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IIT porta al G7 Salute il prototipo del piede artificiale SoftFoot Pro

IIT porta al G7 Salute il prototipo del piede artificiale SoftFoot ProGenova, 11 lug. (askanews) – Un piede artificiale caratterizzato da una particolare struttura bioispirata, in grado di deformarsi e adattarsi autonomamente agli ostacoli e ai cambi di pendenza: è il SoftFoot Pro progettato dall’Unità Soft Robotics for Human Cooperation and Rehabilitation dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Il prototipo del piede artificiale è stato presentato per la prima volta nel corso dell’evento tecnico del G7 Salute – organizzato dal ministero della Salute in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia – che si è tenuto a Genova. Alla presenza del ministro della Salute Orazio Schillaci, e dei partecipanti all’incontro internazionale, nell’ area espositiva allestita da IIT all’evento, si è svolta una dimostrazione pratica delle caratteristiche e funzionalità del SoftFoot Pro con l’ausilio del tester che ha collaborato con il team di ricerca. SoftFoot Pro è un prototipo unico a livello internazionale e intende collocarsi trasversalmente come protesi tecnologica sia per le persone con disabilità sia come soluzione all’avanguardia per i robot umanoidi del futuro. Diversi aspetti del suo design hanno ottenuto due brevetti internazionali e un terzo brevetto è in fase di valutazione da parte dell’ufficio brevetti Europeo. “Osservando camminare le persone con protesi di piede e i robot umanoidi nei nostri laboratori, abbiamo notato un incedere poco fluido dovuto anche alla caratteristica pianta piatta e rigida dei piedi di entrambi, sviluppati per garantire massimo appoggio, ma incapaci di adattarsi al variare della pendenza, della conformazione del terreno e alle diverse pose come inginocchiarsi o piegarsi” spiega Manuel G. Catalano, ricercatore presso il Laboratorio SoftBots di IIT. Da qui l’idea del team Softbots di IIT, coordinato da Antonio Bicchi, di sviluppare, in collaborazione con il Centro E. Piaggio dell’Università di Pisa, SoftFoot Pro, un piede protesico senza motori, ispirato all’anatomia del piede degli esseri umani, caratterizzato da una particolare struttura in grado di deformarsi e adattarsi autonomamente agli ostacoli e ai diversi tipi di superficie, per far fronte alle esigenze della vita di tutti i giorni, migliorando la naturalezza del passo e la stabilità del soggetto anche su superfici non perfettamente lisce. SoftFoot Pro è composto da un meccanismo ad arco in titanio, le cui estremità sono collegate da 5 catene di materiale plastico ad alta resistenza disposte in parallelo tra loro a simulare la struttura ossea dei piedi degli esseri umani, attraversate longitudinalmente da un cavo ad alte performance meccaniche, raccordate a livello del tallone. Ogni catena è caratterizzata da più moduli collegati gli uni agli altri da una coppia di elastici.


Caratteristica peculiare di SoftFoot Pro sono le componenti elastiche che uniscono il corrispettivo artificiale di tarso, metatarso e falangi, costituendo l’equivalente della fascia plantare del piede degli esseri umani. Questa specifica architettura permette di replicare il meccanismo di windlass, cioè il meccanismo “verricello” che permette, attraverso un progressivo irrigidimento della fascia plantare, di scaricare uniformemente sul terreno la forza applicata durante il passo. Questo aspetto risulta fondamentale per la deambulazione di chi indossa SoftFoot Pro, perché concorre a rendere più efficiente la propulsione in avanti durante il passo, restituendo energia durante l’ultima fase dell’appoggio, con l’avampiede in contatto con il terreno. Allo stesso tempo gli elastici permettono anche di ammortizzare l’impatto del piede con il terreno, assorbendo all’incirca fra il 10% e il 50% del ciclo del passo. Inoltre, la libertà di movimento degli elementi distali che compongono ogni catena a mo’ di falange, permette di aumentare la presa al variare della pendenza del terreno, aumentando la sicurezza percepita da chi indossa Soft Foot Pro in salita e in discesa. Infine, i movimenti di inarcamento della pianta del piede e del dorso del piede, uniti alla flessibilità delle dita, riproducono perfettamente pose naturali assunte dai piedi e consentono di compiere semplici gesti di vita quotidiana come salire e scendere le scale, chinarsi ad allacciarsi la scarpa o raccogliere qualcosa da terra, con maggior naturalezza rispetto alle soluzioni esistenti, senza perdere l’equilibrio e senza dover ricorrere a soluzioni alternative meno spontanee come il cambio di protesi esplicitamente concepite per specifiche attività. L’insieme di queste caratteristiche consente anche la riduzione dei meccanismi di compensazione nell’arto protesizzato residuo e nel controlaterale sano, con un’associata diminuzione della fatica durante la camminata.


