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Spazio, da Enea un micro pomodoro per i viaggi su Luna e Marte

Spazio, da Enea un micro pomodoro per i viaggi su Luna e MarteRoma, 18 gen. (askanews) – Enea ha realizzato un pomodoro nano arricchito di molecole antiossidanti, utili per la dieta degli astronauti nelle missioni di lunga durata e in grado di resistere alle radiazioni dell’ambiente spaziale. Le attività sono state condotte nell’ambito dei progetti HORTSPACE e BIOxTREME, finanziati dall’Agenzia Spaziale Italiana, e i risultati sono stati pubblicati sulle riviste scientifiche, Frontiers in Astronomy and Space Sciences e Frontiers in Plant Sciences.

“Nella roadmap di esplorazione umana dello spazio profondo in cui la Luna sarà tappa fondamentale verso Marte, gli astronauti dovranno autosostentarsi con le risorse a disposizione”, spiega Silvia Massa del Laboratorio Enea di Biotecnologie. “Queste piante – aggiunge – forniranno cibo fresco e salutare senza necessità di rifornimenti dalla Terra e rappresenteranno la principale fonte di molecole ad alto valore aggiunto, come antiossidanti e biofarmaci, a supporto della vita nei futuri avamposti spaziali”. In questo scenario, infatti, – si legge nella notizia che apre il numero odierno del settimanale ENEAinform@ – l’ambiente confinato, le differenti condizioni di gravità rispetto alla Terra e le radiazioni ionizzanti condizioneranno non solo la salute dell’uomo, ma anche la produttività delle piante e la qualità del cibo, potendo generare stress ossidativo e danni al DNA.

Sin dal 2014 nell’ambito del progetto BIOxTREME, Enea ha studiato come le piante alimentari possano crescere in modo adeguato in un ambiente extraterrestre, arrivando a sviluppare un vero e proprio modello. In seguito, nell’ambito del progetto HORTSPACE, i ricercatori hanno valutato i requisiti di produttività e di qualità anche nello spazio, studiando come le radiazioni influenzino la fisiologia di queste piante, sottoposte alla simulazione di un ambiente spaziale. Rispetto alle piante non ingegnerizzate, il pomodoro sviluppato da Enea – ribattezzato ‘San Marziano’ dai ricercatori – ha dimensioni più compatte e un maggior contenuto di antocianine, con trascurabili variazioni di crescita e fotosintesi. “Ad oggi, gli esperimenti dalla Nasa sulle piante al di fuori dell’ambiente terrestre hanno consentito valutazioni microbiologiche su specie edibili ma non studi sulle performance delle piante e degli alimenti derivati”, sottolinea Silvia Massa. “Grazie al nostro modello realizzato in collaborazione con l’Università di Amsterdam – Swammerdam, siamo riusciti a ‘riaccendere’ nel pomodoro la biosintesi delle antocianine che è ‘dormiente’ nelle specie attualmente coltivate, ottenendo così il pomodoro biofortificato e, per la prima volta al mondo in modo così sistematico, abbiamo studiato gli effetti delle radiazioni ionizzanti durante l’intero ciclo vitale, oltre che sui principali indici del metabolismo primario e secondario”, conclude Massa.

Il team Enea si è avvalso per le ricerche dell’impianto Calliope nel Centro Ricerche Casaccia (Roma). “Si tratta di una facility di irraggiamento dalle caratteristiche uniche nel panorama italiano ed europeo, in grado di simulare alcune delle condizioni presenti nello Spazio e utile per conoscere e prevenire gli effetti che l’ambiente spaziale – e le radiazioni di cui è ricco – possono provocare sull’uomo e sui dispositivi tecnologici”, sottolinea Alessia Cemmi, responsabile del Laboratorio Enea di Sistemi nucleari innovativi. L’esplorazione dello spazio ha sempre rappresentato un potente acceleratore di tecnologie per applicazioni sulla Terra, dove è urgente il ricorso all’innovazione tecnologica in agricoltura per far fronte all’aumento della popolazione mondiale, alla riduzione delle superfici coltivabili e agli effetti dei cambiamenti climatici. La ricerca Enea sulle biotecnologie punta allo sviluppo sia di piante resistenti a condizioni estreme (deserti, basi antartiche o ambienti disagiati come le basi militari) che di piante “biofabbrica” per la produzione di molecole di interesse farmaceutico.

Ghiaccio sepolto su Marte, la scoperta grazie a un radar italiano

Ghiaccio sepolto su Marte, la scoperta grazie a un radar italianoMilano, 18 gen. (askanews) – Nuovi dati della missione Mars Express indicano la presenza di spessi strati di ghiaccio estesi per alcuni chilometri nel sottosuolo marziano. Si tratta del più vasto deposito di acqua scoperto nei pressi dell’equatore di Marte. Lo studio si basa sui dati del radar MARSIS, uno dei due strumenti a bordo di Mars Express forniti dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), e vede la partecipazione di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Lo spiega l’Asi in una nota.

Medusae Fossae è una vasta regione geologica che si estende per migliaia di chilometri lungo l’equatore di Marte. Più di quindici anni fa, la sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) aveva identificato in quest’area del pianeta dei misteriosi depositi di materiale fino a 2,5 chilometri sotto la superficie. Secondo un nuovo studio, potrebbe trattarsi di un enorme accumulo di ghiaccio. Il lavoro si basa su nuovi dati raccolti con il radar MARSIS, uno dei due strumenti a bordo di Mars Express forniti dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), progettato da Sapienza Università di Roma con la partecipazione del Jet Propulsion Laboratory della NASA e dell’Università dell’Iowa, negli Stati Uniti, e gestito dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). I dati mostrano che i depositi nella regione di Medusae Fossae si estendono fino a 3,7 chilometri nel sottosuolo del Pianeta rosso, una profondità ancora maggiore di quanto stimato dalle osservazioni precedenti. Il segnale è consistente con quanto ci si aspetta dal ghiaccio stratificato ed è simile a quello rilevato nei pressi delle calotte polari di Marte, che sono ricche di ghiaccio.

