WhatsApp introduce la possibilità di condividere lo schermo durante le videochiamateRoma, 8 ago. (askanews) – WhatsApp introduce la possibilità di condividere lo schermo durante le videochiamate. L’annuncio è arrivato da Marc Zuckerberg. Che si tratti di condividere documenti di lavoro, riguardare delle foto insieme alla propria famiglia, pianificare una vacanza, fare shopping online con gli amici, o semplicemente aiutare i nonni con la tecnologia, informa una nota, la condivisione dello schermo permetterà di mostrare in diretta lo schermo durante una videochiamata. Si potrà avviare la condivisione cliccando sull’icona “Condividi” e scegliendo se condividere solo un’applicazione specifica o l’intero schermo.
Inoltre, si potranno effettuare le videochiamate anche in modalità orizzontale, ottenendo così un’esperienza di visualizzazione e condivisione più ampia e immersiva sul tuo telefono.
Ad agosto due “superlune” e l’immancabile pioggia di PerseidiRoma, 31 lug. (askanews) – Agosto, tempo di stelle cadenti. Eredità cometarie in forma di minuscoli frammenti di polveri che, entrando nell’atmosfera terrestre, creano un incredibile spettacolo di scie luminose che a volte sono colorate e solcano il cielo per parecchi gradi. Quelle del mese di agosto sono le Perseidi, conosciute come lacrime di San Lorenzo. Il mese che si apre domani offrirà anche due pleniluni. A fare da guida nel cielo di agosto è Media Inaf, il notiziario online dell’Istituto nazionale di astrofisica.
Il picco di stelle cadenti è atteso per il 13 del mese e quindi le sere migliori per osservarle sono intorno a questa data: la sera del 12 agosto e poi anche quella del 13 da dopo le dieci e mezza di sera fino a notte fonda, quando la costellazione di Perseo, che dà nome allo sciame meteorico, è un po’ più alta nel cielo di nord-est. La nostra Terra già dal mese scorso sta attraversando la polvere cometaria e quest’anno la Luna non disturberà le osservazioni, quindi si potranno vedere le stelle cadenti – a occhio nudo, lontano da fonti luminose – già a partire dal 9 agosto fino alla fine del periodo appena dopo il 20 di agosto. Agosto regala ben due pleniluni, con la Luna che sarà al perigeo, ossia alla minima distanza dalla Terra. Quindi saranno due fantastiche “superlune”: il primo del mese e l’ultimo giorno. Quest’ultima sarà anche una “superluna blu”. È proprio la Blue Moon, tradizionalmente chiamata così quando succedono due pleniluni nello stesso mese.
In agosto, Giove e Saturno avranno un’ottima visibilità. Giove con la sua magnitudine di circa -2,5 sarà visibile per tutta la seconda parte della notte, quindi da circa mezzanotte in avanti, e aumenterà la sua visibilità con il passare dei giorni. Saturno sarà visibile per tutta la notte, da dopo il tramonto fino all’alba, e raggiungerà l’opposizione il 27 del mese. All’opposizione gli anelli saranno più luminosi del solito, in quanto l’ombra delle particelle che costituiscono gli anelli stessi è ridotta al minimo. Assolutamente da osservare al telescopio. Non mancano anche questo mese gli incontri tra i pianeti visibili e la Luna. Il 3 di agosto il nostro satellite sarà vicino a Saturno. I due astri saranno visibili per tutta la notte a partire dalle dieci e mezza circa. L’8 del mese la Luna all’ultimo quarto si troverà in cielo poco distante da Giove ed entrambi daranno spettacolo per tutta la seconda parte della nottata. Per chi è mattiniero sarà un bellissimo spettacolo, all’alba, con i due astri ben alti nel cielo guardando verso sud. Non contenta, la Luna sarà nuovamente vicina a Saturno il giorno 30.
Per chi ama fare le ore piccole Media Inaf segnala che la mattina del 9 agosto la Luna si troverà vicino alle Pleiadi e a Giove. Il nostro satellite mostrerà una bella falce, con a fianco Giove luminoso e l’ammasso di stelle dal sapore tipicamente invernale.
Asi e Polimi insieme per estrarre ossigeno dalla regolite lunareRoma, 26 lug. (askanews) – È un importante passo avanti quello compiuto dall’Agenzia Spaziale Italiana e dal Politecnico di Milano, firmatari di un accordo riguardante l’ambizioso progetto di sviluppo e validazione di una delle tecnologie chiave per abilitare la presenza umana di lunga durata sul nostro satellite naturale.
