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Eso: identificato un quasar da record, il più luminoso mai visto

Eso: identificato un quasar da record, il più luminoso mai vistoRoma, 20 feb. (askanews) – Utilizzando il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO (l’Osservatorio Europeo Australe), alcuni astronomi hanno caratterizzato un quasar brillante, trovando che non solo è il più brillante della sua classe, ma anche l’oggetto più luminoso mai osservato. I quasar sono i nuclei luminosi di galassie distanti e sono alimentati da buchi neri supermassicci. La massa del buco nero di questo quasar da record cresce dell’equivalente di un Sole al giorno, rendendolo il buco nero con la crescita più rapida trovato fino a oggi.


I buchi neri che alimentano i quasars raccolgono la materia dall’ambiente circostante in un processo così energetico da emettere grandi quantità di luce, così che i quasar sono tra gli oggetti più luminosi nel cielo, permettendo che anche quelli distanti siano visibili dalla Terra. Come regola generale, i quasar più luminosi indicano i buchi neri supermassicci che crescono più rapidamente. “Abbiamo scoperto il buco nero con la crescita più rapida finora conosciuto. Ha una massa di 17 miliardi di volte quella del nostro Sole e si nutre con poco più di un Sole al giorno. Questo lo rende l’oggetto più luminoso dell’Universo conosciuto”, afferma Christian Wolf, astronomo dell’Università Nazionale Australiana (ANU) e autore principale dello studio pubblicato su “Nature Astronomy”. Il quasar, chiamato J0529-4351, è così lontano dalla Terra che la sua luce ha impiegato oltre 12 miliardi di anni per raggiungerci.


La materia attirata verso questo buco nero, sotto forma di disco, emette così tanta energia che J0529-4351 è oltre 500 trilioni di volte più luminoso del Sole. “Tutta questa luce proviene da un disco di accrescimento caldo che misura sette anni luce di diametro: deve essere il disco di accrescimento più grande dell’Universo”, afferma Samuel Lai, dottorando all’ANU e coautore dell’articolo. Sette anni luce equivalgono a circa 15.000 volte la distanza dal Sole all’orbita di Nettuno. E, cosa sorprendente, questo quasar da record era solo apparentemente nascosto. “È una sorpresa che sia rimasto sconosciuto fino a oggi, quando conosciamo già un milione circa di quasar meno notevoli. Finora ci ha guardato letteralmente negli occhi!”, dice il coautore Christopher Onken, astronomo dell’ANU. Aggiunge che questo oggetto compare nelle immagini della Schmidt Southern Sky Survey dell’ESO risalente al 1980, ma non è stato riconosciuto come quasar fino a decenni dopo.


Trovare quasar richiede dati osservativi precisi da vaste aree del cielo. Gli insiemi dei dati risultanti sono così grandi – spiega l’Eso – che i ricercatori spesso utilizzano modelli di apprendimento automatico (machine-learning) per analizzarli e distinguere i quasar da altri oggetti celesti. Tuttavia, questi modelli vengono addestrati su dati esistenti, il che limita i potenziali candidati a oggetti simili a quelli già noti. Se un nuovo quasar fosse più luminoso di tutti quelli osservati in precedenza, il programma potrebbe rifiutarlo e classificarlo invece come una stella non troppo distante dalla Terra. Un’analisi automatizzata dei dati del satellite Gaia dell’Agenzia spaziale europea ha escluso J0529-4351 perchè troppo luminoso per essere un quasar, suggerendo invece che fosse una stella. I ricercatori lo hanno identificato come un quasar distante l’anno scorso, utilizzando le osservazioni del telescopio ANU da 2,3 metri di diametro, presso l’Osservatorio di Siding Spring in Australia. Scoprire che si trattava del quasar più luminoso mai osservato, tuttavia, richiese un telescopio più grande e misure effettuate con uno strumento più preciso. Lo spettrografo X-shooter installato sul VLT dell’ESO nel deserto cileno di Atacama ha fornito i dati cruciali.


