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Covid, Biden firma legge per trasparenza su origine virus

Covid, Biden firma legge per trasparenza su origine virusRoma, 20 mar. (askanews) – Il presidente degli Stai Uniti, Joe Biden, ha firmato il “Covid-19 Origin Act of 2023”, che richiede al direttore dell’intelligence nazionale di declassificare alcuni informazioni relative all’origine del Covid-19. Lo riferisce un comunicato della casa Bianca.
In una dichiarazione anch’essa diffusa dall’amministrazione, il presidente statunitense ha affermato di condividere “l’obiettivo del Congresso di rilasciare quante più informazioni possibili sull’origine della malattia” e ha rivendicato di aver ordinato nel 2021 “alla comunità dell’intelligence di utilizzare ogni strumento a sua disposizione per indagare sull’origine di Covid-19 e quel lavoro è in corso. Dobbiamo andare a fondo – ha aggiunto – delle origini di Covid-19 per contribuire a garantire una migliore prevenzione di future pandemie. La mia amministrazione continuerà a esaminare tutte le informazioni classificate relative alle origini di Covid-19, compresi i potenziali collegamenti con l’Istituto di virologia di Wuhan”.
“Nell’attuare questa legislazione, la mia amministrazione – ha sottolineato ancora Biden – declassificherà e condividerà quante più informazioni possibile, in linea con la mia autorità costituzionale di proteggere dalla divulgazione di informazioni che danneggerebbero la sicurezza nazionale”.

Tajani: faro Ue acceso su Tunisia, si teme crisi migratoria

Tajani: faro Ue acceso su Tunisia, si teme crisi migratoriaBruxelles, 20 mar. (askanews) – La questione tunisina è stata, su richiesta italiana, uno dei temi più importanti discussi oggi a Bruxelles al Consiglio Affari Esteri dell’Ue, che ha deciso di inviare a Tunisi in missione due ministri, quello belga e quello portoghese, mentre la Commissione europea invierà il commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni. Lo ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani, incontrando i giornalisti a margine del Consiglio Affari esteri dell’Ue, oggi a Bruxelles.
“Abbiamo posto con grande forza la questione Tunisia, che era stata messa all’ordine del giorno grazie alla richiesta dell’Italia”, ha ricordato Tajani. “C’è stata – ha riferito -grande attenzione da parte di tutti i paesi. Abbiamo chiesto tempi rapidi per finanziare un paese che vive un momento economico e finanziario molto difficile. Nei prossimi giorni – ha annunciato – andrà il commissario europeo Paolo Gentiloni a Tunisi per affrontare la questione e vedere cosa, quanto, come può fare l’Unione europea per finanziare la Tunisia. In più, in rappresentanza del Consiglio Affari esteri, il ministro degli Esteri belga e quello portoghese saranno nei prossimi giorni” a Tunisi “per cercare di capire come si può affrontare e risolvere la situazione tunisina con una forte azione europea”.
“I fari – ha affermato Tajani – sono stati ormai accesi sulla realtà di questo paese. C’è non solo una questione di stabilità, ma anche una questione migratoria che ci preoccupa molto, perché la frontiera tra Tunisia e Libia è ormai sempre più fragile e rischiamo di vedere nuovi flussi di migranti partire dalla Tunisia. Contiamo sul coraggio e la determinazione dell’Europa. Comunque sosteniamo le missioni che ci saranno nei prossimi giorni, vediamo quali saranno i risultati”.
Riguardo al fatto che l’Fmi tiene ancora bloccato il prestito che era stato promesso alla Tunisia, il ministro ha osservato: “Io credo che gli aiuti servono a garantire maggiore stabilità. L’Italia sta facendo la sua parte, io mi auguro che l’Europa faccia la sua parte; e anche il Fondo monetario, trovando un’intesa con il presidente tunisino, che poi è l’elemento chiave per trovare un accordo”.
“Non è sempre facile, però – ha rilevato Tajani -, è interesse generale che ci sia stabilità in un paese fondamentale per il Nord dell’Africa, e poi è il paese africano più vicino all’Italia; quindi noi faremo di tutto perché si possa raggiungere l’obiettivo di finanziare in maniera congrua questo paese, in modo che possano essere fatte le riforme, perché non dobbiamo dimenticare che i finanziamenti sono anche legati alle riforme, e perché si possa raggiungere un momento di stabilità, impedendo poi all’estremismo islamico di ritornare ad apparire nel Nord dell’Africa”.
All’osservazione di un giornalista, secondo cui il problema sembra essere proprio il presidente tunisino, Kais Saied, che rifiuta le riforme, il ministro ha risposto: “Bisogna trovare un accordo”, decidere “se bisogna fare prima le riforme o dare prima i soldi. Peró il problema fondamentale è quello della stabilità, non stabilire chi ha torto e chi ha ragione. Per noi la priorità è dare stabilità al Nord dell’Africa e alla Tunisia. E’ ovvio che le riforme vanno fatte”.
“Si può ad esempio pensare – ha spiegato Tajani – di dare delle tranche, e man mano che si fanno le riforme, aggiungere la seconda e poi la terza tranche. E’ una delle proposte che io ho fatto, in modo da poter coniugare soluzione finanziaria e riforme. Vedremo se sarà accettata poi dalla controparte. Comunque abbiamo fiducia nella missione di Gentiloni e dei due ministri degli esteri portoghese e belga”.
Il ministro ha ricordato che in Tunisia “c’è già un’azione dell’Italia: è già andata la nostra direttrice generale della Cooperazione. Sono previsti circa 110 milioni di euro per la cooperazione, in parte da dare al bilancio e in parte alle piccole e medie imprese; andiamo avanti in questa direzione, l’Italia farà la sua parte”.
Comunque, ha aggiunto Tajani, “questo riguarda l’impegno per la cooperazione e lo sviluppo italiano, la parte italiana. Poi c’è una parte europea, e la parte del Fondo Monetario internazionale. E ci sono anche gli Emirati arabi che stanno discutendo anche loro, con i tunisini. L’importante è non perdere troppo tempo”.
A chi chiedeva se sia prevedibile anche una visita a Tunisi da parte della premer Giorgia Meloni, infine, il ministro si è limitato a replicare: “Io sono in costante contatto con il governo tunisino, mi sono sentito anche oggi con il ministro degli Esteri”.