Si tratta di ORACLE (Oxygen Retrieval Asset by Carbothermal-reduction in Lunar Environment), un impianto che consente l’estrazione di ossigeno dalla regolite lunare secondo un processo già studiato e in parte verificato in laboratorio dal gruppo ASTRA del Politecnico di Milano. La regolite è l’insieme di rocce frammentate che ricoprono la superficie della Luna. Adesso, sotto la guida di Asi, si intende attuare entro la fine di questo decennio una validazione nell’ambiente operativo di destinazione, cioè sulla superficie della Luna. Con la firma di questo accordo l’Asi e il Politecnico – informa una nota congiunta – hanno preso l’impegno a collaborare già in queste fasi iniziali di progettazione e definizione degli aspetti di interfaccia verso il lander che ospiterà una versione preliminare dell’impianto. A questo si aggiungeranno nel corso dei prossimi anni le attività di sviluppo che saranno affidate a un ulteriore partner, questa volta industriale. L’obiettivo è la realizzazione di un dimostratore da poter lanciare entro il 2028 sfruttando una delle opportunità di volo commerciali tra quelle attualmente in via di sviluppo in diversi paesi.
“L’In Situ Resources Utilization, cioè l’estrazione e lo sfruttamento delle risorse sul posto, è una capacità chiave per l’esplorazione sostenibile come quella che stiamo pianificando per la Luna – spiega Raffaele Mugnuolo Responsabile Unità Esplorazione, Infrastrutture Orbitanti e di Superficie e Satelliti Scientifici dell’Agenzia Spaziale Italiana -. In questo senso, contiamo che il progetto ORACLE si riveli di interesse globale in una prospettiva futura e che consenta all’Italia, tra i primi al mondo, di detenere una tecnologia strategica. In questa nuova stagione di ritorno alla Luna, il nostro paese si sta preparando al meglio per essere presente e ORACLE ci darà l’opportunità di consolidare il ruolo di primo piano in programmi di ampio respiro come Artemis”. “Il progetto ORACLE rappresenta uno percorso virtuoso di ricerca e sviluppo tecnologico che dimostra come l’innovazione si possa concretizzare attraverso azioni sinergiche di realtà complementari come l’Università, l’Agenzia Spaziale Italiana e, in futuro, il comparto industriale nazionale – afferma Michèle Lavagna, Responsabile scientifico del Progetto per il Politecnico di Milano -. ORACLE è un’ulteriore conferma delle opportunità che la collaborazione tra i due enti offre in ambito aerospaziale per mettere le competenze tecniche e la ricerca del Politecnico di Milano al servizio del consolidamento del ruolo dell’Italia in un comparto così strategico a livello mondiale. La sfida è notevole, ma altrettanto intensi sono la motivazione e l’entusiasmo del gruppo che contribuirà fattivamente ad un momento storico unico nello scenario dell’esplorazione spaziale come il ritorno sulla Luna, dando seguito ai risultati ottenuti in laboratorio per produrre ‘in loco’ la prima goccia d’acqua lunare”, conclude Lavagna.
Contratto Infn-Alcatel per ampliare telescopio sottomarino KM3NeTRoma, 21 lug. (askanews) – L’Infn e Alcatel Submarine Networks (ASN) hanno firmato un contratto per la fornitura e l’installazione di una delle componenti essenziali per il completamento del telescopio sottomarino per neutrini KM3NeT, un terminale di collegamento dei cavi necessari per la fornitura dell’energia ai rivelatori di cui si compone il telescopio, posizionati su lunghe stringhe ancorate al fondale marino, e per consentire al contempo la trasmissione dei dati tra questi ultimi e il centro di controllo a terra. Il contratto – si legge sul sito dell’Infn – rientra nell’ambito delle attività previste dal progetto KM3NeT4RR, finanziato dai fondi della Componente 2 (‘Dalla ricerca all’impresa’) del Pnrr. L’Infn è capofila del progetto KM3NeT4RR, che si pone come obiettivo l’ampliamento dell’infrastruttura sottomarina di KM3NeT.