Il buco nero con la crescita più rapida mai osservato sarà anche un obiettivo perfetto per quando l’aggiornamento di GRAVITY+ installato sull’VLTI (l’interferometro del VLT) dell’ESO, progettato per misurare con accuratezze la massa dei buchi neri, compresi quelli lontani dalla Terra. Inoltre, l’ELT (Extremely Large Telescope) dell’ESO, un telescopio di 39 metri di diametro in costruzione nel deserto cileno di Atacama, renderà ancora più fattibile l’identificazione e la caratterizzazione di tali oggetti sfuggenti. Trovare e studiare i buchi neri supermassicci distanti potrebbe far luce su alcuni dei misteri dell’Universo primordiale, tra cui il modo in cui essi e le galassie che li ospitano si sono formati ed evoluti. Ma non è l’unico motivo per cui Wolf li cerca. “Personalmente, mi piace semplicemente la caccia”, dice. “Per qualche minuto al giorno mi sento di nuovo un bambino, mentre gioco alla caccia al tesoro, mettendo in gioco tutto quello che ho imparato da allora”, conclude. (Crediti: ESO/M. Kornmesser)

Cnr, nave oceanografica Gaia Blu all’avanguardia per studio aerosol

Cnr, nave oceanografica Gaia Blu all’avanguardia per studio aerosolRoma, 15 feb. (askanews) – La nave oceanografica del Consiglio nazionale delle ricerche “Gaia Blu” si arricchisce di un nuovo, innovativo strumento per lo studio dell’atmosfera: il sensore per la stima di proprietà degli aerosol atmosferici Cimel 318-T adattato per il funzionamento automatico e continuo su imbarcazioni, sviluppato nell’ambito di un progetto sostenuto dall’Agenzia spaziale europea (Esa), che permetterà di monitorare la quantità e tipologia di aerosol in ambiente marino.


Il sensore – informa il Cnr – messo a punto da ricercatori del laboratorio AGORA (Laboratoire d’Optique Atmospherique – LOA (CNRS /Universitè Lille 1) and CIMEL Electronique company) dell’Agenzia Spaziale Europea – rappresenta la versione “da nave” di un analogo strumento già operante a Terra, con lo scopo di estendere anche all’oceano le osservazioni delle dinamiche degli aerosol, componente centrale per acquisire informazioni sulla qualità dell’aria e sul clima. Tali studi, ormai di routine in ambiente terrestre, sono ancora rari in ambiente marino a causa della mancanza di strumentazione automatica e di qualità come quella sviluppata dal laboratorio AGORA. L’installazione del fotometro è la prima in Europa e fa di “Gaia Blu” la seconda imbarcazione dotata di questa tecnologia, dopo la “Marion Dufresne” che opera nell’Oceano Indiano. Il fotometro CIMEL 318-T è confacente ai protocolli AERONETs, il network internazionale che da anni studia la comprensione della dinamica degli aerosol in oceano, contribuendo così ad avere predizioni climatiche sempre più accurate. Il progetto è sostenuto dall’Agenzia Spaziale Europea attraverso il programma “Quality Assurance for the Earth Observation”, rientra nell’infrastruttura di ricerca ACTRIS ed è parte della collaborazione a lungo termine Aeronet-Nasa.


La principale innovazione di questa versione del fotometro CIMEL 318-T riguarda l’uso di una bussola GPS che corregge i movimenti della nave. Attraverso la misura frequente e ben risolta di questi parametri (rollio, beccheggio, elevazione e direzione della prua) questo strumento ha una accuratezza sulla posizione di 0.5°. I dati raccolti vanno direttamente all’unità di controllo CIMEL 318-T che rende il dato perfettamente confrontabile con quelli presi a terra da più semplici stazioni fisse. Un’altra innovazione riguarda la protezione dello strumento dalla deposizione di spray e incrostazioni di sale marino che possono comprometterne l’ottica. Queste innovazioni portano la fotometria atmosferica in oceano allo stesso livello di quella da tempo raggiunta a terra nei siti automatici AERONET. L’installazione sulla “Gaia Blu” è stata completata nella seconda settimana di febbraio 2024 nel porto di Napoli: lo strumento è già operativo e i dati disponibili in rete e accompagnerà tutte le attività della nave in mare trasmettendo dati in real-time dopo una elaborazione automatica a bordo, sfruttando la robusta infrastruttura di trasmissione della quale è dotata la nave. Il monitoraggio ottico dell’aerosol avviene ogni tre minuti sia di giorno che di notte, ad esso si aggiungono le misure di radianza (circa 15 al giorno) diffusa, che permettono di raggiungere sofisticate misure delle proprietà microfisiche e ottiche degli aerosol, acquisendo dati unici per l’analisi degli aerosol in Mediterraneo.


(Credits: Benjamin Torres, LOA Cnrs-Univ. Lille)

Spazio, il satellite dell’Asi Agile è rientrato in atmosfera

Spazio, il satellite dell’Asi Agile è rientrato in atmosferaRoma, 14 feb. (askanews) – Dopo 17 anni di onorato servizio, il satellite scientifico dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) Agile(Astrorivelatore Gamma a Immagini LEggero) è rientrato in atmosfera ponendo così fine alla sua intensa attività di cacciatore di sorgenti cosmiche tra le più energetiche dell’Universo che emettono raggi gamma e raggi X. Agile ha rappresentato un programma spaziale unico e di enorme successo nel panorama delle attività spaziali italiane.