SoftFoot Pro è completamente water proof, garantendo quindi massima performance anche nei contesti ricreativi all’aperto come prati, spiagge e su terreni sdrucciolevoli dove comunemente è più difficile mantenere l’equilibrio per coloro che indossano protesi. Pesa circa 450 grammi e può sopportare capacità di carico fino ai 100 chili. Diversi prototipi di SoftFoot Pro sono già stati testati da persone con amputazioni monolaterali di arto inferiore all’interno di collaborazioni internazionali con l’Hannover Medical School (MHH, Hannvoer, Germania) e con la Medical University of Vienna (MUV, Vienna, Austria), nell’ambito di diversi progetti Europei ed in particolare del progetto europeo ERC Synergy: Natural Bionics.


“Ad oggi il dispositivo è in fase di test in laboratorio e in contesti realistici, per valutarne le performance e i possibili sviluppi futuri. – conclude Manuel Catalano, ricercatore IIT – Stiamo lavorando all’ottimizzazione di peso, dimensioni ed efficienza energetica e all’introduzione di motori appositamente progettati per migliorare ulteriormente la fluidità della camminata, sia nelle applicazioni protesiche che in quelle dei robot umanoidi attualmente in fase di studio presso i laboratori di IIT”.

G7, Bernini: al via lavori dei ministri su scienza e tecnologia

G7, Bernini: al via lavori dei ministri su scienza e tecnologiaBologna, 10 lug. (askanews) – Ha preso il via a Bologna, nella sede del Tecnopolo dove è custodito il Super computer di calcolo “Leonardo” e dove ha sede il Centro europeo per le previsioni meteo a medio termine, la seconda giornata del G7 scienza e tecnologia, quella caratterizzata dai lavori dei ministri dell’Università e della ricerca di Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Germania, Francia e Giappone. Al summit partecipa anche l’Unione Europea, rappresentata dai presidenti di Consiglio e Commissione europei. A fare gli onori di casa il ministro dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini che ha accolto i ministri prima della per la “foto di famiglia”.


La delegazione è arrivata a Bologna ieri per una visita al Museo della Ducati Motor a Borgo Panigale prima della serata in forma privata con la cena a Villa Guastavillani. In mattinata, invece, è atteso il discorso di apertura della presidenza italiana da parte della ministra Bernini. L’agenda dei lavori sarà suddivisa in sessioni tra oggi e domattina, ciascuna focalizzata su alcuni temi prioritari individuati dalla Presidenza italiana: sicurezza ed integrità della ricerca scientifica, scienza aperta e comunicazione scientifica; grandi infrastrutture di ricerca; cooperazione con l’Africa nei settori della ricerca e dell’innovazione; ricerca su tecnologie nuove ed emergenti, energia nucleare e spazio; protezione dei mari e dell’oceano e della loro biodiversità. Durante la giornata sono previsti gli interventi di personalità di spicco del settore. Fra loro, Maria Leptin, presidente dello European research council, Fabiola Gianotti, direttore generale del Cern di Ginevra, e Tzhilidzi Marwala, rettore dell’università delle Nazioni Unite nonché sottosegretario generale dell’Onu che interverranno, rispettivamente, su sicurezza e integrità della ricerca, grandi infrastrutture e tecnologie emergenti.


Al focus sulla cooperazione con l’Africa, invece, saranno presenti l’Unione Africana, rappresentata dal Commissario per Istruzione, scienza e tecnologia Mohamed Belhocine, e l’Unesco on il direttore generale aggiunto per l’Istruzione, Stefania Giannini. Nel pomeriggio la delegazione si trasferirà a Forlì per assistere al concerto dell’Orchestra Sinfonica dei Conservatori Italiani all’Abbazia San Mercuriale.

Studio IIT-EMBL: nuove molecole per modulare l’espressione dei geni

Studio IIT-EMBL: nuove molecole per modulare l’espressione dei geniMilano, 2 lug. (askanews) – Il corretto funzionamento delle cellule dipende in larga misura dalla capacità di controllare l’espressione dei geni – un processo complesso attraverso il quale le informazioni contenute nel DNA vengono copiate nell’RNA per dare origine a tutte le proteine e alla maggior parte delle molecole regolatrici della cellula. Se immaginiamo il DNA come un voluminoso manuale tecnico, l’espressione genica è il metodo con cui la cellula estrae da esso le informazioni utili.I ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, e del Laboratorio Europeo di Biologia Molecolare (EMBL) di Grenoble hanno svelato come questo processo può essere modulato utilizzando piccole molecole. Lo studio pone le basi per l’individuazione in futuro di possibili farmaci che agiscano direttamente su mutazioni o modificazioni genetiche che alterano il processo di espressione dei geni, intervenendo così sull’insorgenza di tumori o malattie genetiche.