Una volta giunta a termine la sua realizzazione, KM3NeT, che si trova a 3.500 metri di profondità al largo delle coste di Portopalo di Capo Passero, nella Sicilia sudorientale, diventerà il più grande telescopio per neutrini ad alta energia del Mediterraneo, fungendo inoltre da laboratorio per una vasta serie di ricerche multidisciplinari. Il sistema sottomarino fornito da ASN risulterà quindi essenziale per consentire la distribuzione e l’utilizzo dei dati raccolti dall’osservatorio, in quanto consentirà di trasmettere in tempo reale a terra i dati provenienti dai rilevatori KM3NeT. La tecnologia fornita da ASN si basa su una soluzione inizialmente sviluppata per applicazioni nel settore energetico e prevede un’alimentazione completa delle unità di rilevamento del telescopio. Già nel 2022, nel corso di una delle operazioni marine dedicate all’ampliamento KM3NeT, Alcatel Submarine Networks aveva fornito e installato con successo un’analoga struttura di terminazione dei cavi, grazie ai finanziamenti messi a disposizione dalla Regione Sicilia con il progetto IDMAR.
“Questo progetto – spiega Giacomo Cuttone, responsabile del progetto KM3NeT4RR e ricercatore Infn – offrirà all’Infn e a tutta la comunità della ricerca italiana applicazioni avanzate per implementare nuovi modelli di ricerca. La tecnologia all’avanguardia fornita da ASN ci aiuterà infatti a compiere un passo significativo per migliorare la fisica astroparticellare e altre scienze come la sismologia e la geofisica”. “ASN è da tempo leader mondiale nella fornitura di tecnologia di comunicazione sottomarina agli operatori di telecomunicazioni. Più recentemente, abbiamo messo la nostra tecnologia innovativa al servizio di organizzazioni, tra cui enti di ricerca scientifica. Siamo lieti di supportare ulteriormente l’Infn in questo nuovo e impegnativo progetto”, conclude Alain Biston, presidente di Alcatel Submarine Networks.
Sciame di calcinacci di asteroide dopo l’impatto con la sonda DartRoma, 21 lug. (askanews) – Il telescopio spaziale Hubble ha immortalato, attorno a Dimorphos, uno sciame di 37 macigni che potrebbero essersi staccati dalla superficie dell’asteroide a seguito dell’impatto con la sonda Dart della Nasa avvenuto lo scorso settembre, in quella che è stata la prima prova tecnica di difesa planetaria per testare la possibilità di deviare l’orbita di un corpo celeste potenzialmente pericoloso.
Nell’immagine diffusa dall’agenzia spaziale statunitense si vedono i 37 massi, di grandezza variabile da 1 a 6,7 metri, frutto del colpo assestato all’asteroide bersaglio dalla sonda da mezza tonnellata che si è schiantata sulla sua superficie a una velocità di 22.500 km/h. Autore dello scatto è il telescopio spaziale Hubble. Al di là del virtuosismo e del valore estetico, – si legge su Media Inaf, il notiziario online dell’Istituto nazionale di astrofisica – è una fotografia che offre agli scienziati importanti dati scientifici, utili per comprendere in dettaglio cosa sia effettivamente accaduto il giorno dell’impatto, in attesa che la missione Hera dell’Esa – il cui lancio è in programma per il 2024 – arrivi sulla scena del delitto per documentarla da vicino.
I 37 macigni, che si stanno allontanando dall’asteroide a circa 1 km/h, hanno una massa complessiva pari allo 0,1 per cento della massa di Dimorphos, dicono le stime degli scienziati. Ed è plausibile che non si tratti di frammenti prodotti al momento dell’impatto, bensì che fossero già lì sparsi sulla superficie dell’asteroide. A suggerirlo è la presenza di macigni di analoghe dimensioni negli ultimi fotogrammi ultra-ravvicinati acquisiti da Dart pochi istanti prima di colpire il bersaglio. Stando ai calcoli del team che ha osservato con Hubble questi 37 frammenti, l’impatto dovrebbe aver dato una “scrollata” sufficiente a disperdere il due per cento dei massi presenti sulla superficie dell’asteroide. Un dato che consente di ottenere una stima delle dimensioni del cratere d’impatto prodotto da Dart, in attesa di misurarlo direttamente quando Hera giungerà sul posto.
Nel frattempo, gli scienziati dei team di Dart e del cubesat tutto italiano LiciaCube stanno studiando gli effetti dell’impatto anche attraverso le immagini raccolte sul luogo e in diretta dalla fotocamera Luke (LiciaCube Unit Key Explorer) di LiciaCube nei minuti immediatamente successivi alla collisione.