Tajani: delegazioni Ue nel mondo sosterranno Roma sede Expo 2030

Tajani: delegazioni Ue nel mondo sosterranno Roma sede Expo 2030Bruxelles, 20 mar. (askanews) – L’Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune europea, Josep Borrell, ha dato indicazioni alle rappresentanze diplomatiche dell’Ue nel mondo di sostenere la candidatura di Roma come sede dell’Expo del 2030. Lo ha riferito il ministro degli Esteri Antonio Tajani, incontrando i giornalisti a margine del Consiglio Affari esteri dell’Ue, oggi a Bruxelles.
“Un risultato importante che abbiamo raggiunto oggi – ha detto Tajani – riguarda l’Expo 2030. Ho presentato ai miei colleghi la candidatura di Roma, e al termine del dibattito l’Alto Rappresentante ha annunciato che tutte le sedi di rappresentanza, le delegazioni dell’Unione europea nel mondo, sosterranno la candidatura di Roma come unica candidata europea ad essere sede dell’expo 2030”.
“Mi pare – ha osservato il ministro – un buon risultato. Sono molto soddisfatto e ringrazio l’Alto Rappresentante Borrell per la decisione adottata. Questo significa che aumentano le possibilità per Roma di arrivare al ballottaggio, e poi mi auguro anche di vincere”.
“Comunque – ha concluso Tajani – il Governo è onorato di ospitare nella capitale d’Italia l’Expo 2030 e faremo tutto per convincere coloro che devono poi votare a sostenere la candidatura di Roma, perché è giusto che dopo due volte l’Expo torni in Europa”.