Il lavoro di ricerca è stato pubblicato su “Nature Communications” ed è stato coordinato da Marco De Vivo, principal investigator del Molecular Modeling & Drug Discovery Lab e associate director per la Computazione dell’IIT a Genova, e da Marco Marcia, group leader all’EMBL di Grenoble. Il risultato è stato ottenuto sfruttando le competenze dell’EMBL e della Partnership per la Biologia Strutturale di Grenoble in biochimica, biofisica e biologia strutturale, attraverso cui si sono ottenute delle fotografie a raggi-X del processo; lo strumento utilizzato è stato la beamline altamente automatizzata MASSIF-1, dell’EMBL e dello European Radiation Synchrotron Facility (ESRF). Queste competenze sono state integrate da quelle di simulazione computazionale dell’IIT, grazie a cui è stato possibile studiare i dettagli delle interazioni chimico-fisiche tra le molecole coinvolte. Lo studio si è concentrato sullo splicing, uno dei livelli chiave di controllo del processo di espressione genica. Lo splicing è un processo mediante il quale le macchine molecolari nella cellula “tagliano e incollano” sequenze specifiche di RNA per crearne versioni funzionali. Queste versioni “mature” dell’RNA svolgono varie funzioni nella cellula, tra cui quella di fungere da istruzioni per la produzione di proteine o direttamente da regolatori di vari processi cellulari. “Studiare la reazione di splicing dell’RNA, ovvero il ‘taglia e cuci’, è molto complesso sia per le reazioni chimiche che per gli attori molecolari coinvolti, quali l’RNA, le proteine, gli ioni e le molecole di acqua. Grazie a tecniche moderne di simulazione molecolare abbiamo ottenuto una comprensione dettagliata di quello che accade, e di come si puo’ intervenire per modulare lo splicing. Il nostro studio ci ha gia’ permesso di sintetizzare nuove molecole simili a farmaci in grado di modulare lo splicing in un nuovo modo, specifico e molto efficace”, commenta Marco De Vivo.


Infatti, i ricercatori dell’IIT e dell’EMBL, con il supporto di EMBLEM – l’ufficio dell’EMBL dedicato al trasferimento di tecnologia – e dell’ufficio brevetti dell’IIT, hanno anche depositato un brevetto che descrive nuovi composti chimici modulatori dello splicing. In futuro, migliorando ulteriormente tali composti potrebbe diventare possibile modulare la produzione di proteine che originano da geni difettosi o mutati. “Visualizzare a livello atomico la modulazione dello splicing è emozionante – dice Marco Marcia – Ci permette di controllare una delle reazioni fondamentali che permettono la vita. In futuro, continuando ad integrare i nostri studi biologici sperimentali, con quelli chimici e computazionali dei nostri collaboratori, mireremo ad un obiettivo ambizioso, quello di sviluppare nuovi farmaci antibatterici e antitumorali”.


La ricerca aderisce anche all’iniziativa RNA Flagship dell’Istituto Italiano di Tecnologia dedicata allo sviluppo e all’applicazione di nuove tecnologie a base di RNA. (nella foto: Marco De Vivo, principal investigator del Molecular Modeling & Drug Discovery Lab e associate director per la Computazione dell’IIT a Genova)

I robot umanoidi percepiti come agenti sociali: uno studio IIT

I robot umanoidi percepiti come agenti sociali: uno studio IITGenova, 27 giu. (askanews) – Se il robot è percepito come “un agente intenzionale e sociale” – anziché come un dispositivo meccanico – le persone con lui interagiscono impegnati su di una attività specifica lo considerano come co-autori dei risultati delle loro azioni. E’ quanto viene dimostrato in uno studio portato avanti da un gruppo di ricerca dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e pubblicato su Science Robotics. Lo studio apre la strada alla comprensione e alla progettazione delle condizioni ottimali per la collaborazione tra umani e robot nello stesso ambiente.


Il requisito chiave che rende possibile questo fenomeno da parte dele persone è che il robot che abbia un comportamento simile a quello umano, con aspetti di socialità, quali nello specifico stabilire un contatto visivo, e possa partecipare a una stessa esperienza emotiva, come per esempio guardare un film. Lo studio di ricerca coordinato da Agnieszka Wykowska, direttrice del laboratorio “Social Cognition in Human-Robot Interaction” dell’IIT di Genova, e beneficiaria di un finanziamento dell’European Research Council (ERC) per il progetto intitolato “Intentional Stance for Social Attunement”, che affronta la questione di quando e in quali condizioni le persone trattano i robot come agenti intenzionali. Uma Navare, prima autrice dell’articolo e ricercatrice membro del team di Wykowska, ha condotto lo studio utilizzando strumenti di misura del comportamento e registrando le risposte neurali dei partecipanti tramite elettroencefalografia. I dati raccolti sono stati necessari a valutare l’emergere di un meccanismo di senso di controllo dell’azione condiviso tra gli esseri umani e il robot umanoide iCub.