Astrofisica, svelata la mappa dell’acqua nella galassia J1135Roma, 20 lug. (askanews) – L’acqua è un elemento fondamentale per la vita. Per gli astrofisici, però, rappresenta qualcosa in più. All’interno delle galassie, infatti la sua distribuzione e, in particolare, le sue transizioni di stato da ghiaccio a vapore sono considerate dai ricercatori delle preziose “bandierine di segnalazione” delle zone di maggiore energia, quelle dove si formano buchi neri e stelle. Lì dove c’è vapore acqueo, insomma, accade qualcosa di importante.
Una nuova ricerca della SISSA svela ora la distribuzione dell’acqua all’interno della galassia J1135 formatasi in un Universo “teenager”, lontano 12 miliardi di anni luce, 1,8 miliardi di anni dopo il Big Bang, già studiato in una precedente ricerca della SISSA. Questa vera e propria “mappa dell’acqua”, ottenuta per la prima volta in una galassia così remota e con inedita risoluzione, è al centro di una pubblicazione appena apparsa su “The Astrophysical Journal”. Il risultato, spiegano gli autori, potrebbe permettere di comprendere i processi fisici che animano l’interno di J1135 ma anche di fare luce sulle dinamiche ancora in parte sconosciute legate alla formazione delle stelle, dei buchi neri e delle galassie stesse. “Oltre che sulla Terra, l’acqua può trovarsi ovunque nello spazio, in stati diversi. Sotto forma di ghiaccio è presente, per esempio, nelle cosiddette nubi molecolari, regione dense di polvere e gas dove nascono le stelle” spiega Francesca Perrotta, prima autrice della ricerca che è stata condotta dal gruppo di Galaxy Observational and Theoretical Astrophysics (GOThA) della SISSA. “Il ghiaccio agisce come un mantello che ricopre la superficie dei grani di polvere interstellare. Questi grani sono le componenti di base delle nubi molecolari e i principali catalizzatori della formazione delle molecole nello spazio”. “Talvolta – continua la scienziata – accade qualcosa che rompe la quiete e il freddo di queste nubi: per esempio la nascita di una stella, che rilascia calore, o di un buco nero, che aggrega materia emettendo energia. Come conseguenza di questi fenomeni, l’acqua ghiacciata sublima in vapore acqueo”.
Nella fase di raffreddamento – spiega SISSA – il vapore acqueo emette luce nell’infrarosso: gli astrofisici possono così utilizzarlo come un vero e proprio tracciante per identificare le regione in cui l’energia viene prodotta e, di conseguenza, “avere un inedito sguardo sui meccanismi di formazione delle galassie”. Questa mappatura si aggiunge a quelle di altre molecole come il monossido di carbonio (CO), utilizzati anch’esse come traccianti per studiare questi fenomeni. Lo studio di questa galassia così lontana è stato possibile grazie al cosiddetto “lensing gravitazionale” che consente di osservare corpi celesti molto lontani grazie alla presenza di oggetti spaziali dotati di grande massa e più vicini a noi. Per i principi della relatività generale, questi corpi vicini distorcono la luce preveniente da sorgenti posizionate dietro questi stessi oggetti ma con essi perfettamente allineati diventando una sorta di grandissima lente cosmica, che permette di trovare e studiare galassie anche molto lontane. Il lensing è stato uno fenomeno centrale anche in un’altra recente ricerca della SISSA dedicata proprio alla scoperta di J1135.
Questo studio, spiega Francesca Perrotta, acquisisce valore anche perché approfondisce la conoscenza in un ambito importante: “Non è ancora così chiaro come si formano le galassie. Ci sono almeno due scenari possibili, non necessariamente alternativi: uno prevede l’aggregazione di piccole galassie per crearne di più grandi, e l’altro prevede formazione stellare in situ. Indagini come quella da noi effettuata ci aiutano a capire cosa stia succedendo in quella galassia in particolare, ma anche a trarre delle possibili informazioni più generali”. Future osservazioni, come quelle fatte dal James Webb Space Telescope, il più grande telescopio mai inviato nello Spazio, potranno in questo senso rivelare ulteriori dettagli su J1135, permettendo un mapping più accurato delle sue molecole. “I notevoli risultati ottenuti in questo lavoro – commenta il professor Andrea Lapi, coautore dello studio e co-PI di GOThA – sono stati possibili grazie allo sforzo collaborativo di alcuni ricercatori senior e di una moltitudine di giovani scienziati di talento, dottorandi e postdoc, che padroneggiano diverse competenze, dall’analisi dei dati osservativi alle tecniche numeriche e di scienza dei dati, fino alla modellazione e all’interpretazione teorica. Vorrei sottolineare la capacità dei membri del nostro team di acquisire rapidamente un solido background, di riorientare le proprie azioni e di produrre risultati originali e all’avanguardia in campi di ricerca nuovi e inesplorati, come l’astrochimica nell’Universo distante. Questo è il modo in cui la ricerca in (astro)fisica dovrebbe procedere”.
