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Tag: Sanremo 2023

E’ morto il giornalista Giampaolo Ormezzano, aveva 89 anni

E’ morto il giornalista Giampaolo Ormezzano, aveva 89 anniRoma, 27 dic. (askanews) – Il giornalismo sportivo è in lutto per la scomparsa di Gian Paolo Ormezzano. Già direttore di Tuttosport (dal 1974 al 1979), firma de La Stampa fino alla pensione nel 1991 (ma aveva continuato a collaborare), del Guerin Sportivo e di Famiglia Cristiana, aveva 89 anni. Nella sua lunga carriera è stato testimone e ha scritto dei principali eventi sportivi (e non solo), dai Giochi di Roma allo sbarco sulla Luna, seguito da inviato a Cape Canaveral, dall’attacco terroristico ai Giochi di Monaco 1972 al trionfo mondiale degli azzurri di Bearzot nel 1982. E’ stato anche commentatore in tv e autore di romanzi e saggi, tra cui “Giro d’Italia con delitto” e “La ?ne del campione”, oltre ai tre volumi “Storia del ciclismo” (vincitore del Bancarella Sport), “Storia dell’atletica” e “Storia del calcio”. Era un grandissimo tifoso del Torino. Lascia la moglie e tre figli.

Le pagelle europee del 2024, von der Leyen 4: opportunista senza visione

Le pagelle europee del 2024, von der Leyen 4: opportunista senza visioneRoma, 27 dic. (askanews) – Ce l’ha fatta, è stata rieletta presidente delle Commissione per altri cinque anni, e ha avuto anche la fiducia del Parlamento europeo per tutti i suoi commissari, nonostante qualche mal di pancia e diversi rospi ingoiati da parte del centro sinistra (Liberali, Socialisti e Democratici, Verdi). Ma il percorso di Ursula von der Leyen verso il secondo mandato è stato tutt’altro che glorioso: non leadership, ma opportunismo politico, non visione europea ma attaccamento al potere, a qualunque costo. Anche quello di rinnegare sé stessa, per come era stata nel suo primo mandato, fino ad accettare ora la prospettiva di fare retromarcia, di smontare una parte della legislazione già adottata del suo Green Deal. E di lasciarsi dettare dai governi di destra e di centrodestra, ormai largamente maggioritari nel Consiglio, la linea su una gestione sempre più da “Fortezza Europa” dell’immigrazione irregolare e dell’asilo; un’area che, andrebbe ricordato e sottolineato, secondo i Trattati Ue è di competenza delle politiche comunitarie, non nazionali.


Perché la priorità oggi è un’altra: non quella di attuare un programma politico da lei proposto e sottoscritto poi dalla coalizione (in realtà inesistente) dei partiti europei che l’hanno eletta, ma di agire come mera esecutrice del programma e delle nuove politiche del Ppe, sempre più impegnato a rincorrere la destra, per non rischiare di perdere voti. Sulle politiche migratorie, oltretutto, von der Leyen rischia di mettere la Commissione in rotta di collisione con la Corte europea di Giustizia e con l’altra Corte europea, quella dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che potrebbero denunciare e bocciare come contrarie al diritto Ue e al diritto e alle convenzioni internazionali certe proposte annunciate sulla deportazione dei migranti irregolari o sulla criminalizzazione di chiunque li aiuti, invece che dei soli trafficanti.