Agile è stato realizzato dall’Asi con il supporto dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), di università e dell’industria italiana, con OHB Italia, Thales Alenia Space, Rheinmetall e Telespazio. Inoltre 87.200 orbite intorno alla Terra, – ricordano Asi, Inaf e Infn in una nota – Agile ha monitorato il cielo alle alte energie osservando una grande varietà di sorgenti di raggi gamma galattiche ed extra galattiche, evidenziandone i cambiamenti molto rapidi, frequenti episodi di emissione X e gamma provenienti da stelle di neutroni, resti di esplosioni di Supernovae e buchi neri. Le osservazioni acquisite dal satellite sono state ricevute a terra dalla stazione del Centro spaziale Luigi Broglio dell’Asi a Malindi, in Kenya. I dati sono stati poi ritrasmessi al Centro di controllo di Telespazio, per poi arrivare all’Asi Space Science Data Center (SSDC) di Roma, responsabile di tutte le operazioni scientifiche: dalla gestione, analisi e archiviazione fino alla distribuzione dei dati e dei relativi cataloghi accessibili alla comunità internazionale.


La produzione scientifica di Agile è costituita da più di 800 riferimenti bibliografici, di cui più di 160 articoli con referaggio e 12 cataloghi di missione pubblicati fino a gennaio 2024. Tra le principali scoperte scientifiche di Agile ricordiamo la prima individuazione delle sorgenti di raggi cosmici galattici in resti di Supernovae, l’evidenza di accelerazione di particelle estremamente rapida dalla Nebulosa del Granchio con al centro una pulsar rapidamente ruotante (Premio Bruno Rossi 2012), e l’individuazione di emissione gamma in corrispondenza dell’emissione di getti relativistici dal sistema binario con buco nero galattico Cygnus X-3. Agile inoltre – prosegue la nota – ha fornito una mappatura dell’intera Galassia molto dettagliata e studiato centinaia di sorgenti galattiche ed extra-galattiche. Nel corso della sua vita operativa, Agile ha anche rivelato migliaia di eventi transienti di origine cosmica come Gamma Ray Bursts (GRB), eventi associati a neutrini ed a Fast Radio Burst (FRB), brillamenti solari, nonché eventi di origine terrestre come i Terrestrial Gamma-ray Flashes (TGF). Agile ha contribuito con un ruolo di primo piano alla ricerca delle possibili controparti di sorgenti di onde gravitazionali (GW). Le osservazioni di follow-up di Agile hanno infatti fornito la risposta più rapida e i limiti superiori più significativi sopra i 100 MeV su tutti gli eventi GW rilevati dalla collaborazione Ligo-Virgo-Kagra fino ad oggi.

Scoperta in Italia una delle più rare meteoriti cadute sulla Terra

Scoperta in Italia una delle più rare meteoriti cadute sulla TerraBari, 12 feb. (askanews) – Una meteorite estremamente rara, contenente rarissime leghe metalliche di alluminio e rame e che presenta al suo interno materiali con una simmetria “proibita”: i “quasicristalli”, è stata scoperta di recente in Italia.


Ne parla un articolo pubblicato oggi dalla rivista scientifica Communications Earth & Environment appartenente al gruppo editoriale di Nature-Portfolio. La strana meteorite è stata studiata da un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Bari (Giovanna Agrosì, Daniela Mele, Gioacchino Tempesta e Floriana Rizzo del Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali), in collaborazione con l’Università di Firenze (Luca Bindi e Tiziano Catelani del Dipartimento di Scienze della Terra) e l’Agenzia Spaziale Italiana (Paola Manzari).


Il ritrovamento si è rivelato immediatamente eccezionale: si tratta del terzo caso al mondo di materiale extraterrestre contenente leghe metalliche di questo tipo e il secondo rinvenimento di una micrometeorite contenente un quasicristallo di origine naturale, dopo il ritrovamento della meteorite di Khatyrka, avvenuto nel 2011, grazie ad una costosissima e avventurosa spedizione internazionale che si era spinta fino ai confini dell’estremo Oriente russo, in Chukotka, luogo del ritrovamento della meteorite che le ha dato il nome. La scoperta rappresenta un tipico caso di Citizen Science; infatti, la micrometeorite, avente la forma di una piccola sferula, è stata trovata sul Monte Gariglione in Calabria da un collezionista che, notando una strana e inusuale lucentezza metallica, ha deciso di spedirla agli studiosi dell’Università di Bari per indagare sulla natura di questo oggetto apparentemente inspiegabile. Le analisi effettuate hanno prontamente messo in luce un’incredibile scoperta: la sferula era extraterrestre. La sua singolare lucentezza metallica, dovuta alla presenza di una lega metallica di rame e alluminio, conta rarissimi ritrovamenti precedenti. Gli studiosi sono rimasti impressionati nel constatare di avere tra le mani un elemento mai trovato in natura: un nuovo e rarissimo quasicristallo presente nella meteorite.