Al Cern prima osservazione di neutrini prodotti dal collisore LHCRoma, 20 lug. (askanews) – Sfruttare il Large Hadron Collider (LHC) del Cern come sorgente per lo studio di neutrini, particelle elementari caratterizzate da una scarsissima interazione con la materia, emessi a seguito delle collisioni tra protoni all’interno del super acceleratore. Questo l’obiettivo della collaborazione internazionale SND@LHC, che vede un fondamentale contributo dell’Infn, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Dopo aver portato a termine la realizzazione del proprio apparato sperimentale nel marzo dello scorso anno, le ricercatrici e i ricercatori di SND@LHC, insieme ai colleghi della collaborazione Faser – altro esperimento al Cern che studia neutrini – hanno pubblicato ieri, mercoledì 19 luglio, sulla rivista “Physical Review Letters”, i primi risultati dell’analisi dei dati acquisiti nel corso del 2022, da cui emerge la prima osservazione di neutrini muonici di alta energia prodotti da LHC.
Oltre ad aprire una nuova finestra utile a indagare le proprietà dei neutrini, la misura, la prima del suo genere, – evidenzia l’Infn – rappresenta un importante successo tecnologico, confermando la capacità del sistema di rivelazione adottato da SND@LHC di individuare particelle tanto elusive. Al risultato, indicato come “editors’s suggestions” da “Physical Review Letters”, è stato dedicato anche un “Viewpoint article” nel Physics Magazine della Società Americana di Fisica. Approvato nel marzo del 2021, l’esperimento Scattering and Neutrino Detector (SND@LHC) è stato installato a 480 metri dall’esperimento Atlas in un in un tunnel in disuso che collega LHC all’SPS e ha come scopo l’individuazione e lo studio dell’elevato numero di neutrini di tutti e tre i sapori (elettronico, muonico e tauonico) che un collisore come LHC è in grado di produrre, finora sfuggiti a un’osservazione diretta a causa della loro bassa probabilità di interazione e della loro traiettoria parallela all’asse di collisione, che rende questi neutrini ‘invisibili’ agli altri esperimenti di LHC.
“Gli esperimenti a LHC hanno sinora associato la presenza di neutrini alla rivelazione di energia mancante nella ricostruzione dei prodotti delle interazioni”, spiega Giovanni De Lellis, responsabile internazionale della collaborazione SND@LHC, ricercatore Infn e professore all’Università “Federico II”. “SND@LHC è stato progettato con l’obiettivo di rivelare queste particelle, di grande interesse per la fisica in quanto caratterizzate da energie molto elevate e non ancora esplorate, estendendo il potenziale scientifico degli altri esperimenti di LHC”. SND@LHC presenta dimensioni ridotte rispetto alle altre tipologie di esperimenti dedicati allo studio dei neutrini attualmente in corso. Esso è costituito da due regioni. In quella più a monte ci sono lastre di tungsteno, per un peso complessivo di circa 800 kg, intervallate da film di emulsioni nucleari, in grado rivelare con estrema precisione l’interazione dei neutrini, e da sistemi traccianti elettronici basati su fibre scintillanti per la misura dell’instante in cui avvengono gli eventi di interazione e della loro energia elettromagnetica. La regione finale dell’esperimento è invece dotata di calorimetro adronico e un sistema di riconoscimento dei muoni.