“Gli esseri umani non agiscono in un vuoto sociale e la maggior parte delle nostre azioni richiede coordinazione con altri nello spazio e nel tempo per raggiungere un obiettivo. Un aspetto cruciale dell’interazione con gli altri è l’esperienza di quello che viene chiamato senso di azione condiviso – spiega Agnieszka Wykowska – Nel nostro studio di ricerca abbiamo scoperto che gli esseri umani sperimentano questo senso di azione condiviso con il partner robotico, quando il robot è presentato come un agente intenzionale, ossia quando il suo comportamento è simile a quello di un essere umano, ma non quando il robot è mostrato come un artefatto meccanico”. Il senso di azione condiviso si riferisce alla sensazione di controllo che gli esseri umani sperimentano sia per le proprie azioni che per quelle del loro partner, sottolineando così la costituzione di una squadra. Il gruppo di ricerca dell’IIT ha affrontato tale questione, prima identificandone i meccanismi nelle interazioni tra gli esseri umani e poi verificando se risposte simili fossero presenti nell’interazione tra umani e robot umanoidi. Nello specifico, è stato sviluppato un compito interattivo in cui esseri umani e robot dovevano coordinarsi al fine di raggiungere un obiettivo condiviso. Il compito consisteva nell’alternarsi nel muovere un cursore sullo schermo verso una posizione di arrivo e poi confermare la posizione del cursore sopra di essa, attivando così un suono.


Il gruppo di ricerca ha svolto due esperimenti, durante i quali ha manipolato la possibilità o meno di attribuzione di intenzionalità nei confronti del robot umanoide iCub. Nel primo esperimento, iCub ha eseguito un compito meccanicamente, portando i partecipanti a vederlo come un artefatto meccanico. Nel secondo esperimento, i partecipanti hanno prima interagito con iCub in modo da aumentare la probabilità di attribuirgli intenzionalità: vi è stato un dialogo, uno scambio di sguardi e la visione di un video insieme, durante cui iCub ha mostrato risposte emotive simili a quelle umane. Questo mirava a far percepire iCub ai partecipanti come più intenzionale e simile a un essere umano. I ricercatori hanno scoperto che solo nel secondo esperimento gli esseri umani hanno provato un senso di azione condiviso con il robot, evidenziato sia nelle risposte comportamentali che in quelle neuronali. (nella foto: un momento dell’esperimento condotto con il robot umanoide iCube)

Ricerca, dai canti dei lemuri del Madagascar alla musica umana

Ricerca, dai canti dei lemuri del Madagascar alla musica umanaRoma, 27 giu. (askanews) – Un lemure che comunica con i suoi vicini grazie ad un canto ritmico dimostra come gli esseri umani si siano evoluti per creare musica. È quanto emerge dall’articolo “Isochrony as ancestral condition to call and song in a primate”, pubblicato sulla rivista Annals of the New York Academy of Sciences da un team di ricercatori dell’Università di Torino, in collaborazione con i colleghi delle università di Warwick e Roma La Sapienza.


Gli studiosi – informa UniTo – hanno analizzato i comportamenti degli Indri, una specie di lemure che vive in piccoli gruppi familiari nella foresta pluviale del Madagascar e comunica utilizzando canti, come fanno gli uccelli e gli esseri umani. Le loro vocalizzazioni ritmiche, registrate in diverse aree forestali dal 2005 al 2020, vengono utilizzate anche come richiami di allarme per avvisare i membri della famiglia riguardo la presenza di predatori. I ricercatori hanno studiato gli indri grazie al centro di ricerca che l’Università di Torino ha creato nella foresta di Maromizaha, scoprendo che la comunicazione di questa specie è caratterizzata da isocronia, cioè da tempi uguali tra un suono e l’altro o tra una nota e l’altra. Questi suoni creano una successione costante di eventi a intervalli regolari, dando vita a un ritmo costante, proprio come accade nella musica.


“Isolando le note e gli intervalli tra le note in 820 canti e richiami di allarme di 51 lemuri, abbiamo calcolato i rapporti ritmici per ogni coppia di intervalli consecutivi. Un rapporto di 0,5 significa isocronia”, dichiara Chiara De Gregorio, già Dottoranda dell’Università di Torino e ora ricercatrice all’Università di Warwick. L’analisi ha rivelato che l’isocronia è presente in tutti i canti e i richiami di allarme, stabilendo che è un aspetto fondamentale della comunicazione degli indri. Inoltre, un tipo di canto presentava tre ritmi vocali distinti. “Questa scoperta – prosegue la dott.ssa Daria Valente, corresponding author dello studio – posiziona gli indri come animali con il maggior numero di ritmi vocali condivisi con il repertorio musicale umano, superando gli uccelli canori e altri mammiferi”. Questi risultati – prosegue UniTo – suggeriscono che gli elementi degli attributi musicali umani si sono evoluti precocemente nella stirpe dei primati. Dato che i richiami di allarme probabilmente esistevano prima di vocalizzazioni più complesse come i canti, l’isocronia potrebbe essere un ritmo ancestrale da cui si sono evoluti altri modelli ritmici. “Il nostro studio – ha aggiunto De Gregorio – amplia il lavoro precedente che ha identificato due ritmi condivisi con la musica umana. In questa nuova ricerca abbiamo identificato un terzo ritmo e abbiamo esteso la nostra analisi al di là dei canti, includendo altri richiami”.