Xi Jinping a Mosca: tutti i limiti dell’amicizia Russia-Cina

Xi Jinping a Mosca: tutti i limiti dell’amicizia Russia-CinaRoma, 20 mar. (askanews) – Oggi al 39esimo incontro con Vladimir Putin da quando è alla guida della Cina, ovvero dal 2013, Xi Jinping ha sottoscritto all’inizio di febbraio 2022 con il collega russo Vladimir Putin una dichiarazione congiunta in cui i rapporti tra i rispettivi Paesi sono definiti “amicizia senza limiti”: l’espressione suggeriva la possibilità di costruire un asse anche in campo militare, pur senza i vincoli della classica alleanza. Pochi giorni dopo la Russia invadeva l’Ucraina e da allora i limiti dell’intesa sono diventati anche più evidenti. Allo stesso tempo i due Paesi si ritrovano in una sorta di mutua dipendenza, spinti l’uno verso l’altro da una congiuntura che traduce in interessi comuni alcune divergenze strategiche. La stessa guerra in Ucraina trova Cina e Russia su posizioni in teoria molto lontane, ma di fatto Pechino non può voltare le spalle alla Federazione russa, utile compagna di strada nella crescente contrapposizione agli Stati Uniti.
LA ‘POSIZIONE CINESE’ PER PORRE FINE ALLA GUERRA Dallo scoppio della guerra in Ucraina la Cina ha mantenuto una posizione cauta, a tratti ambivalente, per cercare di tenere assieme i principi di inviolabilità dei confini nazionali e i buoni rapporti con la Russia. Per Pechino il principio di integrità territoriale è essenziale, anche in chiave interna (Tibet, Xinjiang) e allo stesso tempo la crisi ucraina richiama le rivendicazioni cinesi rispetto a Taiwan. Lo scorso autunno al vertice Sco dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) in Uzbekistan le tensioni tra Xi e Putin sono apparse evidenti. Inoltre, il conflitto nel cuore dell’Europa lede gli interessi cinesi in termini di flussi commerciali e mercato cinese, poiché la stabilità è essenziale per il faraonico progetto delle nuove vie della seta, la Belt and Road Initiative.
Così a febbraio Pechino ha presentato un documento con la propria “posizione”, non un piano di pace concreto, ma una visione di insieme per arrivare alla de-escalation e alla soluzione del conflitto basato sul principio di “indivisibilità della sicurezza”, caro anche alla Russia (che però lo interpreta in modo inconciliabile con l’approccio americano). Gli Usa non hanno gradito l’entrata in scena della Cina nelle vesti di possibile mediatore e la Casa Bianca considera “inaccettabile” una proposta di cessate il fuoco in questa fase. Washington ha anche moltiplicato i moniti su possibili forniture di armi da parte della Cina alla Russia.
LA MUTUA DIPENDENZA ENERGETICA La Cina è assetata di energia e la Russia è costretta a re-indirizzare il proprio export sulla scia della rottura con l’occidente e conseguente drastica diminuzione della domanda da parte europea. L’accelerazione delle vendite di gas, petrolio e carbone dalla Russia alla Cina è cominciata in realtà nel 2014, dopo l’annessione russa della Crimea e l’inizio del regime sanzionatorio occidentale nei confronti di Mosca e la guerra in Ucraina ha accelerato il processo. Nel 2018, le vendite di petrolio russo alla Cina sono aumentate del 20% sull’anno precedente. Nel periodo gennaio-novembre 2022, la Cina ha importato quasi 80 milioni di tonnellate di petrolio russo (il 10% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) per un valore complessivo di 54,5 miliardi di dollari. Nei primi dieci mesi del 2022 le forniture di gas russo sono schizzate del 173% sullo stesso periodo del 2021. La Russia è il più grande fornitore di carbone alla Cina e copre il 10% del fabbisogno complessivo cinese. In aumento anche le vendite di GNL. Sui prezzi delle forniture alla Cina vige il segreto, ma è convinzione comune che Pechino sfrutti il bisogno russo di compensare il crollo delle vendite all’Europa.
SANZIONI OCCIDENTALI SPINGONO SCAMBI COMMERCIALI, MA .. Gli scambi commerciali tra Cina e Russia nel 2022 hanno raggiunto i 190 miliardi di dollari, con un incremento del 29% rispetto al 2021. Sempre sulla scia delle sanzioni, la Russia ha preso a importare merci dalla Cina per rimpiazzare i prodotti occidentali, (+12,8% a 76,1 miliardi di dollari), mentre le importazioni dalla Russia sono cresciute del 43,4% a 114,1 miliardi di dollari. In termini relativi, tuttavia, la quota russa è sempre limitata: a fine 2022, la Russia rappresentava il 3% del fatturato commerciale totale della Cina con l’estero.
Per effetto delle sanzioni, l’anno scorso la Cina ha aumentato le consegne alla Russia di camion, escavatori, pneumatici in gomma, pompe e compressori e tutta una serie di prodotti per l’edilizia. Eppure, le esportazioni cinesi di elettronica di consumo verso la Russia (smartphone, laptop), secondo i dati di gennaio-novembre 2022, sono state inferiori rispetto al 2021.
Per le forniture di gas, la Russia è collegata alla Cina dal gasdotto “Forza di Siberia” che trasporta 38 miliardi di metri cubi l’anno, capacità molto inferiore a quella del progetto russo-tedesco Nord Stream prima sospeso e poi messo fuori gioco dal sabotaggio per cui si cerca sempre un colpevole. A febbraio 2022 Putin ha siglato con il collega cinese un accordo per la costruzione del “Forza di Siberia 2” che deve attraversare la Mongolia e aumentare le forniture di altri 10 miilardi di m3. Il trasporto via tubo è comunque limitato rispetto alle proiezioni e alle necessità di export russo dopo la rottura con l’Europa.
LE TENSIONI TRA DUE IMPERI CONFINANTI Il vincolo energetico rafforzato dalla rottura tra Russia e Occidente è di mutua convenienza, ma Mosca ha motivo di temere un eccesso di dipendenza dalla Cina. I due Paesi sono ‘due imperi’ confinanti, condividono una frontiera lunga 4250 chilometri e Pechino considera “ingiusti” e lesivi dei suoi interessi gli accordi sui confini nell’area dell’Amur. In quella regione ancora a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta si combatteva una guerra non dichiarata, con aperte ostilità per mesi: il momento di estrema tensione convinse gli Stati Uniti dell’opportunità di avvicinare la Cina. L’apertura di Washington a Pechino si concretizzò nel 1972 con la storica visita a Pechino del presidente Nixon, preparata da missioni segrete dell’allora segretario di Stato Henry Kissinger.
LA SPROPORZIONE DEMOGRAFICA Oggi Mosca celebra l’amicizia ‘infinita’ con l’amico cinese, ma nel suo Estremo Oriente il timore del ‘pericolo giallo’ ritorna ciclicamente, alimentato dalla sproporzione demografica: L’intero bacino dell’Amur è abitato da poco più di un milione di russi, mentre nella confinante provincia cinese di Hellongjiang ci sono 40 milioni di abitanti. Per non parlare del dato nazionale: la Russia conta circa 143 milioni di abitanti e i cinesi sono 1,41 miliardi. (di Orietta Moscatelli)

