sempre indotto gli studiosi a ricostruire l’aspetto di questo antico gigante dei mari modellandolo su quello dell’attuale squalo bianco (Carcharodon carcharias). Ipotesi adesso confutata dal lavoro del gruppo di ricerca internazionale di cui Collareta fa parte e che ha da poco pubblicato un nuovo studio sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale “Palaeontologia Electronica”. Studio che dimostra come il Megalodon avesse una forma del corpo più slanciata rispetto a quella che caratterizza lo squalo bianco. “Questa deduzione – spiega ancora il ricercatore – deriva dalla revisione di un set incompleto di vertebre fossili appartenenti ad un unico esemplare di Megalodon scoperto in Belgio nel diciannovesimo secolo. In particolare, la lunghezza totale del corpo di tale esemplare, se stimata sulla base del diametro delle vertebre dello squalo bianco attuale, risulta molto minore della lunghezza della sola colonna vertebrale incompleta (9,2 metri vs 11,1 metri)”. “Questa semplice osservazione – conclude Collareta – suggerisce fortemente che il Megalodon non fosse meramente riconducibile ad una versione più voluminosa del moderno grande squalo bianco, ma che differisse da quest’ultimo per una fisionomia più slanciata”.

Sebbene, in assenza di reperti scheletrici completi, l’esatta forma del corpo del Megalodon rimanga ancora incerta, – conclude Unipi – i risultati presentati in questa nuova ricerca costituiscono l’evidenza empirica più cogente di tale forma e rappresentano un passo avanti significativo verso la sua ricostruzione.

Deed, il metodo computazionale per scoprire nuovi materiali ceramici

Deed, il metodo computazionale per scoprire nuovi materiali ceramiciRoma, 26 gen. (askanews) – Un gruppo di ricerca internazionale guidato dalla statunitense Duke University, cui hanno partecipato per l’Italia studiosi dell’Istituto nanoscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Modena (Cnr-Nano) e di altre università americane, ha sviluppato un metodo computazionale per individuare rapidamente una nuova classe di materiali con eccezionali tolleranze termiche e meccaniche. Tali materiali, – informa il Cnr – noti come ceramiche ad alta entropia, potrebbero costituire la base di batterie, catalizzatori e dispositivi elettronici resistenti a temperature di migliaia di gradi o a radiazioni intense. I risultati della ricerca sono pubblicati sulla rivista “Nature”.

Estremamente stabili e performanti in ambienti estremi, le ceramiche ad alta entropia hanno enormi potenzialità applicative, ma la loro scoperta è limitata da processi sperimentali lunghi e costosi. Ora centinaia di questi materiali possono essere progettati e realizzati grazie a un metodo computazionale chiamato DEED (Disordered Enthalpy-Entropy Descriptor) capace di identificare ceramiche ad alta entropia e di prevedere se possono essere sintetizzate sperimentalmente. Nella sua prima dimostrazione, il programma ha previsto la “sintetizzabilità” di 900 nuove formulazioni di materiali ad alte prestazioni, ceramiche realizzate utilizzando metalli di transizione, carbonitruri o diborati, 17 delle quali sono state poi prodotte e testate in laboratorio.

L’algoritmo è stato ideato da un team guidato da Stefano Curtarolo della Duke University, in collaborazione con Arrigo Calzolari del Cnr-Nano e colleghi di Penn State University, Missouri University of Science and Technology, North Carolina State University, e State University of New York. “Le ceramiche ad alta entropia sono leghe composte da una miscela disordinata di molti elementi chimici, con centinaia di migliaia di possibili combinazioni che influenzano la sintesi e le proprietà del materiale. Esplorare sperimentalmente tutte queste potenziali ricette diventa praticamente impossibile”, spiega Arrigo Calzolari di Cnr-Nano. “Il nostro approccio computazionale, che coniuga termodinamica, meccanica statistica e simulazioni quantistiche, accelera notevolmente la scoperta di ceramiche sintetizzabili da utilizzare in ambienti estremi, in cui servono eccezionali proprietà strutturali, termiche, chimiche e ottiche a temperature elevatissime. Simili materiali sono di grande interesse poiché aprono la strada allo sviluppo di dispositivi elettronici e ottici avanzati per applicazioni nelle telecomunicazioni satellitari, nell’aeronautica ad alte prestazioni e nella gestione dell’energia, inclusa l’applicazione nei reattori nucleari”.