Per chi aveva creduto in lei e nel suo Green Deal, come “nuova strategia di crescita” e cambiamento di paradigma per l’Europa, von der Leyen si è rivelata una grande delusione. Invece di rivendicare i successi di un programma di trasformazione economica che non aveva precedenti europei se non nel mercato unico del suo grande predecessore Jacques Delors, Ursula l’opportunista ha sostanzialmente avallato, con il suo silenzio, la tesi del Ppe e delle destre, secondo cui in realtà il “Patto verde” era un progetto del socialista olandese Frans Timmermans, il suo ex vicepresidente esecutivo. E tutti suoi, di Timmermans, sono quindi gli “eccessi ideologici” e gli obiettivi irrealistici delle “politiche green”, colpa sua sono le fughe in avanti, l’eccesso di regolamentazione imposto all’industria a scapito della sua competitività. Ecco così redento, scaricandolo su Timmermans, quello che poteva esser visto nel Ppe e tra i Conservatori (compreso Fdi) come un peccato originale di von der Leyen. Che ora è pronta a guidare la reazione conservatrice contro ciò che la sua stessa Commissione aveva voluto e realizzato nella scorsa legislatura, sotto la maligna influenza del suo vicepresidente esecutivo socialista. Von der Leyen, che avrebbe potuto essere ricordata come uno dei pochi grandi presidenti della Commissione, diminuisce sé stessa, rinuncia a un posto importante nella storia europea, perché sa che sarebbe incompatibile con il suo ruolo attuale, con la conservazione del suo potere.


Che poi in realtà è soprattutto il potere del suo team di consiglieri, di cui si fida ciecamente. Questo “inner circle”, guidato dal suo capo di gabinetto Bjoern Seibert, informa e indirizza ogni azione di von der Leyen, lasciandole il ruolo di brava e convincente attrice che recita sul palcoscenico una parte scritta da altri, dietro le quinte. Seibert ha centralizzato il controllo e verticalizzato il potere dentro la Commissione in modo sistematico, con un’idea tutta tedesca di dominazione assoluta: niente gli sfugge, nessuna iniziativa può essere presa, nessuna promozione è possibile senza il suo via libera. Anche la distribuzione di portafogli ai commissari risponde a questa logica, con l’attuazione del principio “divide et impera”: le competenze più importanti non sono mai in mano a una sola persona, ma frammentate, in modo che alla fine, in caso di controversia, prevalga la presidenza, cioé von der Leyen, cioè Seibert. E in tutto questo viene a mancare sempre di più la vera forza della “funzione pubblica europea”: la motivazione integrazionista che aveva caratterizzato la Commissione in passato; oggi è diventata in gran parte un’amministrazione pubblica come qualunque altra, soggetta a un management di tipo anglosassone (nonostante la Brexit) in cui quello che conta sono le performance, l’abilità e le carriere personali dei funzionari, non gli obiettivi europei. “Nella Commissione, ormai di Europa non parla più nessuno”, ci diceva recentemente una funzionaria delusa.


Paradossalmente, insomma, la “presidenzializzazione” perseguita dalla Commissione von der Leyen comporta una mancanza di spessore politico reale da parte della presidente, a cui corrisponde un potere oscuro ma pesantissimo dietro di lei. Con l’inizio del nuovo mandato, si preannuncia una Commissione intergovernativa invece che comunitaria, al servizio degli Stati membri, di alcune lobby economiche e di una determinata parte politica (il Ppe) invece che dell’interesse comune europeo. Una Commissione che rincorre invece di guidare, che rischia di far tornare indietro il disegno europeo. Per tutto questo, la pagella di Ursula von der Leyen è ben al di sotto della sufficienza, anche se si può ancora sperare che non si realizzino tutte le premesse negative. Voto: 4. di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Le pagelle europee del 2024, Gentiloni voto 8: mancherà all’Ue

Le pagelle europee del 2024, Gentiloni voto 8: mancherà all’UeRoma, 27 dic. (askanews) – Paolo Gentiloni ha portato a termine il suo mandato di commissario all’Economia insistendo ad ogni suo intervento pubblico sulla necessità di ricorrere ancora al debito comune europeo per gli obiettivi comuni strategici, come è stato già fatto per il sostegno Ue alla cassa integrazione durante il Covid (programma Sure), per il Pnrr (programma “NextGenerationEU”) e recentemente per un prestito all’Ucraina.