Tanzania, contributo italiano a sviluppo progetto irrigazione

Tanzania, contributo italiano a sviluppo progetto irrigazioneRoma, 20 mar. (askanews) – La società italiana LR S.r.l. ha sottoscritto oggi a a Dodoma, alla presenza della Presidente della Tanzania, Samia Suluhu Hassan, un memorandum di intesa con il ministero dell’Agricoltura per lo sviluppo di un progetto di irrigazione nella zona del Mara, nel nord del paese, che prevede la costruzione di una diga e di una fitta rete di irrigazione che andranno a soddisfare le necessità idriche di un territorio di oltre 8.500 ettari. E’ quanto si legge in una nota diffusa dall’ambasciata italiana in Tanzania.
Oltre a quello in parola sono stati sottoscritti ventidue contatti per realizzazione di altrettanti progetti di irrigazione di importanza strategica nazionale, si precisa nel comunicato. Lo Studio Bergs & More ha assistito la società nella negoziazione e sottoscrizione del memorandum di intesa e per l’impostazione delle successive fasi necessarie per la sottoscrizione del contatto commerciale e per la relativa componete finanziaria. “Grande soddisfazione del Gruppo per l’inizio di un importante progetto per il paese e per una zona che, da lungo tempo, sta attendendo la realizzazione di infrastrutture necessarie per il proprio sviluppo e che grazie a tecnologia italiana e israeliana potrà presto vivere un cambiamento epocale”, ha dichiarato Hagay Maayan, LR Vice President.
L’Ambasciatore d’Italia in Tanzania, Marco Lombardi e l’Ambasciatore della Tanzania in Italia, Mahmoud Thabit Kombo, hanno espresso viva soddisfazione per l’inizio di un progetto fortemente sostenuto da Italia e Tanzania che è suscettibile di importanti ricadute per il positivo svolgimento dei rapporti economici bilaterali tra i due Paesi. Erano anche presenti all’evento Hagay Maayan (rappresentante di LR Italy), la dottoressa Rita Ricciardi (rappresentate di Bergs & More East Africa), l’avvocato Eugenio Bettella (Rappresentate di Bergs & More Italia).

Iraq-Ucraina, Blair: nessun paragone possibile

Iraq-Ucraina, Blair: nessun paragone possibileRoma, 20 mar. (askanews) – Vent’anni fa, l’ex primo ministro britannico Tony Blair ha trascinato il Regno Unito nella guerra in Iraq dietro gli Stati Uniti, una mossa che ha scatenato massicce proteste nel suo paese. Oggi rifiuta qualsiasi paragone tra l’Iraq, una guerra condotta senza mandato dell’Onu, e l’Ucraina, anche se il presidente russo Vladimir Putin ne ha fatto “una scusa”.
“Non c’è alcuna ragionevole giustificazione per invadere un Paese indipendente e sovrano, con un presidente democratico, (che non ha posto) alcun problema a nessuno” e non ha violato “nessun obbligo internazionale”, spiega Tony Blair in un’intervista all’AFP e ad altre agenzie di stampa europee. “Se non avesse usato questa scusa (dell’Iraq), ne avrebbe usata un’altra”, ha detto il 69enne ex leader laburista di Vladimir Putin.
L’ex dittatore iracheno Saddam Hussein ha provocato due guerre regionali, ha sfidato molteplici risoluzioni delle Nazioni Unite e ha lanciato un attacco chimico contro il suo stesso popolo, ricorda Tony Blair. “Almeno possiamo riconoscere che abbiamo rimosso un despota dal potere (in Iraq) per cercare di instaurare una democrazia”.
“Naturalmente possiamo discutere di tutte le conseguenze” della guerra in Iraq, ammette ma “non dobbiamo mai dimenticare quello che ha fatto Vladimir Putin in Medio Oriente, in Siria. (…) Il suo intervento in Medio Oriente è servito a mantenere un despota al potere e a rifiutare una democrazia. Quindi dovremmo trattare tutta questa propaganda con il poco rispetto che merita”, aggiunge Tony Blair.
Vladimir Putin è ora oggetto di un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale (CPI) per il crimine di guerra di “deportazione illegale” di bambini ucraini dopo l’invasione russa dell’Ucraina, decisione che secondo Mosca non ha alcun valore legale.