“Il motivo che ha consentito la realizzazione di un apparato sperimentale di dimensioni contenute è legato all’elevato numero di collisioni di LHC, che si traducono in un altrettanto elevato flusso di neutrini nella direzione in avanti. L’ingente numero di neutrini, insieme alle loro alte energie, alla cui crescita corrisponde una maggiore probabilità di interazione, rendono possibile la loro rivelazione anche con apparati più compatti di quelli oggi impiegati nell’indagine sui neutrini grazie anche alla relativa vicinanza dell’apparato alla sorgente”, prosegue Giovanni De Lellis. Grazie alle sue caratteristiche, SND@LHC è stato in grado di discriminare i soli eventi dovuti all’interazione tra l’apparato sperimentale e i neutrini prodotti dall’acceleratore nel campione di dati acquisiti nel 2022, costituito da diversi miliardi di muoni. SND@LHC ha osservato 8 eventi candidati interazioni di neutrino muonico, con una significatività statistica superiore a quella necessaria in fisica per confermare un’osservazione.
“Con questi primi risultati dell’analisi dei dati raccolti nel 2022, l’esperimento SND@LHC ha aperto una nuova frontiera nello studio dei neutrini e nella ricerca di materia oscura”, illustra Giovanni De Lellis. “Abbiamo osservato neutrini dal collider con una significatività superiore alle 5 sigma. Alla luce del fatto che una buona parte dei neutrini è originata dai decadimenti di quark pesanti, essi costituiscono un modo unico per studiare la produzione di questi quark, inaccessibile ad altri esperimenti. Queste misure sono anche rilevanti per predire il flusso di neutrini di altissime energie prodotti nei raggi cosmici, sicché l’esperimento fa da ponte tra la fisica degli acceleratori e quella delle astroparticelle”. L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare svolge un ruolo centrale all’interno della collaborazione con i gruppi delle Università e dell’Infn di Bari, Bologna e Napoli. L’Infn ha infatti costruito il bersaglio dei neutrini e il sistema di identificazione dei muoni, ed è attualmente responsabile dell’analisi dati. “Questo risultato apre una nuova era, quella della fisica dei neutrini da collisionatore, un nuovo filone di ricerca che l’INFN, sulla base delle proprie riconosciute competenze in questo settore di ricerca, ha contribuito a inaugurare. Questo è il primo risultato: l’indagine proseguirà con lo studio di neutrini muonici a più alta statistica e con la rivelazione di neutrini elettronici e del tau, nonché con la ricerca di materia oscura, grazie alle caratteristiche uniche dell’apparato sperimentale”, conclude De Lellis.
Eso, trovato possibile gemello di un pianeta con la stessa orbitaRoma, 20 lug. (askanews) – Usando ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array), alcuni astronomi hanno trovato il possibile “gemello” di un pianeta in orbita intorno a una stella lontana. L’equipe ha rilevato una nuvola di detriti che sembra condividere l’orbita del pianeta e che, ritengono gli scienziati, potrebbe rappresentare il materiale costitutivo per un nuovo pianeta oppure i resti di uno formato in precedenza. Se confermata, – informa l’Eso – questa scoperta sarebbe la prova più stringente finora che due esopianeti possono condividere la stessa orbita.
“Vent’anni fa era stato previsto in teoria che coppie di pianeti di massa simile potessero condividere la stessa orbita intorno alla propria stella, i cosiddetti pianeti troiani o co-orbitali. Per la prima volta, abbiamo trovato prove a favore di questa idea”, afferma Olga Balsalobre-Ruza, una studentessa del Centro di astrobiologia di Madrid, in Spagna, che ha guidato l’articolo pubblicato su “Astronomy & Astrophysics”. I Troiani, corpi rocciosi nella stessa orbita di un pianeta, sono comuni nel Sistema Solare: l’esempio più famoso sono gli asteroidi troiani di Giove – più di 12.000 corpi rocciosi che condividono la stessa orbita intorno al Sole del gigante gassoso. Gli astronomi prevedono che i troiani, in particolare i pianeti troiani, potrebbero esistere anche intorno a una stella diversa dal Sole, ma le prove di questo sono scarse. “Gli ‘esotroiani’ – i pianeti troiani al di fuori del sistema solare – sono stati finora come unicorni: in teoria possono esistere, ma nessuno li ha mai visti”, afferma il coautore Jorge Lillo-Box, ricercatore senior presso il Center for Astrobiology.