Si tratta del più grande deposito di acqua mai rilevato in questa porzione del pianeta: se si sciogliesse, potrebbe coprire la superficie di Marte con uno strato d’acqua profondo da 1,5 a 2,7 metri. Sulla Terra, una simile massa di acqua sarebbe sufficiente a riempire il Mar Rosso. I risultati della ricerca, guidata da Thomas Watters della Smithsonian Institution, sono stati pubblicati sulla rivista Geophysical Research Letters. La regione di Medusae Fossae si trova al confine tra le pianure e gli altopiani che caratterizzano la geologia di Marte. Comprende formazioni scolpite dal vento, alte diversi chilometri, che si estendono per centinaia di chilometri e rappresentano uno dei depositi di polvere più vasti del pianeta. Per questo, dalle prime osservazioni di Mars Express, non era stato possibile confermare con certezza la presenza di ghiaccio: poteva infatti trattarsi di grandi accumuli di polvere spinta dal vento, oppure di cenere vulcanica o sedimento.

“È qui che entrano in gioco i nuovi dati del radar MARSIS – ha spiegato Andrea Cicchetti, ricercatore INAF e co-autore del nuovo studio – data la sua profondità, se la formazione di Medusae Fossae fosse semplicemente un gigantesco mucchio di polvere, ci aspetteremmo che si compattasse sotto il suo stesso peso. Ciò creerebbe qualcosa di molto più denso rispetto a quello che effettivamente vediamo con MARSIS. Abbiamo provato a modellare il comportamento dei diversi materiali privi di ghiaccio, ma nessuno di essi riproduce le proprietà osservate: c’è bisogno del ghiaccio”. “Lo studio appena pubblicato sarà di cruciale importanza per pianificare le prossime missioni spaziali dirette verso Marte -ha aggiunto Eleonora Ammannito, ricercatrice dell’Agenzia Spaziale Italiana – è sempre più evidente, infatti, la necessità di fare uno studio di dettaglio di tutta l’immediata sotto-superficie di Marte per verificare se il caso del deposito di ghiaccio sotto le Medusae Fossae sia isolato oppure se sia uno scenario che si verifica anche in altri punti del pianeta. Proprio per questo motivo l’ASI, insieme alla CSA, la NASA e la JAXA stanno studiano un concetto di missione “Ice Mapper” che ha l’unico obiettivo di fare una mappatura del ghiaccio sotto-superficiale. Queste informazioni serviranno sia per una rivisitazione dei modelli evolutivi attualmente esistenti sia per supportare lo sviluppo delle missioni umane sulla superficie di Marte che dovranno necessariamente fare affidamento su depositi di ghiaccio in zona equatoriale”.

Secondo il nuovo studio, il deposito consiste di strati di polvere e ghiaccio, il tutto sormontato da uno strato protettivo di polvere secca o cenere spesso diverse centinaia di metri. Oggi Marte è un pianeta dall’aspetto arido, ma la sua superficie è ricca di segni dell’acqua che un tempo era abbondante. Presenta inoltre notevoli riserve di ghiaccio d’acqua, come le calotte polari. Eppure una riserva di ghiaccio estesa come quella appena scoperta non avrebbe potuto formarsi nel clima attuale del pianeta, ma deve risalire a un’epoca climatica precedente. Se i risultati di questo studio saranno confermati, bisognerà aggiornare la nostra comprensione della storia del clima di Marte. L’estensione e la posizione dei depositi ghiacciati nell’area di Medusae Fosse li renderebbero molto interessanti per l’esplorazione umana di Marte in futuro. Le missioni spaziali dovranno atterrare vicino all’equatore del pianeta, lontano dalle calotte polari ricche di ghiaccio o dai ghiacciai ad alta latitudine, e avranno bisogno dell’acqua come risorsa, quindi trovare ghiaccio in questa regione è praticamente essenziale per eventuali future missioni umane sul Pianeta Rosso. Purtroppo i depositi identificati in questo studio sono coperti da centinaia di metri di polvere, dunque inaccessibili almeno per i prossimi decenni. Tuttavia conoscere la distribuzione del ghiaccio sulla superficie odierna di Marte aiuta i ricercatori a comprendere sempre meglio dove scorreva l’acqua in passato e dove può essere trovata oggi.

Carrozza (Cnr): dal prossimo anno vedremo impatto Pnrr su ricerca

Carrozza (Cnr): dal prossimo anno vedremo impatto Pnrr su ricercaRoma, 18 gen. (askanews) – Gli effetti del Pnrr “ancora non li vediamo pienamente ma li vedremo nelle ricerche del prossimo anno e di quello dopo. Sarà interessante vedere l’impatto del Pnrr sullo stato di salute della ricerca italiana. Fino adesso abbiamo dei dati ottimistici, perché abbiamo avuto più investimenti negli anni recenti, più ricercatori sia negli enti di ricerca che nelle università e anche più programmi di ricerca, e poi il Pnrr”. Lo ha detto la presidente del Cnr Maria Chiara Carrozza aprendo a Roma nella sede centrale dell’Ente l’evento di presentazione della quarta edizione della “Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia. Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia” frutto della collaborazione tra l’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Cnr-Irpps), l’Istituto di ricerca sulla crescita economica sostenibile (Cnr-Ircres), e Istituto per gli studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie (Cnr-Issirfa).