Kishida: Giappone investirà 75 mld dollari in Indo-Pacifico

Kishida: Giappone investirà 75 mld dollari in Indo-PacificoRoma, 20 mar. (askanews) – Il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha annunciato oggi oltre 75 miliardi di dollari di assistenza per le infrastrutture e per la sicurezza per l’Indo-Pacifico durante la sua visita in India. Lo riferisce Nikkei Asia.
Kishida ha tenuto un discorso a un evento organizzato dal think tank Indian Council of World Affairs, dopo un vertice faccia a faccia con Modi, in cui ha invitato il leader indiano a partecipare al vertice del Gruppo dei Sette a Hiroshima a maggio. Modi ha accettato.
Il nuovo stanziamento per lo sviluppo per l’Indo-Pacifico diverrà operativo da qui al 2030, in collaborazione con il settore privato, va inquadrato in quella che Kishida ha definito una nuova visione per un “Indo-Pacifico libero e aperto” riprendendo una formula coniata per la prima volta dal suo defunto predecessore Shinzo Abe nel 2016.
Da allora, ha affermato Kishida, la comunità internazionale ha assistito a grandi eventi che potrebbero essere descritti come cambiamenti di paradigma, tra cui la pandemia di COVID-19 e l’invasione russa dell’Ucraina. Questo obbliga tutti “ad affrontare la sfida più fondamentale: difendere la pace”, ha detto il leader giapponese.
La due giorni di Kishida in India si colloca in un contesto internazionale caratterizzato dalla guerra in Ucraina, ma anche da una serie di preoccupazioni per la crescente influenza cinese nella regione indo-pacifica. Tra gli strumenti adottati da Pechino anche l’Iniziativa Belt and Road Initiative, che sta anche creando preoccupazioni per il debito insostenibile in cui vengono incastrate alcune economie fragili, come accaduto nello Sri Lanka.
Kishida, a questo, oppone l’idea d’investire “infrastrutture di qualità”, in linea con gli obiettivi del G20, presieduto quest’anno dall’India. Come parte della sua proposta di aiuto, il primo ministro ha anche offerto assistenza di sicurezza gratuita alle forze armate di nazioni che la pensano allo stesso modo.
“Nella comunità internazionale si sta verificando un grande cambiamento nell’equilibrio di potere”, ha detto KIishida. L’idea di un Indo-Pacifico libero e aperto, ha sottolineato, è radicata nello stato di diritto così come nel rispetto della diversità, inclusività e apertura. “In altre parole, non escludiamo nessuno, non creiamo campi”.
Poi ha aggiunto: “Credo che dovremmo mirare a un mondo in cui diverse nazioni coesistono e prosperano insieme sotto lo stato di diritto senza cadere nella competizione geopolitica”. Dicendo che la sua visione richiede la collaborazione di più parti interessate, ha affermato: “Certo, l’India è indispensabile”.
In precedenza, parlando insieme ai giornalisti a Nuova Delhi, Kishida e Modi hanno salutato la cooperazione dei loro paesi e sottolineato l’importanza che l’India abbia ospitato il G20 e il Giappone il G7 nello stesso anno.
“Ecco perché è la migliore opportunità per lavorare sulle nostre rispettive priorità”, ha detto Modi, aggiungendo che un importante pilastro della presidenza indiana del G-20 è dare voce al Sud del mondo, un termine collettivo per le nazioni meno sviluppate che sentono la loro interessi sono stati spesso trascurati sulla scena internazionale.
Modi ha evidenziato come il partenariato India-Giappone si basa su valori democratici comuni e sul rispetto dello stato di diritto. “Il rafforzamento di questa partnership non è solo importante per i nostri due paesi, ma promuove anche la pace, la prosperità e la stabilità nell’Indo-Pacifico”, ha affermato .
Parlando degli obiettivi del G-7 del Giappone, Kishida ha sottolineato la necessità di sostenere un ordine internazionale basato sullo stato di diritto, rafforzando al contempo i legami nella comunità internazionale, “compresi i paesi di quello che viene chiamato il Sud del mondo”.
Successivamente, Kishida ha anche rivelato la sua intenzione di invitare al vertice di Hiroshima anche altri paesi, tra cui Vietnam, Corea del Sud e Brasile.
Modi e Kishida inoltre hanno entrambi fatto riferimento a un obiettivo di investimenti giapponesi di 5mila miliardi di yen (38,7 miliardi di dollari) in India per un periodo di cinque anni, annunciato durante la visita del leader giapponese lo scorso anno.