“I risultati – conclude la prof.ssa Cristina Giacoma, fondatrice del progetto in Madagascar – evidenziano le radici evolutive del ritmo musicale, dimostrando che gli elementi fondamentali della musica umana possono essere ricondotti ai primi sistemi di comunicazione dei primati”.

AMS-02, novità sui nuceli leggeri provenienti dallo Spazio

AMS-02, novità sui nuceli leggeri provenienti dallo SpazioRoma, 27 giu. (askanews) – L’esperimento Alpha Magnetic Spectrometer (AMS-02), cui per l’Italia partecipano l’Infn-Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e l’Asi-Agenzia Spaziale Italiana, osserva il cielo dalla Stazione Spaziale Internazionale ininterrottamente dal maggio 2011 e ha raccolto, dall’inizio delle operazioni, 230 miliardi di raggi cosmici, ovvero particelle cariche (come protoni, elettroni, nuclei e antiparticelle) di alta energia provenienti dallo spazio. Identificandone accuratamente tipologia ed energia, e distinguendo specie pesanti da specie leggere, la collaborazione AMS ha scovato inattese asimmetrie.


In un lavoro pubblicato sulla rivista “Physical Review Letters”, la collaborazione scientifica AMS ha incrociato le capacità di diversi sottorivelatori per distinguere nei raggi cosmici particelle con carica simile ma massa diversa. Sono state separate con grande precisione quattro specie nucleari – i protoni, i nuclei di deuterio (detti deutoni e costituiti da 1 protone e 1 neutrone), i nuclei di elio-3 (composti da 2 protoni e 1 neutrone) e quelli di elio-4 (2 protoni e 2 neutroni) – e sono state misurate le proprietà delle specie più rare, i deutoni e i nuclei di elio-3. “Deutoni ed elio-3 si trovano in quantità significativa nei raggi cosmici, perché sono per la maggior parte prodotti da nuclei di elio-4 energetici che, colpendo il gas interstellare, producono questi frammenti più leggeri”, spiega Alberto Oliva responsabile nazionale di AMS per l’Infn. AMS ha osservato, tuttavia, che la loro comune origine non si traduce in una simile dipendenza dell’intensità di flusso dalla loro energia: deutoni e nuclei di elio-3 si comportano in modo differente. “La differenza tra deutoni ed elio-3 non è prevista dai modelli teorici attuali e suggerirebbe la presenza di una sorgente addizionale di deutoni”, conclude Oliva. La sorgente non è ancora stata identificata, ma la conferma della sua presenza potrebbe condurre a un ulteriore avanzamento nella comprensione dei meccanismi di origine, accelerazione e propagazione dei raggi cosmici.


Da anni, i risultati prodotti dall’analisi dei dati dell’esperimento AMS-02 – informa l’Infn – forniscono informazioni scientifiche originali e inattese e, nel 2022, si è deciso di potenziare l’esperimento per accumulare eventi 3 volte più velocemente rispetto al passato. Il potenziamento consisterà nell’installare, al di sopra del rivelatore già esistente, un ulteriore piano di rivelazione: una struttura di fibra di carbonio di circa 2,6 metri di diametro, equipaggiata su entrambe le facce con rivelatori a microstrip di silicio. Verrà raggiunta una superficie totale di rivelazione di 8 m² e i sensori saranno in grado di misurare con precisione il punto di passaggio delle particelle entranti in AMS. Questo consentirà di sfruttare a pieno il tempo di vita di AMS e di aggiungere in pochi anni un quantitativo di dati tale da migliorare in maniera significativa i risultati già ottenuti. AMS è una collaborazione internazionale che coinvolge 44 istituzioni di America, Europa e Asia, ed è sostenuta dal DOE Department of Energy statunitense e dalla Nasa. L’Infn e l’Asi hanno svolto – e continueranno a svolgere anche in fase di potenziamento – un ruolo di primo piano nella progettazione e realizzazione di tutto lo strumento, e supportano i gruppi italiani nelle loro attività operazionali e di analisi dati. Le ricercatrici e i ricercatori italiani delle sedi dell’Infn, dell’Asi, e delle Università di Bologna, Milano Bicocca, Perugia, Pisa, Roma Sapienza, Roma Tor Vergata e Trento sono responsabili della realizzazione, del mantenimento e delle operazioni dei principali strumenti di bordo, e partecipano in prima persona all’analisi scientifica dei dati raccolti dallo strumento. I dati pubblicati dalla collaborazione AMS dall’inizio delle operazioni sono resi disponibili alla comunità scientifica tramite il Cosmic Ray Database, ospitato dallo Space Science Data Center dell’Asi.