“Sappiamo – ha detto poi ad askanews la presidente del Cnr – che l’Italia è specializzata a livello internazionale nei settori tradizionali, tipici del Made in Italy, che probabilmente saranno meno importanti nell’economia del futuro. Per fare un salto dalle specializzazioni tradizionali a quelle più innovative ci vuole uno sforzo congiunto delle imprese, del settore pubblico e delle università. Dalla relazione emergono dei punti di forza, ad esempio nei semiconduttori, che potrebbero essere quelli su cui si può costruire una capacità scientifica e tecnologica per sostenere il progresso italiano nei prossimi anni”. “In Italia – ha detto ancora ad askanews Maria Chiara Carrozza in relazione allo studio – c’è una lieve ripresa dell’investimento in ricerca, anche grazie al Pnrr. L’Italia ha un ecosistema che produce brevetti, forse non abbastanza ma tendenzialmente in un’area della ricerca più tradizionale del made In Italy, però c’è un ambito quello delle nanoscienze, delle microstrutture dove stiamo andando bene. La ricerca enfatizza anche l’importanza della mobilità dei dottorandi e anche l’investimento nei dottorati di ricerca. La mobilità, il fatto di andare in un sistema diverso a fare una parte del percorso può essere vincente poi per la carriera successiva”.

“Complessivamente – ha concluso – mi aspetto che alla fine del Pnrr il sistema italiano sia molto più forte e che anche la collaborazione pubblico-privato abbia dato i suoi frutti e penso che ovviamente ci dobbiamo preoccupare di un consolidamento a medio e lungo termine degli investimenti però la mia prospettiva è sempre di lavorare prima con quello che abbiamo. Penso che i talenti che noi formiamo, solo qui al Cnr abbiamo centinaia di nuovi ricercatori a tempo determinato sul Pnrr, saranno i talenti dell’Italia. Si dice sempre che c’è un grande carenza, noi con il Pnrr abbiamo l’occasione di formare queste persone altamente qualificate”.

Da EHT nuove immagini di M87, il primo buco nero “fotografato”

Da EHT nuove immagini di M87, il primo buco nero “fotografato”Roma, 18 gen. (askanews) – La collaborazione scientifica EHT Event Horizon Telescope, che nel 2019 aveva pubblicato la prima “foto” di un buco nero, ha pubblicato nuove immagini di M87*, il buco nero supermassiccio al centro della galassia Messier 87: questa volta le immagini sono state realizzate a partire dai dati delle osservazioni effettuate nell’aprile 2018, un anno dopo rispetto ai dati che hanno portato all’immagine rilasciata nel 2019. Grazie alla partecipazione di un nuovo telescopio, il Greenland Telescope, e a un tasso di acquisizione dati nettamente migliorato in tutti i telescopi della rete di EHT, le osservazioni del 2018 ci offrono una visione della sorgente indipendente dalle prime osservazioni del 2017.

Le nuove immagini sono state realizzate da un gruppo internazionale di ricerca della collaborazione EHT, di cui fanno parte anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e dell’Università di Cagliari e sono state pubblicate di recente sulla rivista “Astronomy & Astrophysics”. Le immagini rivelano un anello luminoso, delle stesse dimensioni di quello osservato nel 2017, che circonda una profonda depressione centrale, “l’ombra del buco nero”, come previsto dalla relatività generale. Quello che differisce è la posizione del picco di luminosità dell’anello, che si è spostato di circa 30° rispetto alle immagini del 2017. Questo è coerente con la nostra comprensione teorica della variabilità del materiale turbolento intorno ai buchi neri.

“Un requisito fondamentale della scienza è la possibilità di riprodurre i risultati,” afferma il dottor Keiichi Asada, ricercatore dell’Academia Sinica Institute for Astronomy and Astrophysics di Taiwan e coordinatore del gruppo di lavoro che ha redatto l’articolo. “La conferma dell’anello in una serie di dati completamente nuova è un’enorme pietra miliare per la nostra collaborazione e una forte indicazione che stiamo osservando l’ombra di un buco nero e il materiale che orbita intorno a esso”. Il buco nero M87* è il cuore pulsante della galassia ellittica gigante Messier 87 e si trova a 55 milioni di anni luce dalla Terra. La prima immagine di questo buco nero – ricordano Inaf, Infn, Unina in una nota – ha rivelato un anello circolare luminoso, più brillante nella parte meridionale dell’anello. Un’ulteriore analisi dei dati ha anche rivelato la struttura di M87* in luce polarizzata, dandoci maggiori informazioni sulla geometria del campo magnetico e sulla natura del plasma intorno al buco nero.