Ucraina, Poroshenko: mostro della guerra divori il regime di Putin

Ucraina, Poroshenko: mostro della guerra divori il regime di PutinRoma, 20 mar. (askanews) – “Non bisogna aspettarsi che le truppe ucraine ‘brucino Mosca’. Il Cremlino deve cadere a causa delle turbolenze interne alla Russia stessa, dovute all’emorragia dei ricavi delle esportazioni di energia, al picco delle importazioni, all’alta inflazione e al crollo del prodotto interno lordo. Il mostro della guerra, scatenato da Putin, deve divorare il suo regime”. Lo scrive l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko in un articolo in esclusiva su Formiche.net.
L’obiettivo, spiega ancora, si può raggiungere con cinque passi. “Primo. Il tetto massimo dei prezzi del greggio e dei prodotti derivati deve essere ridotto costantemente. Secondo. Occorre fissare una quota di fornitura e un tetto massimo di prezzo per i progetti russi di gas naturale liquefatto, che sono diventati una miniera d’oro per finanziare l’esercito di Putin e le sue tasche private. In terzo luogo, il Canale di Suez dovrebbe essere chiuso ai carichi di petrolio e raffinerie di origine russa. Il percorso intorno all’Africa è più lungo, il trasporto è più costoso, il numero di petroliere è maggiore, i costi logistici sono più alti e i profitti sono più bassi. Quarto. Il ramo sud dell’oleodotto Druzhba, che ancora arricchisce la Russia di 4 miliardi di dollari all’anno, deve essere interrotto. Si potrebbero sviluppare alternative per l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Per esempio, può essere un percorso attraverso la Croazia per coprire il loro fabbisogno. Quinto. Proponiamo di imporre sanzioni non solo all’enorme flotta di petroliere ombra russe, ma anche di imporre sanzioni secondarie a coloro che acquistano il petrolio trasportato da queste navi. Allo stesso tempo, queste navi dovrebbero essere identificate come russe non solo dalla loro bandiera, ma anche dai loro reali proprietari effettivi finali”.
“Per salvare il maggior numero possibile di vite umane, dobbiamo adottare misure per dissanguare economicamente la Russia e tagliare i finanziamenti alla sua macchina da guerra”. Aggiunge Poroshenko che invita anche a escludre tutte le banche russe dal sistema Swift.
“È tempo di escludere le banche russe rimanenti dal sistema Swift e di congelare tutti i pagamenti internazionali del Paese aggressore e della cerchia di Putin”. La prospettiva della deswiftizzazione riguarderà tutti quei Paesi che sostengono la Russia nella sua guerra contro l’Ucraina. Così come tutti gli istituti bancari di qualsiasi Paese che aiuti deliberatamente il regime di Putin ad aggirare le sanzioni e a sponsorizzare il genocidio degli ucraini”, continua.
È il primo passo da compiere, secondo l’ex presidente ucraino. “In secondo luogo, tutti i beni congelati della Federazione Russa e degli oligarchi russi dovrebbero essere concentrati in un fondo trasparente sotto le indicazioni degli Stati Uniti e dell’Unione europea, per garantire la trasparenza e impedire che finiscano nelle mani di funzionari corrotti. Questo fondo dovrebbe essere interamente dedicato al sostegno dell’Ucraina”, aggiunge. “In terzo luogo, dovremmo liberarci del petrolio e del gas russo in tutte le sue forme, prezzi, modalità e vie di consegna. Il ricatto della Russia non dovrebbe essere preso in considerazione. Si tratta di una quota pari al 7% del mercato petrolifero globale, che può essere sostituita dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Arabia Saudita, per esempio. Per quanto riguarda i derivati del petrolio, circa il 30% della capacità di raffinazione globale rimane libera. Il mercato globale si sta adattando alle sanzioni contro la Russia senza alcuno shock per gli operatori”, conclude.

Xi all’arrivo a Mosca: con Putin per vero multipolarismo

Xi all’arrivo a Mosca: con Putin per vero multipolarismoRoma, 20 mar. (askanews) – Xi Jinping, nei suoi incontri con il presidente russo Vladimir Putin nei due giorni di visita a Mosca, intende promuovere un’idea di governance del mondo basata su un “vero multipolarismo”, su una “democratizzazione dele relazioni internazionali” e su un sistema internazionale “risolutamente innestato sull’Onu”. L’ha affermato, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa russa Ria Novosti, il presidente cinese appena arrivato nella capitale russa.
“La Cina, assieme alla Russia, è pronta a sostenere risolutamente il sistema internazionale basato sull’Onu; difendere un ordine mondiale basato sulla legge internazionale, sulle norme fondamentali delle relazioni internazionale basate sulle premesse e sui principi della Carta Onu; a promuovere il multipolarismo nel mondo e la democratizzazione delle relazioni internazionali”, ha detto Xi.
“Mi attendo che durante la visita avrà con confronto di punti di vista con il presidente Vladimir Putin sulle relazioni bilaterali e su importanti tematiche regionali e internazionali di reciproco interesse, oltre a svilupare un piano per le interazioni strategiche e la cooperazione pratica”, ha affermato ancora il presidente cinese.
“Ho fiducia – ha detto inoltre – che la visita sarà fruttuosa e che daremo un nuovo impeto al un sano e stabile sviluppo delle relazioni Cina-Russia di partenariato complessivo e cooperazione strategica in una nuova era”.