Ostinatamente, ha continuato a indicare una strada che i tabù ideologici dei paesi “frugali”, soprattutto Germania e Olanda, continuavano a escludere a priori, come se non fosse economicamente praticabile. E lo ha fatto anche contro la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che ha semplicemente ignorato, come se non esistesse, questa ipotesi, anche quando l’ha prospettata Mario Draghi nel suo Rapporto sulla competitività europea. Come commissario all’Economia, Gentiloni è stato sempre brillante, competente, solido, chiaro nelle sue dichiarazioni, correttissimo nei suoi rapporti con la stampa. Attento a far prevalere sempre gli obiettivi, le finalità delle politiche economiche e finanziarie, e soprattutto la necessità di salvaguardare e incoraggiare gli investimenti pubblici e privati, rispetto all’applicazione pedissequa di regole europee che erano state forgiate nella temperie dell’austerità, come risposta sbagliata della “Europa tedesca” alla crisi economica e finanziaria 2008-2014, e in particolare alla crisi del debito sovrano nell’Eurozona del 2011.


Quando c’è stata l’occasione di cambiarle, quelle regole, dopo la sospensione del Patto di stabilità a seguito del Covid, Gentiloni si è impegnato al massimo per cercare soluzioni migliori, più flessibilità, parametri più realistici e applicabili, tempi di aggiustamento finanziario più lunghi, più incentivazione degli investimenti e delle riforme strutturali. La riforma del Patto di stabilità che aveva presentato è stata attaccata dai “frugali”, e con particolare ferocia dal ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, poi cacciato dal governo dal suo cancelliere Olaf Scholz. E non hanno aiutato la reazione inaspettatamente debole a questi attacchi da parte della Francia e della Spagna, né l’arrendevolezza dell’Italia. Ma alla fine, nonostante i peggioramenti e le “clausole di salvaguardia” aggiuntive, nella riforma (entrata in vigore il 30 aprile scorso) è rimasto l’impianto originario, con la possibilità di spalmare su sette anni invece di quattro il percorso di aggiustamento di bilancio per i paesi in situazione di deficit o debito eccessivo, e con il nuovo indicatore della “spesa primaria netta” che ha sostituito i vecchi parametri difficilmente osservabili o applicabili come la “crescita potenziale”.


Gentiloni ora avrà incarichi internazionali, forse al momento opportuno tornerà in Italia per avere un ruolo di federatore politico della sinistra; e potrebbe ambire, un giorno, al Quirinale. Certo è che è stato uno dei migliori commissari europei espressi dall’Italia in settant’anni. Ci mancherà. Voto: 8


di Lorenzo Consoli e Alberto Ferrarese

Le pagelle europee del 2024, per Draghi nuova delusione: voto 7-

Le pagelle europee del 2024, per Draghi nuova delusione: voto 7-Roma, 27 dic. (askanews) – E’ brillante e preparatissimo ma nella pratica da quando ha lasciato la Bce la sua è la storia di un desiderio non soddisfatto.


L’ultimo capitolo europeo di Draghi ci ha ricordato il gennaio del 2022 quando era in corsa per la Presidenza della Repubblica. Diciamocelo chiaramente. A Draghi di fare il presidente del Consiglio italiano importava veramente poco: la capacità di mediazione e di ascolto che il ruolo richiede non appare proprio nelle sue corde. Era però quello il necessario passaggio verso il Quirinale. Il patto con Sergio Mattarella – se c’è stato, ma non lo sappiamo – sembrava essere questo: ‘gestisci il Paese in un momento di emergenza e poi vieni al mio posto’. Draghi lo ha fatto, con lui l’Italia ha sicuramente riconquistato prestigio e autorevolezza a livello internazionale (la foto con Emmanuel Macron e Olaf Scholz a bordo del treno per Kiev ne fu la plastica rappresentazione) con un grande beneficio anche sulla stabilità finanziaria. Al momento dell’elezione del presidente della Repubblica, però, Draghi ha mostrato tutti i suoi limiti come politico, a cominciare dall’autocandidatura del “nonno al servizio delle istituzioni”. Il cronista che in quei giorni passeggiava in Transatlantico scambiando due parole con i peones capiva subito che non sarebbe “mai” (il virgolettato è di uno di loro) stato eletto. Solo Draghi non se ne rendeva conto, non avendo pensato di attivare delle “antenne” in quel Parlamento che aveva sempre trattato con un distacco percepito come disgusto. Quando se ne è accorto, tardi, si è mosso molto ma abbastanza scompostamente, bruciandosi definitivamente. Rieletto Mattarella, si è capito che il suo periodo a Palazzo Chigi era finito, è andato avanti galleggiando per qualche mese ma quando si è presentato al Senato il 20 luglio 2022 per la fiducia ha pronunciato un discorso che suonava come: “Mandatemi a casa”. Così è stato.