La nuova era della produzione diretta di immagini dei buchi neri, guidata dall’analisi approfondita delle osservazioni del 2017 di M87*, ha aperto una nuova finestra che ci permette di indagare l’astrofisica dei buchi neri e di testare la teoria della relatività generale a un livello fondamentale. I modelli teorici predicono che non ci dovrebbero essere correlazioni tra il 2017 e il 2018 nello stato del materiale intorno a M87*. Pertanto, osservazioni multiple di M87* ci aiuteranno a porre vincoli indipendenti sulla struttura del plasma e del campo magnetico intorno al buco nero e ci aiuteranno a districare la complicata astrofisica dagli effetti della relatività generale. Per contribuire alla realizzazione di nuove ed entusiasmanti ricerche scientifiche, l’EHT è in continuo sviluppo. Il Greenland Telescope si è unito a EHT per la prima volta nel 2018, appena cinque mesi dopo il completamento della sua costruzione al di sopra del Circolo Polare Artico. Questo nuovo telescopio ha migliorato in modo significativo la qualità delle nuove immagini ottenute con EHT, migliorando la copertura della rete, in particolare nella direzione Nord-Sud. Inoltre, il Large Millimeter Telescope (LMT), grande telescopio operativo in Messico, ha partecipato per la prima volta alla presa dati con l’intera superficie di 50 metri, migliorando notevolmente la sua sensibilità. L’array di EHT è stato inoltre aggiornato per osservare in quattro bande di frequenza intorno ai 230 GHz, rispetto alle sole due bande del 2017.

“Anche in questo caso abbiamo utilizzato diversi algoritmi di imaging e tecniche di modellizzazione per ottenere questa nuova ricostruzione indipendente di M87*,” spiega Rocco Lico, ricercatore Inaf e affiliato all’Instituto de Astrofísica de Andalucía (IAA-CSIC), che nella collaborazione EHT ricopre diversi ruoli, tra cui quello di coordinatore del gruppo di lavoro sui nuclei galattici attivi. “Questo approccio richiede l’utilizzo di molte risorse di calcolo e l’analisi di una mole enorme di dati, ma è un requisito fondamentale per poter ottenere risultati robusti ed evitare potenziali bias nel processo di ricostruzione dell’immagine”. L’immagine di M87* ripresa nel 2018 è notevolmente simile a quella che abbiamo visto nel 2017. Si vede un anello luminoso delle stesse dimensioni, con una regione centrale scura e un lato dell’anello più luminoso dell’altro. La massa e la distanza di M87* non aumenteranno in modo apprezzabile nel corso della vita umana, quindi la relatività generale prevede che il diametro dell’anello rimanga invariato di anno in anno. La stabilità del diametro misurato nelle immagini dal 2017 al 2018 supporta con forza la conclusione che M87* è ben descritto dalla relatività generale. “Il cambiamento più grande, ovvero lo spostamento del picco di luminosità intorno all’anello, è in realtà qualcosa che avevamo previsto quando abbiamo pubblicato i primi risultati nel 2019,” spiega Britt Jeter, ricercatore dell’Academia Sinica Institute for Astronomy and Astrophysics di Taiwan. “Mentre la relatività generale dice che le dimensioni dell’anello dovrebbero rimanere pressoché fisse, le emissioni provenienti dal disco di accrescimento attorno al buco nero fanno sì che la parte più luminosa dell’anello oscilli attorno a un centro comune. La quantità di oscillazioni che osserviamo nel tempo è qualcosa che possiamo usare per testare le nostre teorie sul campo magnetico e sull’ambiente del plasma intorno al buco nero”. “A differenza di tutti i lavori di EHT pubblicati finora che hanno presentato un’analisi delle prime osservazioni del 2017, questo risultato rappresenta il primo sforzo per esplorare i molti anni di dati aggiuntivi che abbiamo raccolto,” racconta Mariafelicia De Laurentis, deputy project scientist della collaborazione EHT, professoressa all’Università degli Studi di Napoli Federico II e ricercatrice Infn. “Oltre al 2017 e al 2018, l’EHT ha condotto osservazioni di successo nel 2021 e nel 2022 e ha in programma osservazioni nella prima metà del 2024. Ogni anno, l’array di EHT è stato migliorato attraverso l’aggiunta di nuovi telescopi, perfezionamenti nell’hardware e l’inclusione di nuove frequenze di osservazione. Grazie a questi progressi, EHT sarà in grado di continuare a fornirci nuove informazioni sui buchi neri, come M87* o Sgr A*”, il buco nero al centro della nostra galassia.

Missione Axiom-3, nuova finestra di lancio domani alle 22.49

Missione Axiom-3, nuova finestra di lancio domani alle 22.49Cape Canaveral, 17 gen. (askanews) – La nuova finestra di lancio verso la Stazione Spaziale Internazionale per la missione spaziale privata Ax-3 di Axiom Space, con l’astronauta italiano Walter Villadei, Colonnello dell’Aeronautica Militare, si aprirà domani, giovedì 18 gennaio 2024, alle 22.49 ora italiana (le 16.49 in Florida).

Il rinvio del lancio si è reso necessario, ha spiegato Axiom Space in una nota, per consentire alle squadre di supporto di “completare verifiche pre-lancio e l’analisi dei dati, incluso il modulatore di energia del sistema di paracadute” che serve a rallentare la navetta durante l’ultima fase del rientro sulla Terra. Il Colonnello Villadei, 50 anni ad aprile, è il pilota della navetta Crew Dragon “Freedom” di Space X; a lui la Difesa italiana ha affidato la missione “Voluntas”, prima missione spaziale commerciale per il nostro Paese. Per due settimane, l’astronauta italiano condurrà a bordo della Stazione Spaziale Internazionale diversi esperimenti scientifici e test di nuove tecnologie anche per conto dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e dell’industria nazionale.

Rinviato a domani il lancio della missione Ax-3 con Villadei

Rinviato a domani il lancio della missione Ax-3 con VilladeiCape Canaveral, 17 gen. (askanews) – È stato rinviato a domani, giovedì 18 gennaio 2024, il lancio della missione spaziale commerciale Ax-3 della compagnia privata americana Axiom Space con a bordo l’astronauta italiano Walter Villadei, Colonnello dell’Aeronautica Militare.