“I quasicristalli sono materiali in cui gli atomi sono disposti come in un mosaico, in modelli regolari ma che non si ripetono mai nello stesso modo, diversamente da quello che succede nei cristalli ordinari – ha raccontato Luca Bindi, ordinario di Mineralogia e direttore del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo fiorentino – Fu Dan Shechtman, poi premiato nel 2011 con un Nobel per le sue scoperte, a studiarne negli anni ’80 la struttura, che li rende preziosi anche per applicazioni in vari settori industriali. Quindici anni fa, fui proprio io a scoprire che tale materiale esisteva anche in natura, grazie all’individuazione del primo quasicristallo in un campione appartenente alla meteorite Khatyrka, conservato nel Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze”. La scoperta è decisamente eccezionale per il fatto che si tratta del secondo rinvenimento di una micrometeorite contenete quasicristalli, ma anche per il fatto che la piccola sferula è stata scoperta in Italia meridionale a migliaia di chilometri dal primo ritrovamento ed è stata studiata da un gruppo di ricerca interamente italiano con capofila l’Università di Bari.


“Lo sviluppo delle Scienze Planetarie in Italia meridionale è un punto su cui abbiamo sempre creduto e questa scoperta dimostra come il contributo degli studi geologico-mineralogici siano essenziali per il progresso delle conoscenze sul nostro Sistema Solare”, ha aggiunto Giovanna Agrosì, docente di Mineralogia dell’Università di Bari e coordinatrice dello studio. “I risultati di questa ricerca – ha precisato Paola Manzari dell’Unità di Coordinamento Ricerca e Alta Formazione (UCR) del Centro Spaziale di Matera dell’ASI – mostrano che esiste un universo ancora ignoto di fasi mineralogiche alla nanoscala nei materiali di origine extraterrestre, che riesce ancora a sorprenderci. La scoperta di questa lega anomala in una matrice condritica insieme alla presenza dei quasicristalli, apre nuovi scenari sulle origini del materiale originario da cui si è staccato il frammentino e fornisce nuovi elementi per comprendere i meccanismi di formazione del Sistema Solare”. La preziosissima micrometeorite è attualmente custodita nel Museo di Scienze della Terra dell’Università di Bari, luogo nel quale si è in procinto di allestire una sezione dedicata a campioni extraterrestri. “La scoperta – ha concluso Giuseppe Mastronuzzi, direttore del Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università di Bari- è importantissima non solo per le scienze mineralogiche e planetarie ma anche per la fisica e la chimica dello stato solido; essa dimostra ancora una volta che i quasicristalli possono formarsi spontaneamente in natura e, soprattutto, rimanere stabili per tempi geologici”.

Ricerca, i batteri umani potrebbero sopravvivere su Marte

Ricerca, i batteri umani potrebbero sopravvivere su MarteRoma, 9 feb. (askanews) – Non solo tecnologia, cibo e rifiuti prodotti nei lunghi viaggi spaziali; gli astronauti del futuro potrebbero portare sul Pianeta Rosso anche batteri infettivi in grado di sopravvivere alle condizioni marziane.


Lo suggerisce un nuovo studio pubblicato su “Astrobiology” che ha visto un team di internazionale di biologi ed esperti di malattie infettive esporre, in laboratori terrestri, quattro batteri umani a condizioni simili a quelle marziane. I test – informa Global Science, il quotidiano online dell’Agenzia spaziale italiana – hanno dimostrano che tutti questi batteri sono in grado di resistere all’ambiente estremo di Marte e in un caso su quattro persino di mutare per sopravvivere meglio alle sue dure condizioni. La ricerca sottolinea che, nel caso in cui questi batteri infettivi venissero portati inavvertitamente su Marte da future missioni con equipaggio, la loro capacità di sopravvivere, aumentare numericamente e adattarsi all’ambiente marziano potrebbe rappresentare un serio rischio per la salute degli astronauti.