Anche nel cambio di legislatura europea ci è parso di vedere l’ambizione di Draghi di avere un ruolo nell’Unione. Ursula von der Leyen gli aveva commissionato un Rapporto sulla competitività che l’ex banchiere ha scritto con la consueta competenza, con scrupolo, con grande capacità di ascolto degli attori economici e anche con una visione “politica” dell’Europa. Lo ha presentato con la stessa presidente della Commissione, poi è stato ospite in varie capitali (a Parigi il 13 novembre Macron lo ha accolto al Collège de France con tutti gli onori), ogni volta tenendo discorsi che sono suonati come gli interventi programmatici di un candidato leader. Se nel 2022 era effettivamente candidato alla presidenza della Repubblica, in questo caso partiva “di rincorsa” come la carta da giocare in caso di emergenza. L’emergenza sarebbe stata rappresentata da una clamorosa bocciatura di von der Leyen per il suo secondo mandato. A quel punto l’Europa in crisi politica, stretta da una parte da Putin e dall’altra da Trump, chi altri avrebbe potuto chiamare se non SuperMario? Ci sembra che abbia accarezzato questa prospettiva, ma stando attento, questa volta, ad evitare passi falsi. Soprattutto Macron sembrava contare su di lui piuttosto che su von der Leyen, anche per riconfermare la sua linea contraria al sistema dello “spitzenkandidat”, ovvero alla presidenza della Commissione attribuita automaticamente al “candidato guida” del partito europeo uscito vincente dalle elezioni. Ma poi Macron è entrato nel tunnel della crisi politica francese e la storia è andata in un altro modo, anche questa volta. Come consolazione, Draghi ha visto gran parte delle idee e conclusioni del suo Rapporto sul futuro della competitività dell’Ue copiate e incollate da von der Leyen nelle lettere di missione dei nuovi commissari europei. Voto: 7-


di Alberto Ferrarese e Lorenzo Consoli

Iran,Crosetto: per liberazione Cecilia Sala si muove tutto il Governo

Iran,Crosetto: per liberazione Cecilia Sala si muove tutto il GovernoMilano, 27 dic. (askanews) – Per il caso della giovane reporter Cecilia Sala detenuta in Iran “tutto il Governo, in primis il Presidente Giorgia Meloni e il Ministro Tajani, si è mosso per farla liberare”. Così il ministro della Difesa Guido Crosetto sui social. “Ogni persona che poteva e può essere utile per ottenere questo obiettivo si è messa al lavoro”, ha aggiunto. Secondo Crosetto “le trattative con l’Iran non si risolvono, purtroppo, con il coinvolgimento dell’opinione pubblica occidentale e con la forza dello sdegno popolare, ma solo con un’azione politica e diplomatica di alto livello. L’Italia lavora incessantemente per liberarla, seguendo ogni strada”.