La conferma è arrivata con un post su X di SpaceX, l’azienda aerospaziale privata americana a cui appartengono il lanciatore Falcon 9 e la navetta Crew Dragon “Freedom”, dopo che il conto alla rovescia si era fermato a -3 ore dal decollo. “Il nuovo obiettivo per il lancio della missione Ax-3 verso la Stazione Spaziale Internazionale – scrive Space X – è giovedì 18 gennaio. Il tempo aggiuntivo consentirà alle squadre di completare i controlli pre-lancio e l’analisi dei dati sul veicolo spaziale”.

I cani scodinzolano e questo ci piace: uno studio indaga i perché

I cani scodinzolano e questo ci piace: uno studio indaga i perchéRoma, 17 gen. (askanews) – Un cane che scodinzola ci piace. Il movimento ritmico della coda accompagna molti stati d’animo del cane, come la gioia di rivedere il suo umano o l’attesa del lancio di una pallina, ma può anche manifestare tensione. Ma perché i cani scodinzolano? E perché questo ci piace? Un team di ricercatori dell’Università di Torino, della Sapienza di Roma, dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna e del Max Planck Institute for Psycholinguistics in uno studio pubblicato su “Biology Letters”, riassume le ricerche che hanno indagato i meccanismi, l’evoluzione e la funzione dello scodinzolio nei cani domestici che hanno portato ad avanzare due ipotesi evolutive per spiegare l’insorgenza di questo comportamento evidente ma scientificamente ancora poco chiaro.

I cani domestici sono i carnivori più diffusi al mondo. Con una popolazione stimata di un miliardo di individui sono presenti in quasi tutte le aree abitate dall’uomo, una convivenza iniziata circa 35mila anni. Le code sono comuni a tutti i vertebrati e si sono originariamente evolute per la locomozione; molti animali le usano anche per l’equilibrio e per scacciare i parassiti. Nei canidi, le code non sono più utilizzate per la locomozione, ma piuttosto per la comunicazione rituale. La coda dei cani è un’estensione della colonna vertebrale, ma si sa poco di come i suoi movimenti siano controllati a livello neurofisiologico. Si tratta di un comportamento asimmetrico, – rileva Unito – con i cani che mostrano movimenti lateralizzati a seconda degli stimoli che incontrano. Ciò suggerisce una lateralizzazione cerebrale, con una tendenza a scodinzolare sul lato destro, determinata dall’attivazione dell’emisfero sinistro, per gli stimoli che hanno una valenza emotiva positiva (es: quando viene mostrato il padrone o una persona familiare). Al contrario, mostrano uno scodinzolio orientato a sinistra, quindi l’attivazione dell’emisfero destro, per gli stimoli che suscitano ritiro (es: quando viene mostrato un cane sconosciuto e dominante o in situazioni di aggressività).

Associare lo scodinzolio all’eccitazione, sia positiva che negativa, suggerisce una correlazione con gli ormoni e i neurotrasmettitori legati a questo tipo di reazione. Ad esempio, esistono prove indirette che collegano l’ossitocina allo scodinzolio, soprattutto quando i cani si riuniscono a un umano familiare. Tuttavia, le associazioni tra il comportamento scodinzolante e i livelli di cortisolo non sono coerenti tra gli studi. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che i livelli di cortisolo basale possono variare con molti altri parametri (sesso, razza, età e storia di vita del cane). In aggiunta, le incongruenze del passato possono essere dovute al fatto che lo scodinzolio viene tipicamente analizzato come un’unica categoria comportamentale, senza tener conto della sua natura multidimensionale e dei suoi parametri. “Nessuno studio – dichiara Silvia Leonetti del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino – ha seguito lo sviluppo del comportamento scodinzolante nello stesso individuo per tutta la vita. Solo in un caso, tuttavia, sono state quantificate diverse caratteristiche comportamentali dei cuccioli di cane e di lupo, compreso lo scodinzolio. I cuccioli di entrambe le specie sono stati allevati e poi testati per verificare la loro preferenza per l’uomo che li accudisce rispetto ad altri stimoli. I cuccioli di cane di quattro-cinque settimane hanno iniziato a scodinzolare frequentemente e a manifestare preferenze per la persona che li accudiva. I cuccioli di lupo, invece, scodinzolavano molto meno”.

Una chiave per comprendere meglio le ragioni dello scodinzolio canino potrebbe essere la domesticazione, un lungo processo che porta a una serie di cambiamenti fisiologici, morfologici e comportamentali nelle specie addomesticate. “L’addomesticamento del cane – prosegue Leonetti – è probabilmente iniziato durante il Paleolitico superiore. I cambiamenti associati alla domesticazione includono: depigmentazione della pelliccia, riduzione delle dimensioni dello scheletro facciale e dei denti, cambiamenti nelle dimensioni e nelle proporzioni generali del corpo, comparsa di attributi fisici come le orecchie flosce e la coda arricciata, riduzione delle dimensioni del cervello, riduzione dell’aggressività, aumento della docilità e la variazione dei livelli ormonali con conseguenti cambiamenti comportamentali”. Diverse ipotesi hanno cercato di spiegare come si siano verificati questi cambiamenti. Secondo l’ipotesi della “sindrome da domesticazione”, esso può portare all’emergere di tratti geneticamente collegati ma inaspettati, che sono sottoprodotti di una selezione per un altro tratto, come ad esempio la docilità o la socievolezza nei confronti dell’uomo. Ciò potrebbe essere dovuto a un legame genetico tra la selezione per la docilità e l’anatomia della coda. Ad esempio, le selezioni iniziali per la docilità potrebbero aver portato ad alterazioni delle cellule della cresta neurale durante lo sviluppo, con ripercussioni su vari tratti fenotipici, tra cui l’anatomia della coda.