Serratia marcescens, Pseudomonas aeruginosa, Klebsiella pneumoniae e Burkholderia cepacia: sono questi i nomi dei quattro microrganismi noti per la loro capacità di infettare gli esseri umani che sono stati esposti con successo a condizioni marziane simulate. Il piccolo mondo marziano riprodotto in laboratorio è consistito in una scatola caratterizzata da temperature fredde, un’atmosfera priva di ossigeno e la presenza di radiazioni. In questo ambiente sono stati collocati, uno alla volta, i quattro microrganismi, studiando così la risposta di ciascuno di essi alle singole condizioni simulate.


Ciò che i ricercatori hanno riscontrato è che tutti e quattro i batteri sono sopravvissuti: tre di loro per 21 giorni, mentre uno, P. aeruginosa, è sembrato in grado di moltiplicarsi e prosperare. Una crescita che si è manifestata potenziata nel momento in cui nella scatola è stata aggiunta una base sabbiosa simile alla regolite marziana. I risultati della ricerca – conclude Global Science – pongono così l’attenzione sulla salute umana con due chiavi di lettura complementari: da una parte sottolinea il rischio per la salute degli astronauti impegnati in lunghi viaggi spaziali e in future esplorazioni su Marte; dall’altra, lancia la preoccupazione che questi microrganismi possano evolversi e adattarsi all’ambiente marziano e riuscire poi a tornare sulla Terra attraverso le missioni di ritorno, rappresentando così un nuovo potenziale rischio per la sicurezza umana e planetaria.

La navetta Crew Dragon Freedom con Villadei si è sganciata dall’Iss

La navetta Crew Dragon Freedom con Villadei si è sganciata dall’IssMilano, 7 feb. (askanews) – È ufficialmente cominciato, dopo oltre 2 settimane in orbita, il rientro sulla Terra della missione spaziale privata Ax-3 della società privata americana Axiom Space, di cui fa parte anche l’astronauta italiano Walter Villadei, Colonnello dell’Aeronautica Militare, a cui la Difesa italiana ha affidato “Voluntas”, prima missione spaziale commerciale per il nostro Paese.


Dopo un rinvio di 2 giorni a causa delle cattive condizioni meteo, la navetta si è sganciata dalla Stazione Spaziale Internazionale alle 15.19 ora italiana. L’ammaraggio, al largo delle coste della Florida, è previsto circa 47,5 ore dopo l’undocking, venerdì 9 febbraio 2024. La missione Ax-3 è la prima missione spaziale commerciale con un equipaggio interamente composto da astronauti di origine europea; il comandante è Michael Lopez-Alégria con doppia cittadinanza americana e spagnola e il pilota della navetta è l’italiano Villadei a cui si aggiungono gli specialisti di missione Alper Gezeravci, primo astronauta turco e lo svedese Marcus Wandt, astronauta della riserva Esa.

Esa, il satellite ERS-2 sta per rientrare nell’atmosfera terrestre

Esa, il satellite ERS-2 sta per rientrare nell’atmosfera terrestreRoma, 7 feb. (askanews) – Il satellite europeo di telerilevamento ERS-2, dopo 16 anni di onorato servizio, si appresta a rientrare nell’atmosfera terrestre e disintegrarsi in gran parte, seguito nel suo percorso dall’Agenzia spaziale europea che nel 2011 ne ha decretato la fine operativa iniziando un processo di abbassamento dell’orbita in vista del rientro in atmosfera che l’Esa stima possa avvenire intorno al 19 febbraio.


ERS-2 è stato lanciato nel 1995 in seguito al satellite gemello ERS-1, lanciato quattro anni prima. Al momento del lancio, i due satelliti ERS erano tra i più sofisticati satelliti di osservazione della Terra mai sviluppati. Entrambi i satelliti – informa l’Esa – trasportavano un impressionante pacchetto di strumenti tra cui un radar ad apertura sintetica per immagini, un altimetro radar e altri potenti sensori per misurare la temperatura della superficie oceanica e i venti sul mare. ERS-2 aveva anche un sensore aggiuntivo per misurare l’ozono atmosferico. Questi rivoluzionari satelliti dell’Esa hanno raccolto una quantità di dati sul ghiaccio polare in diminuzione, sul cambiamento delle superfici terrestri, sull’innalzamento del livello del mare, sul riscaldamento degli oceani e sulla chimica atmosferica. Inoltre, sono stati chiamati a monitorare disastri naturali come gravi inondazioni e terremoti in remote parti del mondo.