Cina-Russia, un rapporto “speciale” ma molto travagliato

Cina-Russia, un rapporto “speciale” ma molto travagliatoRoma, 20 mar. (askanews) – La visita del presidente cinese Xi Jinping in Russia iniziata oggi, oltre ad avere lo scopo di elevare il ruolo di Pechino nello scenario internazionale inevitabilmente marcato dal conflitto ucraino, rappresenta un’occasione per consolidare il nuovo stato delle relazioni tra Pechino e Mosca e per testare fino a che punto questi rapporti possano evolversi, magari arrivando a una vera e propria alleanza anche alla luce di una nuova polarizzazione in corso a livello globale. La storia, però, non depone a favore di questa evoluzione.
Una Cina, che teme di essere accerchiata da un punto di vista geopolitico dalla manovra a tenaglia americana, ha certamente bisogno che una solida Russia faccia da argine al nuovo, impetuoso “vento dell’Ovest”. Anche alla luce dei piani di riconquista di Taiwan. In questo senso, le gravi battute d’arresto russe in Ucraina rappresentano un segnale sinistro per Xi, appena riconfermato per un inedito terzo mandato presidenziale, e il leader cinese vedrebbe come la peste un’eventuale destabilizzazione della Russia.
Tuttavia non dobbiamo pensare a Mosca e Pechino come alleati naturali. Anzi, la storia dei loro rapporti ci racconta il contrario.
Fu attorno alla metà del XVII secolo che la Russia degli Zar e la Cina dell’impero Qing (manciù) vennero a contatto. Insediamenti russi si crearono nel bacino del fiume Amur e le truppe imperiali cinesi li respinsero. Cosacchi e manciù si scontrarono più volte, finché nel 1689 i due imperi fimarono il Trattato di Nerchinsk con il quale si fece un primo sforzo per fissare i confini.
Il tentativo non riuscì, in particolare perché non si poté collocare la Mongolia interna nel quadro di queste relazioni. Così Pietro il Grande sollecitò il Celeste Impero a chiudere la questione e si arrivò a un secondo trattato, nel 1729, firmato a Kyakhta. Ma anche quel documento non risolse il problema.
A complicare le cose, poi, ci si misero le potenze occidentali e la Gran Bretagna in particolare. Il XIX saecolo fu caratterizzato dal disfacimento dell’Impero Qing, dilaniato dalle concorrenti mire delle potenze occidentali, compresa la Russia. E, alla fine del secolo, nel frastagliato scenario cinese, mise il naso anche il Giappone, nel bel mezzo della frenetica modernizzazione promossa dall’imperatore Meiji. Nel 1895 le forze nipponiche sconfissero quelle cinesi nella Prima guerra sino-giapponese. Ma la Russia, sotto la guida del potente ministro delle Finanze Sergey Witte, siglò un’alleanza con la Cina (il cosiddetto trattato Li-Lobanov) e si unì a Gran Bretagna e Francia in un’azione per impedire a Tokyo d’impossessarsi della penisola di Liaodong e di Port Arthur, innescando in Tokyo un senso della vittoria mutilata che fu il motore nel 1904-1905 della Guerra russo-giapponese.
In quel conflitto, per la prima volta, una nazione asiatica riuscì a sconfiggere una delle principali potenze militari europee. La Russia zarista cadde in una fase rivoluzionaria, ma lo stesso accadde in Cina. Nel 1912 la Dinastia Qing fu rovesciata e fu istituita la repubblica. Nel 1917 accadde lo stesso alla Dinastia Romanov e, dopo una guerra civile, fu istituita l’Unione sovietica. Si entrò così in una nuova fase per entrambi gli ex imperi.
La Cina s’impantanò in un’infinita guerra civile, con il peso anche delle invasioni giapponesi. Nel 1924 l’URSS, grazie all’azione del ministro degli Esteri Georgy Chicherin, stabilì relazioni formali con la Repubblica di Cina, dopo che tre anni prima Mosca aveva sostanzialmente imposto al Partito comunista cinese, da poco nato, un’alleanza con il Partito nazionalista (Kuomintang) del generale Chiang Kai-shek. Nel 1926, però, Chiang ripudiò l’alleanza, rimandò a casa i consiglieri militari sovietici, e iniziò lo scontro con il Pcc che portò all’infinita guerra civile.
Mosca ovviamente diede il suo sostegno ai comunisti, che negli anni ’30 cominciarono a spingere sotto la guida del leader Mao Zedong. Ma, a rimescolare ancora le carte, ci pensarono i giapponesi, che nel 1931 crearono (al confine con l’URSS) lo stato-fantoccio del Manchukuo e fecero precipitare la Cina in una guerra immane, che terminò di fatto solo con la disfatta nipponica nel 1945. La seconda guerra mondiale costò all’URSS oltre 20 milioni di morti e il periodo che va dagli anni ’30 alla fine del conflitto mondiale portò alla Cina qualcosa come oltre 35 milioni di morti.