Adesso, un gruppo internazionale di scienziati ha utilizzato ALMA, di cui l’ESO è partner, per trovare la prova osservativa più forte dell’esistenza dei pianeti troiani, nel sistema PDS 70. Si sa che questa giovane stella ospita due pianeti giganti simili a Giove, PDS 70b e PDS 70c. Analizzando le osservazioni ALMA d’archivio del sistema, l’equipe ha individuato una nube di detriti nella posizione dell’orbita di PDS 70b in cui si prevede si possano trovare i troiani. I troiani occupano le cosiddette zone lagrangiane, due regioni estese nell’orbita di un pianeta dove la materia può rimanere intrappolata grazie all’attrazione gravitazionale combinata della stella e del pianeta. Studiando queste regioni dell’orbita di PDS 70b, gli astronomi hanno rilevato un segnale debole da una di esse, che indica la possibile presenza di una nube di detriti con una massa fino a circa due volte quella della Luna.
L’equipe ritiene che questa nube di detriti potrebbe indicare un mondo troiano o un pianeta in via di formazione in questo sistema. “Chi potrebbe immaginare due mondi che condividono la durata dell’anno e le condizioni di abitabilità? Il nostro lavoro è la prima prova che questo tipo di mondo potrebbe esistere”, afferma Balsalobre-Ruza. “Possiamo immaginare che un pianeta possa condividere la sua orbita con migliaia di asteroidi come nel caso di Giove, ma per me è strabiliante pensare che due pianeti possano condividere la stessa orbita”. “La nostra ricerca è il primo passo per cercare pianeti coorbitali in epoche molto iniziali di formazione”, afferma la coautrice Nuria Huélamo, ricercatrice senior presso il Center for Astrobiology. “Apre nuove domande sulla formazione dei troiani, su come si evolvono e quanto sono frequenti nei diversi sistemi planetari”, aggiunge Itziar De Gregorio-Monsalvo, capo dell’Ufficio dell’Eso per la scienza in Cile, che pure ha contribuito alla ricerca.
Per confermare definitivamente la scoperta, l’equipe dovrà attendere fino a dopo il 2026, quando mireranno a utilizzare ALMA per vedere se sia PDS 70b che la sua nube gemella di detriti si sono mossi in modo significativo lungo la loro orbita comune intorno alla stella. “Questo sarebbe un notevole passo avanti nel campo esoplanetario”, afferma Balsalobre-Ruza. “Il futuro in questo campo si mostra molto entusiasmante e attendiamo con impazienza le capacità della schiera estesa di ALMA, pianificata per il 2030, che miglioreranno notevolmente la possibilità dello strumento di caratterizzare i trioani in molte altre stelle”, conclude De Gregorio-Monsalvo.
IIT e Uni Bicocca: dalla curcuma un aiuto contro sbiancamento coralliMilano, 19 lug. (askanews) – Arriva dalla curcuma un aiuto alle barriere coralline nel contrasto ai danni provocati dai cambiamenti climatici, in particolare contro il fenomeno dello sbiancamento. L’IIT-Istituto Italiano di Tecnologia, l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno infatti recentemente pubblicato su “ACS Applied Materials and Interfaces”, uno studio dove è stata dimostrata l’efficacia della curcumina – sostanza antiossidante naturale estratta dalla curcuma – nel ridurre lo sbiancamento dei coralli. IIT e Università Bicocca hanno anche sviluppato un biomateriale biodegradabile per somministrare la molecola senza provocare danni all’ambiente marino circostante. I test eseguiti all’Acquario di Genova hanno poi dimostrato un’efficacia significativa della soluzione trovata nel prevenire lo sbiancamento dei coralli.
La curcumina viene somministrata in maniera controllata sul corallo applicando un biomateriale a base di zeina, una proteina derivata dal mais, che è stato sviluppato dagli stessi partner per essere sicuro per l’ambiente. Durante i test, svolti nell’Acquario di Genova, si sono simulate le condizioni di surriscaldamento dei mari tropicali alzando la temperatura dell’acqua fino a 33°C. In questa condizione tutti i coralli non trattati sono risultati colpiti dal fenomeno dello sbiancamento come succederebbe in natura mentre, al contrario, tutti gli esemplari trattati con la curcumina non hanno mostrato segni del fenomeno: risultati che dimostrano l’efficacia del metodo nel ridurre la suscettibilità dei coralli allo stress termico. Nello studio è stata utilizzata una specie di corallo (Stylophora pistillata) tipica dell’oceano Indiano tropicale e inserita nella Lista rossa IUCN – l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura – tra le specie minacciate dal rischio di estinzione. “Questa tecnologia è oggetto di una domanda di brevetto depositata, infatti i prossimi passi di questa ricerca si focalizzeranno sull’applicazione in natura e su larga scala – afferma il primo autore dello studio Marco Contardi, ricercatore affiliato del gruppo Smart Materials dell’Istituto Italiano di Tecnologia e ricercatore del DISAT, il Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – Allo stesso tempo, esamineremo l’utilizzo di altre sostanze antiossidanti di origine naturale per bloccare il processo di sbiancamento e prevenire così la distruzione delle barriere coralline”.