Le varie tecnologie pionieristiche utilizzate nel satellite ERS hanno posto le basi per missioni successive come la missione Envisat, i satelliti meteorologici MetOp, l’odierna famiglia di missioni di ricerca scientifica Earth Explorer e le Sentinelle Copernicus e molte altre missioni satellitari nazionali, aprendo la strada alle osservazioni di routine che vengono effettuate oggi. Ad esempio, il radar ERS è stato il precursore del radar nell’odierna missione Copernicus Sentinel-1, il suo altimetro radar ha fornito al sensore della missione Earth Explorer CryoSat l’eredità per mappare i cambiamenti nello spessore del ghiaccio e il radiometro ERS continua a vivere nella versione evoluta imbarcata su Copernicus Sentinel-3. Il Global Ozone Monitoring Experiment (GOME) di ERS-2 è stato il precursore di SCIAMACHY su Envisat e GOME-2 su MetOp. Quando è stato lanciato ERS-2, la nozione di cambiamento climatico era molto meno conosciuta e compresa di oggi, – osserva Esa – ma le missioni ERS hanno fornito agli scienziati i dati che ci hanno aiutato a iniziare a comprendere l’impatto che gli esseri umani stanno avendo sul pianeta. Migliaia di articoli scientifici sono stati pubblicati sulla base dei dati ERS, e grazie al programma spaziale Heritage di EsA, che garantisce che i dati dei satelliti ora inattivi continuino ad essere migliorati e utilizzati, emergeranno ancora ulteriori scoperte sul cambiamenti del nostro pianeta e sui rischi che corriamo.


ERS-2 era ancora in funzione quando l’Agenzia spaziale europea dichiarò completata la missione nel 2011 e successivamente iniziò ad abbassare la sua altitudine da circa 785 km a 573 km per ridurre al minimo il rischio di collisione con altri satelliti a dimostrazione del forte impegno dell’Agenzia per ridurre i detriti spaziali. Dopo 13 anni di decadimento orbitale, guidato principalmente dall’attività solare, il satellite ora rientrerà naturalmente nell’atmosfera terrestre. Questo dovrebbe avvenire intorno alla metà di febbraio, con previsioni che saranno sempre più precise man mano che ci si avvicina al rientro. L’Ufficio Esa per il monitoraggio e controllo dei “detriti spaziali” sta, ovviamente, monitorando molto da vicino il decadimento dell’orbita del satellite di ERS-2 in coordinamento con diversi partner internazionali e fornirà aggiornamenti regolari nei giorni che precedono il rientro sia sulla pagina delle previsioni di rientro dell’Esa che sul blog Rocket Science. (Credits: ESA)

Antartide, al via la missione invernale presso la base Concordia

Antartide, al via la missione invernale presso la base ConcordiaRoma, 6 feb. (askanews) – È appena iniziata presso la base italo-francese Concordia sul plateau antartico, a oltre 3mila metri di altezza e a 1.200 chilometri dalla costa, la 20a campagna invernale del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) e gestito dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) per il coordinamento scientifico, dall’Enea per la pianificazione e l’organizzazione logistica delle attività presso le basi antartiche e dall’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale – OGS per la gestione tecnica e scientifica della sua nave da ricerca Laura Bassi.


A trascorrere nove mesi a Concordia in completo isolamento per via della temperatura, che durante l’inverno australe può raggiungere anche i -80 gradi, – informa una nita – sarà un team selezionato di 13 ‘invernanti’: 6 del PNRA, 6 dell’Istituto polare francese Paul Emile Victor (Ipev) e un medico dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). La squadra porterà avanti attività legate a 29 progetti italo-francesi di climatologia, glaciologia, fisica e chimica dell’atmosfera e biomedicina, realizzando anche attività di manutenzione della stazione. Mentre a Concordia si apre la stagione invernale, chiude, a Baia Terra Nova, la stazione costiera Mario Zucchelli, che riaprirà il prossimo ottobre con l’arrivo del contingente della nuova spedizione estiva. La 39a campagna estiva ha coinvolto, tra le basi Mario Zucchelli, Concordia e la nave Laura Bassi, 130 tra ricercatori e tecnici impegnati in 31 progetti di ricerca su scienze dell’atmosfera, geologia, paleoclima, biologia, oceanografia e astronomia. I dati raccolti saranno elaborati e analizzati nei laboratori di diversi enti di ricerca e università italiane.