Oltre a prevedere nuove ricette per ceramiche disordinate stabili, la tecnica DEED consente di eseguire ulteriori analisi per scoprirne le proprietà intrinseche. Perfezionando i calcoli e testando il materiali fisicamente in laboratorio si potranno, così, trovare le ceramiche ottimali per una molteplicità di applicazioni ad alta prestazione, anche in condizioni di utilizzo estreme.

Il radiotelescopio Lofar diventa infrastruttura europea di ricerca

Il radiotelescopio Lofar diventa infrastruttura europea di ricercaRoma, 22 gen. (askanews) – Il radiotelescopio europeo Lofar (LOw Frequency Array) acquisisce la nuova configurazione di European Research Infrastructure Consortium (Eric). L’avvio di questa entità legale pensata per ottimizzare la gestione dell’infrastruttura e consolidare la leadership mondiale dell’Europa nel campo è stato ufficialmente dato nel corso della prima riunione del Consiglio di LOFAR ERIC svoltasi oggi.

A darne notizia l’Istituto nazionale di astrofisica che guida la partecipazione dell’Italia nell’infrastruttura di ricerca di Lofar, composta da 70mila antenne distribuite su ben dieci Paesi europei che forma il telescopio a bassa frequenza più potente del pianeta ed è il più grande precursore del futuro radiotelescopio Ska alle basse frequenze. Lofar ha già rivoluzionato la ricerca sulla radioastronomia, dando luogo a una valanga di pubblicazioni scientifiche nell’ultimo decennio. In particolare, la comunità Italiana sta giocando un ruolo fondamentale nell’utilizzo scientifico dei dati Lofar e ha dato un contributo tecnologico importante nella progettazione e realizzazione dei sistemi che saranno utilizzati nell’aggiornamento della infrastruttura (Lofar 2.0) prevista per il 2025.

Lofar Eric governerà proprio la sfida tecnologica alla base di Lofar 2.0, che porterà ad un grande potenziamento del radiotelescopio mettendo a disposizione della comunità astronomica una capacità di osservazione ed elaborazione dei dati ancora più all’avanguardia, producendo un ulteriore balzo in avanti nella sensibilità e risoluzione delle immagini prodotte da Lofar. “Siamo fieri di contribuire in modo decisivo al progetto Lofar”, commenta Marco Tavani, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. “L’Italia è infatti uno dei Paesi fondatori di questo Eric che oggi rafforza la leadership mondiale dell’Europa nel campo della radioastronomia. Il lavoro incessante per migliorare a livello tecnologico e organizzativo questa infrastruttura di ricerca sarà fondamentale per entrare in una nuova era dello studio dell’universo nelle onde radio, quando sarà operativo anche lo Square Kilometre Array Observatory”.

Lofar Eric fornirà un accesso trasparente a un’ampia gamma di servizi di ricerca scientifica per la comunità europea e globale, promuovendo collaborazioni e consentendo ai ricercatori di portare avanti progetti innovativi su larga scala in tutti i settori scientifici, tra cui lo studio dell’universo primordiale, la formazione e l’evoluzione delle galassie, la fisica delle pulsar e dei fenomeni radio transitori, la natura delle particelle cosmiche ad altissima energia e la struttura dei campi magnetici cosmici. Lofar Eric garantirà l’accesso ad una mole di dati senza precedenti attraverso un archivio distribuito su scala Europea e aperto alla comunità. I membri fondatori di Lofar Eric sono Bulgaria, Germania, Irlanda, Italia, Paesi Bassi e Polonia. Collaborazioni con istituti in Francia, Lettonia, Svezia e Regno Unito garantiscono un’ulteriore partecipazione all’infrastruttura distribuita Lofar e al programma di ricerca. La sede statutaria di Lofar Eric è a Dwingeloo, nei Paesi Bassi, ospitata dal NWO-I/ASTRON (Netherlands Institute for Radio Astronomy, che ha guidato la progettazione di Lofar).