In alternativa, il comportamento scodinzolante potrebbe essere stato un obiettivo del processo di domesticazione, con gli esseri umani che hanno selezionato i cani che scodinzolavano più spesso e, potenzialmente, in modo più ritmico. Questa è l’ipotesi dello “scodinzolio ritmico addomesticato”. Molti studi multidisciplinari dimostrano che gli esseri umani hanno notevoli capacità di percepire e produrre sequenze ritmiche, in particolare schemi isocroni in cui gli eventi sono equamente spaziati nel tempo. Questa propensione per i ritmi isocroni potrebbe aver guidato la selezione umana per il vistoso scodinzolio ritmico, spiegando perché i cani lo mostrano così spesso nelle interazioni uomo-cane. Secondo entrambe le ipotesi, la selezione del comportamento scodinzolante potrebbe non essere stata uniforme tra le varie razze; ad esempio, i cani da caccia scodinzolano di più dei cani da pastore, e hanno anche subito una selezione diversa per quanto riguarda lo scodinzolio. “Lo scodinzolio dei cani – conclude Leonetti – è un comportamento evidente ma scientificamente sfuggente. La sua unicità, complessità e ubiquità sono potenzialmente associate a molteplici funzioni, ma i suoi meccanismi e la sua ontogenesi sono ancora poco conosciuti. Queste lacune ci impediscono di comprendere appieno la storia evolutiva del moderno comportamento scodinzolante e il ruolo svolto dall’uomo in questo processo. Un’indagine più sistematica e approfondita sullo scodinzolio non solo permetterà di mappare meglio questa iconica manifestazione comportamentale del cane, ma fornirà anche informazioni indirette sull’evoluzione dei tratti umani, come la percezione e la produzione di stimoli ritmici”.

L’Etna laboratorio naturale per studiare il vulcanismo di Venere

L’Etna laboratorio naturale per studiare il vulcanismo di VenereRoma, 17 gen. (askanews) – L’Etna come un possibile analogo terrestre di Idunn Mons, un vulcano venusiano forse tutt’ora attivo e che in base ai dati attualmente disponibili si ritiene abbia eruttato in tempi geologici recenti. A proporlo uno studio internazionale guidato dall’Istituto nazionale di Astrosifica (Inaf) in collaborazione con i vulcanologi dell’Osservatorio Etneo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV-OE) recentemente pubblicato sulla rivista “Icarus” e a cui hanno partecipato Nasa (Usa), Università di Londra (UK), Accademia delle Scienze di Mosca (Russia), Indian Space Research Organisation (INDIA), Università degli Studi di Catania (UniCT), Università Sapienza di Roma, Università degli Studi di Pavia, Coventry University (UK) e Universidad Rey Juan Carlos di Madrid (Spagna).

Gli studi sul vulcano siciliano permetteranno ai geologi di testare tecniche di analisi dei dati radar per l’individuazione di attività vulcanica in corso su Venere. Piero D’Incecco, primo autore dell’articolo e ricercatore presso l’Inaf d’Abruzzo, spiega che “la comparazione ha evidenziato che entrambi i vulcani interagiscono con una zona di rift e che la presenza sui fianchi di Idunn Mons di strutture vulcaniche di piccole dimensioni, morfologicamente simili ai coni di scorie presenti sui fianchi dell’Etna”. L’Etna – spiegano Inaf e Ingv – è un vero e proprio laboratorio naturale a cielo aperto per i geologi che si occupano di vulcanismo, perché facile da raggiungere e perché è possibile effettuare osservazioni in-situ prelevando campioni di lava che saranno poi comparati con quelli prodotti dalle future missioni su Venere. I dati aiuteranno a definire il livello di similarità con le lave dei vulcani venusiani.

Diverse le future missioni con obiettivo Venere: quelle della Nasa Veritas e Davinci, la missione Esa EnVision e la missione Isro Shukrayaan-1. “La facilità di accesso permetterà anche di utilizzare l’Etna come possibile area di test per operazioni di perforazione del suolo da parte dei lander che atterreranno sulla superficie di Venere grazie a future missioni come la Roscosmos Venera-D”, spiega D’Incecco, di recente nominato nel Comitato direttivo del Venus Exploration Analysis Group (VEXAG) della Nasa, per un mandato di 3 anni. La comunità scientifica concorda sul fatto che il vulcanismo su Venere sia comparabile al vulcanismo di tipo hot-spot terrestre. Un esempio lampante sono i vulcani hawaiani, effusivi e caratterizzati da lave molto fluide. La presenza su Venere di strutture vulcaniche morfologicamente simili ai coni di cenere terrestri, che invece sono tipici di un vulcanismo esplosivo, apre una serie di interrogativi sulla possibilità che anche su Venere – seppur localmente – possano verificarsi episodi di vulcanismo esplosivo. “Le future missioni su Venere ci aiuteranno a far luce anche su questa possibilità, che se confermata rivoluzionerebbe la visione attuale che abbiamo del vulcanismo venusiano”, aggiunge il ricercatore Inaf.