Su disposizione del vicepremier e Ministro degli Affari Esteri, Antonio Tajani, l’Ambasciata e il Consolato d’Italia a Teheran stanno seguendo il caso con la massima attenzione sin dal suo inizio. Oggi Sala ha ricevuto la visita consolare in carcere dell’ambasciatrice italiana a Teheran, Paola Amadei. La giovane è rinchiusa nel carcere di Evin, nella capitale iraniana, in una cella di isolamento. Si tratta della stessa prigione in cui il regime iraniano trattiene i dissidenti arrestati, e in cui ha trascorso 45 giorni anche la “travel blogger” romana Alessia Piperno prima di essere liberata e fare ritorno in Italia. Sala, giovane reporter, è in una cella di isolamento: a quanto si apprende si trova “in buone condizioni fisiche” ed è “molto determinata a difendere il suo lavoro”. L’ambasciatrice d’Italia Paola Amadei ha effettuato una visita consolare per verificare le condizioni e lo stato di detenzione della dottoressa Sala. La famiglia è stata informata dai risultati della visita consolare.


Secondo una nota di Chora Media (per la quale Sala firma il noto podcast ‘Stories’) “Cecilia era partita il 12 dicembre da Roma per l’Iran con un regolare visto giornalistico e le tutele di una giornalista in trasferta”. La giovane reporter “aveva fatto una serie di interviste e realizzato tre puntate del suo podcast”. Sala sarebbe dovuta rientrare a Roma il 20 dicembre, ma la mattina del 19, dopo uno scambio di messaggi, il suo telefono è diventato muto. “Conoscendo Cecilia, che ha sempre mandato le registrazioni per le puntate del podcast con estrema puntualità anche dal fronte ucraino nei momenti più difficili, ci siamo preoccupati e, insieme al suo compagno, il giornalista del Post Daniele Raineri abbiamo allertato l’Unita di Crisi del Ministero degli Esteri”. Il suo telefono si è riacceso nel pomeriggio di venerdì 20: “Cecilia ha chiamato sua madre e le ha detto che era stata arrestata, portata in carcere e che aveva avuto il permesso di fare una breve telefonata. Non ha potuto dire altro”, aggiunge la nota. “Da quel momento è cominciata l’attività delle autorità italiane, in cui riponiamo tutta la nostra fiducia e con cui siamo in costante contatto, per capire cosa sia successo e per riportarla a casa”, viene aggiunto da Chora.

Sanremo, Conti: “PrimaFestival” condotto da Guaccero e Corsi

Sanremo, Conti: “PrimaFestival” condotto da Guaccero e CorsiMilano, 27 dic. (askanews) – Da sabato 8 fino al 15 febbraio, subito dopo il Tg1 delle 20, torna su Rai 1, per la nona volta, il “PrimaFestival” che accompagnerà il pubblico verso la 75 edizione del Festival di Sanremo. A condurre, in studio, due popolari volti della tv: Bianca Guaccero e Gabriele Corsi che potranno contare sulle incursioni al Teatro Ariston della brillantissima Mariasole Pollio.


Ogni sera, il trio offrirà uno sguardo esclusivo e dinamico su ciò che accade sul palco, dietro le quinte e nel mondo social che ruota intorno al Festival. Con stili e approcci complementari, i conduttori condurranno i telespettatori, attraverso interviste, curiosità e momenti inediti, alla scoperta dell’essenza del Festival più amato dagli italiani. Come da tradizione consolidata, PrimaFestival sarà anche il primo programma ad accendere i riflettori sui 30 protagonisti della gara. Lunedi 10 l’iconico red carpet sarà interamente trasmesso e commentato da Guaccero, Corsi e Pollio. Il programma, firmato dagli autori Walter Santillo, Alessio Tagliento e Tania Carminati, con la regia di Carlo Flamini, promette di fondere tradizione e innovazione.

Non solo Santiago o Francigena, ora c’è “The Way to Jerusalem”