La spedizione è stata supportata anche dalle Forze Armate che hanno partecipato con 16 esperti militari di Esercito, Marina, Aeronautica e Arma dei Carabinieri, impegnati ad affiancare sul campo i ricercatori. Le attività della 39a campagna estiva proseguono fino a marzo sulla Laura Bassi, che nel Mare di Ross sta portando avanti tre progetti di ricerca sullo studio delle dinamiche fisiche e biogeochimiche di specifiche aree antartiche. La chiusura della spedizione estiva presso le basi coincide anche con la conclusione della 3a campagna di perforazione del progetto internazionale Beyond EPICA-Oldest Ice, coordinato dall’Istituto di scienze polari del Cnr al quale partecipano per l’Italia anche l’Università Ca’ Foscari Venezia e l’Enea, che gestisce le attività logistiche insieme all’Ipev. Il progetto mira a tornare indietro nel tempo di 1,5 milioni di anni per ricostruire le temperature del passato e le concentrazioni di gas serra, attraverso l’analisi di una carota di ghiaccio estratta dalle profondità della calotta glaciale. Alla fine di questa stagione di perforazione il team ha raggiunto una profondità di 1836,18 metri, mentre sono stati processati 1367 metri di carote di ghiaccio, inviate alla Stazione Mario Zucchelli per raggiungere l’Europa.


“Nel corso di questa 39a campagna estiva abbiamo visto in azione 31 progetti di ricerca dai quali ci aspettiamo di ricavare rilevanti dati scientifici nel campo delle scienze dell’atmosfera, della geologia, paleoclimatologia, biologia, oceanografia e astronomia”, afferma Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di scienze polari del Cnr. “Continueremo a ricevere dati dai sistemi di acquisizione automatici, dagli osservatori permanenti e dalla nave Laura Bassi, che lascerà la zona antartica solo a inizio marzo. Uno sforzo importante che ha messo in luce come l’azione coordinata di università ed enti di ricerca supportata dalla logistica possa produrre scienza ad altissimo livello”. “Anche quest’anno tutti gli obiettivi programmati sono stati raggiunti, grazie al supporto del personale tecnico e scientifico che ha operato in Antartide, ma anche grazie al contribuito di quanti hanno lavorato dall’Italia pianificando le diverse attività e garantendo tutti gli approvvigionamenti necessari”, commenta Elena Campana, responsabile dell’Unità Tecnica Antartide dell’Enea.

Oltre la metà degli italiani che usano l’AI ne presenta il lavoro come proprio

Oltre la metà degli italiani che usano l’AI ne presenta il lavoro come proprioRoma, 6 feb. (askanews) – In un’era in cui la tecnologia sta guidando il cambiamento, l’indagine “Le promesse e le insidie dell’intelligenza artificiale sul lavoro” condotta da Salesforce, l’AI CRM numero uno al mondo, rivela un’affascinante dualità nell’adozione dell’intelligenza artificiale generativa tra i lavoratori italiani. Il fascino di questa nuova tecnologia, sottolinea una nota, ha avvolto il mondo del lavoro, portando con sé sfide etiche e culturali.


Adozione dell’AI: spicca la differenza tra generazioni Il 17% dei lavoratori italiani sta già sperimentando questa innovazione sul luogo di lavoro e il 32% prevede di integrare presto l’AI nelle proprie attività. La scoperta più sorprendente? Ben la metà (54%) presenta il lavoro dell’AI come proprio, una tendenza che è particolarmente evidente tra le generazioni più giovani della Gen Z, con quattro su cinque (79%) che scelgono questa “scorciatoia”, e tra i Millennial, di cui tre su cinque (63%) seguono la stessa strada. I Baby Boomer, al contrario, si mostrano notevolmente più cauti, con solo uno su quattro (24%) che rivendica il lavoro dell’intelligenza artificiale come proprio. Niente divieti assoluti, ma mancanza di policy condivise in tema di AI: ma la sorpresa più grande arriva dalle politiche aziendali: il 42% dei lavoratori italiani dichiara di non avere ricevuto linee guida aziendali chiare sull’utilizzo dell’AI. Un vuoto normativo che solleva questioni importanti, soprattutto considerando il 49% dei lavoratori italiani utilizza l’intelligenza artificiale generativa senza l’approvazione formale dei propri datori di lavoro.


Dall’indagine emerge infatti che questi problemi non derivano tanto da policy rigorose o divieti assoluti sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale, piuttosto dalla mancanza di policy condivise a riguardo. Sebbene le aziende italiane risultino più strutturate rispetto ad altri paesi sulle linee di condotta dei propri dipendenti, manca ancora un’opinione forte sull’utilizzo dell’AI a lavoro. L’85% dei lavoratori italiani intervistati afferma che la propria azienda non abbia ancora politiche chiaramente definite circa l’utilizzo dell’intelligenza artificiale generativa e il 42% evidenzia che non ce ne siano affatto. Ostacoli e mancanza di formazione: le sfide dell’AI generativa in Italia. L’84% dei lavoratori intervistati riconosce nelle aziende italiane che ci siano ostacoli per un utilizzo consapevole dell’AI generativa per fini professionali. A livello globale, il 70% dei lavoratori non ha ancora ricevuto una formazione completa sull’utilizzo etico e sicuro degli strumenti di intelligenza artificiale generativa. In Italia, solo il 23% sostiene di aver ricevuto una formazione adeguata.