Stefano Branca, direttore dell’Osservatorio Etneo dell’Ingv e coautore dell’articolo, evidenzia: “Il vulcano Etna a partire dal XIX secolo in poi è stato, e continua ad essere, un laboratorio di ricerca per tutta la comunità scientifica italiana e internazionale riguardo gli studi di tipo geologico, vulcanologico, geofisico e geochimico e, grazie al sistema di monitoraggio multiparametrico dell’Osservatorio Etneo dell’Ingv, è uno dei vulcani meglio studiati al mondo. Questo lavoro evidenzia ancora di più questo aspetto anche per quanto riguarda lo studio del vulcanismo planetario, come nel caso di Venere. Infatti, le notevoli conoscenze sulla storia eruttiva del vulcano siciliano, acquisita durante gli studi realizzati per la pubblicazione della carta geologica dell’Etna alla scala 1:50.000, unitamente alle conoscenze sull’attività recente hanno permesso di fare una comparazione morfostrutturale con il vulcano Idunn al fine di individuare possibile evidenza di vulcanismo attivo su Venere”. L’analisi delle differenze e delle analogie tra strutture vulcaniche di pianeti diversi come Venere e Terra ci ricorda che non esiste un analogo “perfetto” e che, quindi, è fondamentale studiare quanti più analoghi possibile, giacché ogni vulcano terrestre può aiutarci ad approfondire e comprendere meglio un aspetto specifico del vulcanismo venusiano.

“Questo studio rappresenta il primo tassello di una importante collaborazione multidisciplinare tra astrofisici e vulcanologi dell’Osservatorio Etneo dell’Ingv. Una sinergia che apre affascinanti capitoli di ricerca e getta nuova luce sui misteri del vulcanismo di Venere”, conclude Stefano Branca dell’Ingv-Oe. L’articolo pubblicato su Icarus è il primo tassello del progetto “Analogs for VENus’ GEologically Recent Surfaces” (AVENGERS), a guida Inaf, ed è stato ufficialmente presentato alla Lunar and Planetary Science Conference a Houston a marzo del 2023. Questo progetto, durante i prossimi anni, si occuperà proprio di selezionare e studiare una serie di vulcani attivi sulla Terra che possano fungere da analoghi per Venere. (Credit: ESA/NASA/JPL)

Il ruolo di Thales Alenia Space nella missione Ax-3 di Villadei

Il ruolo di Thales Alenia Space nella missione Ax-3 di VilladeiTorino, 16 gen. (askanews) – È pronto a partire per la Stazione Spaziale Internazionale l’ astronauta italiano Walter Villadei, Colonnello dell’Aeronautica Militare al qualche il Ministero della Difesa ha affidato la missione “Voluntas”, nell’ambito della quale, per due settimane, l’astronauta italiano svolgerà, a bordo dell’ISS, diversi esperimenti scientifici, anche per conto dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e dell’industria aerospaziale italiana.

Villadei avrà anche il ruolo di pilota della navetta Crew Dragon di Space X per la missione Ax-3 della compagnia spaziale privata americana Axiom Space, prima missione spaziale commerciale con un equipaggio tutto europeo. Il lancio è previsto per mercoledì 17 gennaio, dalla base Nasa di Cape Canaveral, in Florida, alle 17.11 ora locale (le 23.11 in Italia). La missione Ax-3 dovrebbe ridefinire anche il percorso verso l’orbita terrestre bassa (LEO), delineando una rotta verso la Stazione Axiom, la prima stazione spaziale commerciale al mondo.

Un lancio significativo per Thales Alenia Space, joint venture tra Thales (67%) e Leonardo (33%) che vanta una partnership di successo di Space con Axiom per la realizzazione della Stazione Spaziale commerciale e collabora con l’Aeronautica Militare per promuovere l’accesso all’orbita bassa terrestre. Grazie alla sua storica esperienza nella costruzione di moduli per la Staziona Spaziale Internazionale, nel sito torinese di Thales Alenia Space sono in fase di realizzazione i moduli della Stazione Spaziale Commerciale di Axiom.

Previsti per essere lanciati rispettivamente nei prossimi anni i due elementi saranno inizialmente attraccati alla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), dando vita al nuovo segmento orbitale della Stazione Axiom. La Stazione Axiom avrà la funzione di hub centrale dell’umanità per la ricerca, la produzione e il commercio in orbita terrestre bassa (LEO), ampliando il volume utilizzabile e abitabile della ISS, e sarà agganciato al modulo ISS Nodo 2, costruito anche esso da Thales Alenia Space. Quando la ISS avrà completato la sua vita operativa, i moduli Axiom si separeranno e opereranno come una stazione spaziale commerciale a volo libero, un laboratorio e un’ infrastruttura residenziale nello spazio che sarà utilizzata per esperimenti di microgravità, test di materiali critici per l’ambiente dello spazio e ospiterà astronauti privati e professionisti.

Sarà la pietra miliare di una permanente e attiva presenza umana nonché di una proficua rete di attività commerciali in orbita terrestre bassa, consentendo nuovi progressi sia sulla Terra che nello Spazio coinvolgendo numerose PMI della filiera spaziale e non. Thales Alenia Space collabora, inoltre, con l’Aeronautica Militare per promuovere l’accesso all’orbita bassa terrestre a favore delle istituzioni, della comunità scientifica, dell’industria e degli operatori commerciali, e lo sviluppo di una catena di ricerca su questioni strategiche (medicina, materiali, biogenetica, ecc.) nonché a supporto della messa in opera dei moduli, delle possibilità di sviluppo e sperimentazione tecnologica e OT&E (Operational Testing & Evaluation) in microgravità. Thales Alenia Space, inoltre, sta progettando un intero ecosistema lunare. Lavorando su veicoli, infrastrutture orbitali con e senza equipaggio e soluzioni a terra per consentire di arrivare sulla Luna, vivere sulla sua superficie, utilizzandone le risorse a disposizione, l’azienda sta contribuendo al disegno della nuova economia lunare. In particolare, Thales Alenia Space e il suo stabilimento torinese, ha visto negli ultimi anni crescere il suo ruolo nel campo delle infrastrutture orbitanti, contribuendo per oltre il 50% alla realizzazione dei moduli pressurizzati della Stazione Spaziale Internazionale e diventando centro d’eccellenza a livello mondiale in questo campo. Al suo sviluppo hanno dato un contributo fondamentale, realizzando numerosi moduli della “casa orbitante”. Tra i progetti-simbolo ci sono i tre MPLM (Multi-Purpose Logistic Module), i moduli di trasporto merci/persone, il laboratorio europeo Columbus per le ricerche in microgravità; i moduli ATV (Automated Transfer Vehicle), sistemi logistici automatici con carichi massimi di rifornimenti e materiali per gli astronauti fi no a 7.300 chilogrammi; i NODI 2 e 3, elementi che connettono tra loro i moduli pressurizzati della “casa orbitante”, e la CUPOLA, uno speciale osservatorio per consentire agli astronauti a bordo dell’Iss.