“L’utilizzo di nuovi materiali biodegradabili e biocompatibili capaci di rilasciare sostanze naturali in grado di ridurre lo sbiancamento dei coralli rappresenta una novità assoluta – aggiunge Simone Montano ricercatore del DISAT e vice direttore del MaRHE center, il Marine Research and Higher Education Center dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – Credo fortemente che questo approccio innovativo rappresenterà una trasformazione significativa nello sviluppo di strategie per il recupero degli ecosistemi marini”. Lo sbiancamento dei coralli è un fenomeno che, negli eventi estremi, determina la morte di questi organismi con conseguenze devastanti per le barriere coralline. La maggior parte dei coralli vive in simbiosi con alghe microscopiche, indispensabili per la loro sopravvivenza e responsabili dei loro colori brillanti. A causa dei cambiamenti climatici le temperature di mari e oceani sono in aumento, condizione che interrompe il rapporto tra questi due organismi. Quando ciò accade, il corallo, ormai bianco per la perdita delle alghe, rischia letteralmente di morire di fame.
Negli ultimi anni, a seguito dei cambiamenti climatici, questa condizione ha colpito la maggior parte delle barriere scogliere coralline più importanti del mondo, inclusa la Grande Barriera Corallina australiana. Ma a oggi non esistono interventi di mitigazione efficaci per prevenire lo sbiancamento dei coralli senza mettere in serio pericolo l’integrità di questi habitat e l’eccezionale biodiversità associata. (Nella foto: Corallo Stylophora pistillata ricoperto del biomateriale durante le prove di stress termico – Credits: Università Milano-Bicocca)
Ricerca, creato il primo atlante completo delle reti perineuronaliRoma, 14 lug. (askanews) – Un team di ricerca del Laboratorio di Biologia della Scuola Normale Superiore a Pisa ha creato il primo atlante completo delle reti perineuronali in oltre 600 regioni cerebrali. Il lavoro, pubblicato sulla rivista “Cell Reports”, ha visto come autori principali due dottorandi del Laboratorio di Biologia della Scuola Normale, Leonardo Lupori e Valentino Totaro sotto la supervisione del professor Tommaso Pizzorusso.
Le reti perineuronali sono strutture costituite da proteine e carboidrati che compaiono nel cervello dei mammiferi al termine dello sviluppo, contribuendo alla riduzione di plasticità subito prima della transizione ad adulto. Attraverso una specifica applicazione disponibile su un sito aperto – www.pnnatlas.sns.it – si può osservare quante reti perineuronali sono localizzate in determinate aree del cervello, dall’ippocampo alla corteccia, dall’ipotalamo all’area orbitale, e la loro associazione con specifici tipi cellulari. Si tratta di un importante passo avanti nella comprensione del ruolo delle reti perineuronali (PNN). Queste strutture infatti sono alterate in diversi modelli di neuropatologie umane, come nell’Alzheimer, e nella schizofrenia. Finora, la mancanza di mappe altamente quantitative della distribuzione delle reti perineuronali e della loro associazione con specifici tipi cellulari – informa la Scuola Normale – ha limitato la nostra comprensione della loro azione. Questo studio ha aperto nuove prospettive e fornito una panoramica senza precedenti delle loro localizzazione.
“Utilizzando metodiche di intelligenza artificiale che riconoscono automaticamente le reti e i neuroni inibitori da immagini al microscopio si è creato un atlante quantitativo delle reti perineuronali e della loro localizzazione – spiega il prof. Pizzorusso, ordinario di Fisiologia alla Scuola Normale-. Si è potuto osservare che aree del cervello connesse tra loro tendono ad avere simili livelli di PNN. L’analisi dell’espressione genica nel cervello ha identificato molti geni correlati alle reti perineuronali. Sorprendentemente, i geni che sono anticorrelati alle reti perineuronali sono quelli importanti per la plasticità sinaptica, indicando così il ruolo delle reti perineuronali come fattori di stabilità dei circuiti cerebrali”.