Non solo Santiago o Francigena, ora c’è “The Way to Jerusalem”Gerusalemme, 27 dic. (askanews) – Ci sono gesti che possono cambiare il mondo, il proprio e quello degli altri. Sliding doors, momenti che passano una volta e che bisogna saper cogliere. Treni in corsa che rallentano solo una determinata stazione, e serve sapere quale per salirci. Accade, e accade a volte con “chiamate” precise. A cambiare, a rimettersi in gioco, a lavorare affinchè anche gli altri possano saper scegliere. E così è accaduto a Golan Rice. Israeliano, che racconta dalla chiesa di San Giovanni Battista ad Ain Karem la sua personale sfida, quella di costruire in Terra Santa un nuovo cammino, come fu per Santiago de Compostela o per la Via Francigena. Golan era nei servizi segreti, e racconta che di chiamate ne ha avute addirittura tre: “determinante la prima, quando un uccellino si è posato sulla finestra del mio ufficio. Da lì è partito tutto, le dimissioni dal servizio, la ricerca di una via, il percorrere il cammino di Santiago senza saperne nulla o poco. Da ebreo. Per comprenderne l’essenza e le motivazioni. Ne è nato un libro. Poi l’idea, insieme ad una mia amica”. E’ Yael Tarasiuk, tanti anni di lavoro nel trasporto aereo ma anche specializzata specializzata in ambiti come il dialogo interculturale e l’inclusione sociale: “Ci siamo chiesti: dato che esistono percorsi come il Cammino di Santiago o la Via Francigena, perché non crearne uno dedicato a Gerusalemme? Questa città è stata e continua ad essere un luogo di pellegrinaggio per persone di diverse religioni “, spiega proprio Yael Tarasiuk.


Ed ecco passare dall’idea al progetto. The Way to Jerusalem (www.thewaytojerusalem.org), un itinerario di circa 450 chilometri pensato per riscoprire le antiche vie di pellegrinaggio, offrendo un viaggio unico tra spiritualità, dialogo interculturale e scoperta personale. Il tratto percorribile attualmente è l’ultimo, chiamato “La Via del Silenzio “, che sviluppandosi lungo un emozionante tracciato di 111 chilometri porta da Giaffa a Gerusalemme. Lo raccontano i due protagonisti proprio nel giardino adiacente alla chiesa del Battista ad Ain Karem. Dopo un accurato studio insieme a esperti archeologi, Rice e Tarasiuk hanno individuato un percorso che ripercorre le antiche vie verso Gerusalemme: punto di partenza è la Galilea e, seguendo un itinerario di circa 450 chilometri suddiviso in quattro tratti , arriva alla Città santa. Tutto pensato come un’opportunità straordinaria di scambio e incontro: intorno all’iniziativa è nata un’associazione omonima che propone il pellegrinaggio non solo come un’esperienza spirituale, ma anche come un’occasione per immergersi nella storia della Terra Santa d’Israele e nelle sue comunità locali . Attraverso l’incontro e lo scambio con culture diverse, The Way to Jerusalem rappresenta un ponte tra passato e presente, favorendo il dialogo e l’unità tra le persone. Percorrerla rappresenta, infatti, un’esperienza unica che unisce spiritualità, incontro umano e riscoperta di sé: Yael e Golan hanno così creato una rete di accoglienza che coinvolge le comunità locali, incoraggiandole a partecipare attivamente al progetto.


“Abbiamo visitato le comunità che vivono lungo il percorso raccontando loro il nostro sogno. Abbiamo detto che i pellegrini passeranno, chiedendo forse un bicchiere d’acqua o una parola di conforto. Perché ciò che un pellegrino cerca, più di ogni altra cosa, è che il suo viaggio venga riconosciuto”, conclude Yael Tarasiuk. Partendo dall’antico porto di Giaffa, la “Via del Silenzio” attraversa la città costiera ei crinali che circondano Gerusalemme, seguendo le orme di antichi pellegrini e percorsi utilizzati nei secoli da ebrei, cristiani e musulmani. Per apprezzarlo pienamente l’associazione “The Way to Jerusalem” suggerisce di suddividerlo in sei tappe : dal Porto vecchio di Giaffa a Be’er Ya’akov (22 km), per scoprire questa area urbana; da Be’er Ya’akov a Kfar Shmuel (21 km), incantevole passaggio dalla zona urbana alle aree naturali e agricole; da Kfar Shmuel a Latrun (20 km), piacevole tratto di raccordo tra la pianura ei monti; da Latrun ad Abu Gosh (23 km), arrampicata nella natura sulle prime due creste che circondano Gerusalemme; da Abu Gosh a Ein Karem (17 km), passeggiata naturalistica e discesa in una zona di grande rilevanza biblica come la valle di Sorek; da Ein Karem alla Porta di Giaffa (8 km), salita panoramica sulla terza cresta e suggestivo arrivo a Gerusalemme.