Dopo la comune vittoria contro i giapponesi – anche se i sovietici entrarono in guerra contro Tokyo soltanto l’8 agosto 1945 (giorno del bombardamento atomico di Nagasaki), due giorni prima della resa nipponica, e invasero la Manciuria in una continuazione del conflitto contro i ‘falchi’ giapponesi dell’Armata del Kwantung fino a settembre di quell’anno – i russi si ritrovarono in una posizione di forza rispetto a Pechino. Il 14 agosto 1945 fu firmato il Trattato di amicizia e di pace tra l’Unione sovietica e il governo nazionale cinese. Ma intanto l’effimera collaborazione ristabilita tra Kuomintang e Pcc era più che terminata ed era ripresa la guerra civile. Il primo ottobre 1949, Mao proclamò la Repubblica popolare cinese a Pechino, mentre i nazionalisti di Chiang nel 1950 si rifugiarono a Taiwan istituendo la Repubblica di Cina.
I primi anni post-bellici, tra Pechino e Mosca furono caratterizzati dalla retorica dei paesi socialisti fratelli. Con non pochi mal di pancia, l’URSS aiutò la Rpc nella ricostruzione, nell’industrializzazione ma anche sul fronte dello sviluppo del nucleare. Nel 1956, però, Mao non aderì alla destalinizzazione promossa a Mosca da Nikita Krushev. Inoltre emersero diverse questioni politiche e ideologiche che divaricarono le posizioni tra i due paesi comunisti. Krushev vedeva Mao come un estremista, criticava la Rivoluzione culturale e il Grande Balzo in avanti. Mao invece arrivò a valutaree la crisi dei missili a Cuba nel 1962 come un caso avventurismo sovietico e, alla fin fine, come una sconfitta per Mosca. Inoltre restava aperta la questione dei confini, con non rare schermaglie anche armate sui due fronti. Nel 1969 ci fu una guerra – non dichiarata formalmente – al confine per il controllo dell’isola di Zhenbao (Damansky) sul fiume Ussuri, con un migliaio di morti cinesi e un centinaio russi.
Ma la vera spaccatura avvenne nel 1972 quando, in seguito alla cosiddetta “diplomazia del ping pong”, Pechino aprì le relazioni con gli Stati uniti con la storica visita del presidente americano Richard Nixon. Cina e URSS si trovarono su fronti diversi e i rapporti divennero aspri, resi ancora più duri dalla competizione a suon di bombe in Vietnam e Cambogia.
Anche dopo la morte di Mao, nel 1976, le cose non migliorarono. Sotto la guida di Hua Guofeng prima e di Deng Xiaoping poi la Cina avviò il processo di riforme economiche. L’URSS, dal canto suo, andò verso la decadenza e quando il leader Mikhail Gorbaciov tentò la via della riforme democratiche, contribuì a innescare in Cina le proteste giovanili che culminarono nella strage di piazza Tiananmen. Anche in questo caso, Mosca e Pechino si ritrovarono su fronti opposti: Gorbaciov puntò alla democratizzazione ma fallì sulle riforme economiche, Deng respinse anche con l’uso della forza le spinte democratiche ma lavorò intensamente sul fronte economico.
Dopo la caduta dell’URSS, venne creata la Federazione russa, mentre la Cina continuò in maniera discontinua il suo processo di riforma. Nel 1991 fu demarcato il confine terrestre, nel 2001 firmato un Trattato di buon vicinato e cooperazione amichevole, poi rinnovato per altri cinque anni nel 2021.
La fine della guerra fredda ha però modificato nuovamente il quadro globale.
Di fronte a una superpotenza e un mondo unipolare, gli Stati uniti, la politica della Cina, che sta diventando a sua volta potenza globale, presenta convergenze con quella russa, la quale cerca di mantenere una presa sulla sua regione di riferimento e un’influenza globale. Eppure, anche in questa cornice, si rilevano punti di frizione, per esempio rispetto all’influenza sui paesi dell’Asia centrale, con le loro importanti risorse.
Però è proprio il tema delle risorse – energetiche, alimentari, tecnologiche – a spingere le due potenze confinanti verso lo sviluppo di una relazione “speciale”, sebbene non in grado (finora) di diventare una vera e propria alleanza. Per quanto, nella visita di Vladimir Putin del 4 febbraio 2022 a Pechino, in occasione dell’inaugurazione delle Olimpiadi invernali, sia stato affermato un principio di amicizia “senza limiti” tra Russia e Cina, in realtà l’invasione dell’Ucraina solo venti giorni dopo è stata vista da Pechino come un problema. Secondo le intelligence occidentali, Putin non ha seguito il suggerimento di Xi di rimandare l’attacco e l’imbarazzo cinese è stato palpabile. In sede Onu, Pechino non ha votato a favore di una risoluzione di condanna nei confronti di Mosca, ma neanche contro. Si è astenuta.
Soltanto a un anno dall’inizio della guerra ucraina, Pechino ha promosso un’iniziativa mettendo sul tavolo un suo “position paper”, qualcosa di più e qualcosa di meno di un piano di pace. Un’ambivalenza che permane costante nei rapporti con la Russia: necessario possibile alleato, certo, ma di cui la Cina si fida poco.
(di Antonio Moscatello)