Alla missione IXPE con Weisskopf e Soffitta il premio Bruno Rossi 2024

Alla missione IXPE con Weisskopf e Soffitta il premio Bruno Rossi 2024Milano, 10 gen. (askanews) – Il prestigioso premio Bruno Rossi 2024 dell’High Energy Astrophysics Division (HEAD) dell’American Astronomical Society è stato conferito a Martin Weisskopf, Paolo Soffitta e alla Collaborazione scientifica della missione IXPE “per lo sviluppo dell’Imaging X-ray Polarimetry Explorer, le cui nuove misure migliorano la nostra comprensione dell’accelerazione e dell’emissione delle particelle da shock astrofisici, buchi neri e stelle di neutroni”.

Nato dalla collaborazione tra la NASA e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), con il contributo di INAF e INFN e lanciato nel dicembre 2021 IXPE, grazie alle sue nuove, ricche e dettagliate misure sta contribuendo in modo stupefacente alla comprensione dei meccanismi di funzionamento di molti processi che avvengono nel nostro universo. In particolare IXPE ha aggiunto due osservabili, il grado e l’angolo di polarizzazione simultaneamente alla più usuale coordinata spaziale, temporale e all’energia. Questo è alla base del successo di IXPE che ha svolto ricerche importantissime nell’ambito dei fenomeni di accelerazione nelle Pulsar Wind Nebulae più brillanti e nei Blazars. Ha permesso di studiare fenomeni di turbolenza e shocks nei resti di supernovae, mappandone il campo magnetico nelle immediate vicinanze dei siti di accelerazione. L’analisi della polarizzazione risolta in energia ha permesso di studiare il plasma in vicinanza dei più brillanti buchi neri galattici e del centro galattico e in vicinanza di quelli super-massici delle galassie attive.

L’analisi della polarizzazione risolta in fase ha poi, per la prima volta, reso possibile la misura diretta della geometria delle pulsar binarie e di pulsar isolate quali le magnetars, parametri talvolta degeneri delle usuali analisi spettroscopiche e di variabilità temporale. Tutti questi straordinari risultati che IXPE è già riuscito a ottenere nei pochi mesi da cui è entrato in attività sono alla base del prestigioso riconoscimento appena attribuito dall’American Astronomical Society. “IXPE è la dimostrazione di come una idea perseguita da più di trenta anni si sia stata trasformata in una missione di successo grazie alla collaborazione tra Stati Uniti e Italia – ha dichiarato Paolo Soffitta, ricercatore dell’INAF che coordina la Collaborazione scientifica dell’esperimento assieme a Martin Weisskopf – il team internazionale ha visto in Italia la sinergia tra INAF, INFN e il partner industriale OHB-Italia coordinati dall’ Agenzia Spaziale Italiana e le università di Roma Tre e Università di Padova. Il sistema di rivelazione sensibile alla polarizzazione è stato interamente concepito, sviluppato, assemblato testato e calibrato in Italia”.

“La missione IXPE – ha aggiunto Barbara Negri, Responsabile dell’Unità Volo Umano e Sperimentazione Scientifica dell’Asi – è l’ennesima dimostrazione della straordinaria cooperazione tra NASA e ASI in missioni scientifiche di grande prestigio. ASI ha coordinato tutte la attività di sviluppo dei rivelatori innovativi a bordo di IXPE dalla fase di prototipizzazione a quella realizzativa, sulle cui tecnologie aveva già investito da diversi anni e ha contributo al software per l’analisi dei dati scientifici grazie allo Space Science Data Center. Inoltre, ASI partecipa alle attività di ground-segment, avendo messo a disposizione la base di Malindi, come stazione TT&C primaria”. “Il Premio Bruno Rossi – ha spiegato Luca Baldini, responsabile nazionale per l’INFN della missione IXPE – rappresenta un importante riconoscimento internazionale del valore della ricerca italiana, che dimostra ancora una volta la capacità di estendere gli orizzonti della conoscenza creando tecnologie fortemente innovative, in particolare, come INFN fornendo ad IXPE i suoi occhi sensibili alla polarizzazione dei raggi X, i Gas Pixel Detector. Decisive per il successo della missione sono state non solo la visione della nuova tecnica impiegata per la cattura e la ricostruzione dei fotoni, ma anche l’esperienza e la determinazione di tutto il gruppo scientifico nella costruzione di telescopi per lo spazio altamente performanti e affidabili. IXPE e i suoi straordinari risultati testimoniano l’eccellenza della scienza e delle tecnologie che l’Italia è in grado di realizzare”.