(Crediti: Nasa)

Sbadiglio “contagioso”, nuove evidenze sul comportamento imitativo

Sbadiglio “contagioso”, nuove evidenze sul comportamento imitativoRoma, 26 giu. (askanews) – Un team interazionale di ricerca guidato da studiosi dell’Università di Bologna ha indagato i meccanismi neurali alla base del comportamento imitativo: un fenomeno che facilita l’interazione e la coesione sociale e permette alle persone di sintonizzarsi inconsciamente con gli altri. Lo studio – pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) – ha messo in luce nuove evidenze su come il cervello regola questo comportamento, aprendo così nuove prospettive per applicazioni cliniche e terapeutiche.


“I risultati che abbiamo ottenuto aprono nuove strade per comprendere come la plasticità cerebrale può essere manipolata per aumentare o ridurre comportamenti imitativi e rendere le persone meno sensibili alle interferenze durante l’esecuzione di compiti”, spiega Alessio Avenanti, professore al Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, che ha coordinato lo studio. “Da qui potrebbero quindi nascere applicazioni terapeutiche per migliorare la prestazione cognitiva in pazienti con alterazioni neurologiche e disturbi nella sfera della socialità”. Il comportamento imitativo è alla base di molte interazioni sociali complesse e può influenzare le relazioni interpersonali, così come le dinamiche di gruppo. Inoltre, l’imitazione automatica può avere implicazioni negative e va spesso controllata: ad esempio, per riuscire a parare un rigore, un portiere deve inibire l’imitazione dei movimenti dell’attaccante. “L’imitazione automatica è un comportamento pervasivo nella vita quotidiana: pensiamo a quando vediamo qualcuno sbadigliare e immediatamente sentiamo l’impulso di fare lo stesso, o quando notiamo il nostro linguaggio o le nostre espressioni facciali adattarsi a quelli di un amico con cui stiamo parlando”, conferma Sonia Turrini, assegnista di ricerca al Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna, prima autrice dello studio. “Comprendere i meccanismi alla base di questo fenomeno può quindi fornire nuove prospettive sul comportamento sociale, che è il contesto entro cui la maggior parte della quotidianità di ognuno di noi si sviluppa”.


Oggi sappiamo che il sistema motorio è costantemente coinvolto durante l’imitazione automatica di azioni, espressioni facciali e linguaggio, – spiega Unibo – ma resta ancora da chiarire quale sia, all’interno del sistema motorio, il ruolo preciso, e potenzialmente distinto, di diversi circuiti cortico-corticali. Per fare luce su questo aspetto, gli studiosi hanno utilizzato una tecnica avanzata di stimolazione cerebrale non-invasiva, chiamata “stimolazione appaiata associativa cortico-corticale” (ccPAS), che il gruppo di ricerca del prof. Avenanti ha contribuito a sviluppare. “Grazie a questa tecnica di stimolazione è stato possibile agire sui meccanismi di plasticità del connettoma cerebrale, la mappa comprensiva delle connessioni neurali nel cervello”, spiega Avenanti. “Rinforzando o indebolendo temporaneamente la comunicazione tra diverse aree del sistema motorio, siamo riusciti a stabilire con precisione il ruolo causale di diversi circuiti nel facilitare o arginare il fenomeno dell’imitazione automatica”.


Lo studio ha coinvolto 80 partecipanti sani suddivisi in quattro gruppi, ciascuno sottoposto a un diverso protocollo di ccPAS. Ogni partecipante ha eseguito due compiti comportamentali, prima e dopo il trattamento mediante ccPAS: un compito di imitazione volontaria ed uno di imitazione automatica. L’obiettivo era testare se la manipolazione della connettività tra aree frontali – in particolare l’area premotoria ventrale (PMv), l’area supplementare motoria (SMA) e la corteccia motoria primaria (M1) – influenzi l’imitazione automatica e volontaria. I risultati ottenuti hanno rivelato che diversi circuiti del sistema motorio servono funzioni sociali differenti e dissociabili e che la direzione della stimolazione e l’area bersaglio influenzano diversamente i circuiti neuronali coinvolti nell’imitazione. “Abbiamo visto che rinforzare la connettività tra l’area premotoria ventrale (PMv) e la corteccia motoria primaria (M1) aumenta la tendenza ad imitare automaticamente il comportamento altrui, mentre ridurla ha l’effetto opposto”, dice Sonia Turrini. “E al contrario, la corteccia supplementare motoria (SMA) sembra avere un ruolo di controllo cognitivo sul sistema motorio: rafforzare la sua connettività con la corteccia motoria primaria (M1) induce infatti una maggiore capacità di evitare l’imitazione quando questa è inadeguata al contesto”.

James Webb osserva ammassi stellari nell’Universo primordiale

James Webb osserva ammassi stellari nell’Universo primordialeRoma, 25 giu. (askanews) – Lo studio delle galassie giovani, a poche centinaia di milioni di anni dal Big Bang, è una finestra per comprendere i processi che hanno modellato le galassie nell’universo primordiale. Galassie così distanti possono essere difficili da osservare, ma per fortuna l’universo stesso offre un assist attraverso le lenti gravitazionali: distribuzioni di materia così dense che curvano lo spaziotempo e deviano il percorso dei raggi luminosi, amplificando la luce proveniente dalle galassie più lontane.