Ma con il 32% dei lavoratori italiani che prevede di integrare presto l’AI nelle proprie attività, è chiaro che la diffusione di questa tecnologia sarà inevitabile. Per sfruttarne appieno il potenziale, investire nella formazione dei dipendenti è cruciale, permettendo loro di affrontare i rischi e di abbracciare le opportunità che l’IA offre al percorso professionale. “I lavoratori italiani non solo abbracciano l’intelligenza artificiale generativa senza il benestare formale delle loro aziende, ma lo fanno con la consapevolezza che l’utilizzo etico di questa tecnologia richiede programmi ufficialmente approvati”, commenta Vanessa Fortarezza, Country Leader di Salesforce per l’Italia. “Le aziende del nostro Paese dovrebbero quindi investire in strumenti di intelligenza artificiale generativa sicuri, etici e affidabili, perché i loro dipendenti sentono la necessità di dover restare al passo con i tempi ricevendo un’adeguata formazione che promuova la loro crescita professionale e la fiducia all’interno dell’azienda stessa”.


Questi dati non solo svelano un affascinante dietro le quinte dell’adozione dell’AI, ma sollevano interrogativi importanti su come le aziende stanno affrontando questa rivoluzione silenziosa nel mondo del lavoro. La chiarezza delle politiche aziendali, la formazione etica e la consapevolezza saranno chiavi per guidare la forza lavoro verso un futuro in cui l’intelligenza artificiale generativa sia un alleato, non un misterioso compagno di lavoro.

Cattolica: ecco naso elettronico che certifica qualità e provenienza vino

Cattolica: ecco naso elettronico che certifica qualità e provenienza vinoRoma, 5 feb. (askanews) – Costruire un naso elettronico per controllare cibo e bevande. È stato questo l’obiettivo del progetto di ricerca di Sonia Freddi, postdoctoral researcher e referente del progetto d’Ateneo “Dalle nanostrutture all’intelligenza artificiale: un naso elettronico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio vitivinicolo”, finanziato con i fondi del 5×1000 dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.


L’analisi delle componenti volatili – spiega una nota – è un metodo efficiente per ottenere informazioni riguardo la composizione chimica di fluidi e solidi e questa analisi può essere potenzialmente applicata in svariati campi, inclusi il controllo della qualità, della freschezza e dell’origine di prodotti alimentari. Infatti, cibi e bevande emettono particolari molecole di gas che possono indicare se un prodotto è fresco o deteriorarato, o possono rivelare la provenienza di determinati alimenti. Se si riesce a tracciare la presenza di queste componenti gassose considerate biomarcatori di freschezza, origine e qualità, è possibile accertare in modo rapido e semplice queste caratteristiche. Nel dettaglio, il progetto di ricerca è volto alla realizzazione di piattaforme di sensori a base di nanotubi di carbonio e grafene, in grado di rilevare specifiche molecole di gas. Questo perché il vino è caratterizzato da particolari componenti organolettiche e volatili, circa 800 diverse componenti, che identificano non soltanto la sua composizione chimica o la tipologia d’uva utilizzata per produrre quel vino, ma possono essere indicative anche per tracciarne la provenienza e controllarne l’origine.


Negli ultimi anni, l’industria vinicola ha cercato tecniche sempre più rapide e affidabili per controllare soprattutto l’origine di quei vini identificati come di Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG) o di denominazione di origine controllata (DOC) e l’analisi delle componenti volatili tramite l’utilizzo di un naso elettronico, grazie alla sensibilità elevata dei sensori, alla risposta rapida e alla facilità di utilizzo, oltre che alla capacità di riconoscere numerose componenti attraverso metodi di analisi multivariata e costi contenuti, è una tecnica che sta prendendo sempre più piede in questo ambito. Il naso elettronico si è dimostrato in grado sia di riconoscere la freschezza e l’adulterazione di un generico vino bianco (in dettaglio, in uno spazio 2D delle componenti principali, si trova un trend in funzione della freschezza del vino, appena aperto, dopo una settimana e dopo mesi dall’apertura della bottiglia), sia di riconoscere con buona precisione i vari vini che sono stati testati (in dettaglio, ciascun vino testato clusterizza in regioni differenti di uno spazio 2D delle componenti principali). Questi risultati preliminari confermano la fattibilità di utilizzare il naso elettronico sviluppato per monitorare la freschezza di un vino e la sua origine, aprendo la strada a possibili test in cantine o aziende vitivinicole.