“L’istituzione di Lofar Eric consolida l’eccellenza a livello mondiale per l’Europa in un importante settore di ricerca”, dice René Vermeulen, direttore fondatore di Lofar Eric. “Con la sua impareggiabile infrastruttura di ricerca distribuita e il suo solido partenariato paneuropeo, Lofar Eruc entra nello Spazio europeo della ricerca come una potenza all’avanguardia nella scienza e nella tecnologia dell’astronomia, con il potenziale per contribuire a sfide complesse più ampie”. (Crediti: ASTRON)

Una app firmata Inaf per la difesa planetaria in realtà aumentata

Una app firmata Inaf per la difesa planetaria in realtà aumentataRoma, 21 gen. (askanews) – Aurore boreali, meteore e meteoriti, comete e rifiuti spaziali: queste le esperienze in realtà aumentata che è possibile sperimentare con la nuova applicazione di “Sorvegliati spaziali”, progetto di divulgazione dell’Inaf dedicato alla difesa planetaria.

Se avete sempre sognato di poter osservare – a distanza di sicurezza – l’impatto di un asteroide, o di poter ammirare l’aurora boreale in qualsiasi periodo dell’anno, – informa l’Istituto nazionale di astrofisica – la nuova applicazione targata Inaf fa al caso vostro. “Sorvegliati spaziali” è un progetto che nasce da un’idea di Daria Guidetti dell’Inaf di Bologna nel 2021, sviluppato insieme a ricercatrici e ricercatori dell’Inaf in collaborazione con l’azienda Demarka. A oggi, il progetto si avvale di un sito web costantemente aggiornato e costellato di video, infografiche notizie, recensioni che riguardano lo studio di eventi celesti che potrebbero avere effetti sulla Terra, come possibili impatti di asteroidi e passaggi ravvicinati di comete, meteore e meteoriti, nonché di uno spettacolo teatrale per raccontare il lavoro delle donne e degli uomini pionieri delle ricerche sulla difesa planetaria.

L’app è stata presentata in anteprima alla Iaa Planetary Defense Conference, a Vienna, lo scorso aprile e poi proposta come laboratorio per il pubblico in occasione dell’Asteroid Day 2023 durante l’evento “Sorvegliati spaziali – Asteroidi fastidiosi e come affrontarli” presso la Biblioteca Salaborsa l’estate scorsa a Bologna. Da oggi è possibile scaricare l’app da App Store e Google Play per dispositivi iOS e Android, in maniera totalmente gratuita. Attraverso l’uso di nuove tecnologie come la realtà aumentata è possibile accedere a contenuti aggiuntivi e approfondire le tematiche delle macro aree che compongono il progetto, in maniera coinvolgente e interattiva. “L’esperienza più divertente che si può fare con questa app – spiega Guidetti – è quella di simulare l’arrivo di un asteroide nel proprio ambiente, con tanto di luce, esplosione, boato e ricerca delle meteoriti a terra. Ma anche quella della sezione meteorologia spaziale è molto bella: crea un’aurora colorata e cangiante e si può anche sentirne il suono grazie alla trasformazione in onde sonore di segnali radio emessi da un’aurora reale”.

Per attivare l’esperienza, occorre installare l’applicazione “Sorvegliati spaziali” sul proprio dispositivo mobile e selezionare dal menù la voce “Esplora in Ar”. “Consiglio di provare tutte le esperienze – conclude Guidetti – e di farsi scattare delle fotografie mentre si è immersi nel fenomeno astronomico per condividerle con gli amici, magari usando l’hashtag #sorvegliatispaziali. E rimanere aggiornati sul progetto: infatti, l’esperienza dell’app non finisce così, c’è l’intenzione di migliorare ed espandere alcune delle esperienze”. (Crediti: Inaf)