È così che si è scoperto il Cosmic Gems Arc, una giovanissima galassia che vediamo com’era appena 460 milioni di anni dopo il Big Bang. La sua forma – informa l’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) – appare distorta in forma di arco e la sua luminosità è fortemente amplificata grazie all’effetto di lente gravitazionale. Osservata per la prima volta dal telescopio spaziale Hubble nel 2018, si mostra in tutta la sua gloria in una nuova immagine del telescopio spaziale James Webb (JWST) che rivela ben cinque ammassi stellari al suo interno. Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce: questo indica che si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi di stelle giovani che si possono osservare nell’universo locale. La scoperta implica che la formazione degli ammassi stellari e il feedback relativo potrebbero aver contribuito a scolpire le proprietà delle galassie durante le primissime epoche della storia cosmica. I risultati dello studio, guidato dalla ricercatrice italiana Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e Oskar Klein Centre, in Svezia, sono stati pubblicati su “Nature”.


“Riteniamo che queste galassie siano la fonte principale dell’intensa radiazione che ha reionizzato l’universo primordiale”, commenta Angela Adamo, prima autrice del lavoro. “La particolarità del Cosmic Gems Arc è che, grazie alla lente gravitazionale, possiamo effettivamente risolvere la galassia fino a una scala di pochi anni luce!”. Le osservazioni ad altissima risoluzione realizzate da JWST nell’infrarosso, insieme all’ampificazione fornita dalla lente gravitazionale, hanno mostrato dettagli senza precedenti: è la prima volta che si osservano le proprietà interne di una galassia così lontana. Solo così è stato possibile dimostrare il ruolo chiave degli ammassi stellari nelle galassie primordiali, sia nel contesto della formazione degli ammassi globulari e nel processo di reionizzazione dell’idrogeno dell’Universo.


“Quando vidi le immagini del Cosmic Gems Arc, la sequenza di ‘pallini’ che replicavano in modo speculare richiamando proprio l’effetto di lente gravitazionale, rimasi sbalordito”, racconta Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) a Bologna e terzo autore dell’articolo. “Scrissi subito alla collega di Stoccolma Angela Adamo e a Larry Bradley, principal investigator delle osservazioni di JWST: ma allora gli ammassi stellari sono il modo dominante nella formazione stellare nell’Universo iniziale! Come fuochi d’artificio sconquassano la galassia ospite, la rendono un potenziale ionizzatore, per poi proseguire come ammassi globulari”. La presenza di ammassi stellari così densi e massicci è rilevante per due aspetti. Innanzitutto, sono i precursori degli ammassi globulari che vediamo oggi, i quali sono quasi tanto antichi quanto l’Universo. Inoltre, ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono “distruggere” il mezzo interstellare della galassia ospite e, con le loro stelle giovani e massicce, giocare un ruolo chiave nel processo di reionizzazione dell’Universo. È probabile che le galassie in formazione nell’universo primordiale ospitino normalmente oggetti di questo tipo.


“Il messaggio generale, a mio parere, è che stiamo finalmente ‘smascherando’ le origini delle prime galassie con la qualità e potenza del telescopio JWST e, grazie al lensing gravitazionale, stiamo vedendo dettagli senza precedenti”, aggiunge Vanzella. “L’Universo a quell’epoca non era come quello odierno e questo ci appare adesso come un dato di fatto”. Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni con JWST, in programma per l’inizio del 2025; il principal investigator è lo stesso Vanzella, che conclude: “Nel prossimo ciclo, studieremo il Cosmic Gems arc con due strumenti, NIRSpec e MIRI: così avremo la conferma del redshift della galassia e, tramite misure con spettroscopia integrata, andremo più a fondo riguardo le proprietà fisiche degli ammassi stellari trovati, del gas ionizzato, oltre a eseguire una mappa bidimensionale del tasso di formazione stellare sull’intero arco gravitazionale”. Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, L. Bradley (STScI), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

Spazio, lancio riuscito del satellite di telecomunicazioni ASTRA 1P

Spazio, lancio riuscito del satellite di telecomunicazioni ASTRA 1PRoma, 21 giu. (askanews) – Il satellite di Telecomunicazioni ASTRA 1P è stato lanciato con successo a bordo di un razzo Falcon 9 di SpaceX, dalla base di lancio di Cape Canaveral in Florida. Ad annunciarlo Thales Alenia Space, joint venture Thales (67%) e Leonardo (33%), che in qualità di primo contraente di Astra 1P è responsabile della progettazione, della realizzazione e dell’assemblaggio, integrazione e test (AIT) del satellite, nonché della supervisione della campagna di lancio.


Astra 1P, basato sulla potente piattaforma Spacebus NEO di Thales Alenia Space, dotata di un sistema di propulsione interamente elettrico, permetterà la diffusione di contenuti video privati e pubblici con il massimo livello di qualità delle immagini. Ordinato da SES, Astra 1P farà parte della flotta di satelliti della società che attualmente fornisce il segnale TV per 119 milioni di famiglie in Europa e contribuirà a garantire la continuità dei servizi SES fino al 2040. Con una massa al lancio di 5 tonnellate e con un carico utile molto potente, Astra 1P sarà uno dei satelliti con le migliori prestazioni in orbita geostazionaria e il più potente in funzione nella posizione orbitale 19,2° Est. Questo satellite a fascio largo trasmetterà simultaneamente oltre 500 canali televisivi grazie ai suoi 80 transponder in banda Ku.


“I team di Thales Alenia Space sono orgogliosi del lancio del satellite Astra 1P che offrirà a milioni di famiglie immagini televisive di qualità eccezionale – ha affermato Hervé Derrey, Presidente e CEO di Thales Alenia Space -. Questo lancio di successo segue i precedenti lanci dei satelliti geostazionari SES-17 e SES-22. Tengo a ringraziare SES, nostro cliente di lunga data, per la sua rinnovata fiducia e le agenzie spaziali francese (Cnes) ed europea (Esa) per il loro sostegno nell’ambito dello sviluppo della nostra linea di prodotti”. (Crediti: Thales Alenia Space)

Ricerca, satelliti per monitorare l’accumulo di plastiche in mare

Ricerca, satelliti per monitorare l’accumulo di plastiche in mareRoma, 20 giu. (askanews) – I satelliti attualmente in orbita possono essere usati per monitorare lo stato dell’inquinamento da plastiche del mare. È quanto ha messo in luce una ricerca internazionale a cui ha partecipato l’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Lerici (Cnr-Ismar). Utilizzando una serie di 300.000 immagini satellitari scattate ogni tre giorni per sei anni, con una risoluzione spaziale di 10 metri, sono state individuate migliaia di strisce di rifiuti, alcune lunghe più di un chilometro e alcune fino a 20 km. Questi dati hanno permesso di creare la mappa più completa fino ad oggi dell’inquinamento dei rifiuti marini galleggianti nel Mediterraneo.


Per essere rilevabili dai satelliti esistenti, la plastica e altri detriti galleggianti devono aggregarsi in zone dense lunghe almeno una decina di metri. Queste formazioni galleggianti, note come windrows, chiazze, strisce o andane, assumono spesso la forma di filamenti, risultanti dalla convergenza delle correnti sulla superficie del mare. La presenza di una striscia di rifiuti – informa Cnr-Ismar – indica un elevato livello di inquinamento in un luogo e in un momento specifici. Attraverso la ricerca si è visto che l’abbondanza di queste chiazze è sufficiente per tracciare mappe dell’inquinamento e rivelare le tendenze nel tempo. Le immagini sono state riprese dai satelliti Sentinel-2 del programma Copernicus dell’Unione Europea, i cui sensori, però non sono progettati per il rilevamento dei rifiuti, e hanno quindi una capacità piuttosto limitata per il rilevamento della plastica. “Cercare aggregati di rifiuti di diversi metri sulla superficie del mare è come cercare aghi in un pagliaio”, spiega Stefano Aliani, direttore di ricerca ed oceanografo di Cnr-Ismar. “Nonostante i satelliti non specializzati, siamo riusciti a identificare le aree più inquinate e i loro principali cambiamenti nel corso di settimane o anni. Ad esempio, abbiamo osservato che molti rifiuti entrano in mare quando ci sono i temporali”, continua Aliani.


L’analisi delle immagini satellitari, effettuata con supercomputer e algoritmi avanzati, ha permesso di comprendere che questi accumuli nelle andane costiere sono principalmente dovuti alle emissioni di rifiuti terrestri nei giorni immediatamente precedenti. Conoscere questo aspetto rende, pertanto, tali formazioni particolarmente utili per la sorveglianza e la gestione dell’inquinamento da plastica, dimostrando l’applicabilità dello studio a casi reali. “Questo strumento è pronto per essere utilizzato in diversi contesti: siamo convinti che ci insegnerà molto sul fenomeno dei rifiuti, compresa l’identificazione delle fonti e dei percorsi verso l’oceano”, afferma Giuseppe Suaria, ricercatore del Cnr-Ismar di Lerici. “Inoltre, la nostra capacità di rilevamento migliorerebbe enormemente se mettessimo in orbita una tecnologia di osservazione dedicata alla plastica. L’implementazione di un sensore ad alta risoluzione specificamente dedicato al rilevamento e all’identificazione di oggetti galleggianti di un metro di dimensione potrebbe essere utile anche in altre questioni rilevanti come il monitoraggio degli sversamenti di petrolio, perdite di carico dalle navi o attività di ricerca e salvataggio in mare”.


Il lavoro è stato finanziato dal Discovery Element dell’Agenzia spaziale europea (Esa) ed il consorzio è composto da società spaziali multinazionali e istituti di ricerca di sei Paesi. (Credit: Giuseppe Suaria)