“Questo percorso non è solo una sfida fisica, ma anche un viaggio interiore. Il silenzio diventa un compagno prezioso, permettendo al pellegrino di riflettere, di riscoprirsi e di interrogarsi su ciò che cerca mentre si avvicina a Gerusalemme”, prosegue Yael Tarasiuk. Oltre che un percorso devozionale, La Via del Silenzio è un invito per i viaggiatori a vivere un’esperienza profonda di introspezione e spiritualità, ricalcando strade che risalgono all’epoca romana, quando una via pavimentata collegava Giaffa alla Città santa. Lungo il percorso, i pellegrini possono trovare accoglienza presso strutture locali, come parrocchie, conventi e case private. Grazie alla partecipazione delle comunità locali, molti abitanti le loro porte, offrendo ospitalità e momenti di condivisione autentici. Anche la Custodia di Terra Santa sostiene attivamente l’iniziativa, mettendo a disposizione alcune delle sue strutture, come la parrocchia francescana di Ramleh e il centro di accoglienza Casa Nova ad Ain Karem . Questi luoghi rappresentano non solo punti di ristoro, ma anche preziosi momenti di incontro con la cultura e le tradizioni locali.


Attraverso il cammino, il silenzio e l’incontro con gli altri, il pellegrino torna cambiato. Il Cammino di Gerusalemme non è solo un viaggio verso una meta fisica, ma un percorso verso una trasformazione interiore, un’opportunità per riscoprire la fede, la speranza e il valore dell’umanità.

Manovra, commissione conclude esame. In Aula Senato senza relatore

Manovra, commissione conclude esame. In Aula Senato senza relatoreRoma, 27 dic. (askanews) – La Commissione bilancio del Senato ha concluso l’esame della manovra senza aver votato gli oltre 800 emendamenti e 60 ordini del giorno depositati. Il testo va quindi in Aula questo pomeriggio alle 14 senza mandato al relatore. Attesa la richiesta di fiducia da parte del governo che sarà votata domattina. Nel frattempo, il relatore della manovra in Commissione bilancio del Senato, Guido Liris (FdI), ha annunciato di essersi dimesso vista l’impossibilità di poter lavorare sul provvedimento in Commissione per i tempi strettissimi rimasti a Palazzo Madama per la seconda lettura. “Ho chiesto al Presidente di Commissione di farsi mediatore perché non ci sia più la singola lettura parlamentare e perché si torni alla doppia lettura” ha detto aggiungendo che “è questa una volontà della maggioranza. Si deve tornare alla doppia lettura che dal 2018 non èstata più fatta”.


Fgl

Al Museo di Tel Aviv le opere escono dai bunker per tornare esposte

Al Museo di Tel Aviv le opere escono dai bunker per tornare esposteTel Aviv, 27 dic. (askanews) – “E’ un momento molto emozionante per noi, siamo nella sala della collezione di arte moderna del Museo di Tel Aviv, rivedere tutte queste opere esposte che tornano al loro posto dopo più di un anno che erano nel bunker del museo messe in salvo e in sicurezza dal pericolo dei missili è molto importante, così come renderle visibili e accessibili al pubblico”.


Lior Misano, assistente della Direttrice del Tel Aviv Museum of Art, racconta così con emozione la riapertura delle sale delle collezioni di arte moderna, con le opere di Klimt, Picasso, Dalì, Magritte, Ernst e Kandinsky solo per citare alcuni degli eccezionali artisti esposti. Le sale di arte moderna erano rimaste vuote dopo l’inizio degli attacchi missilistici alle città israeliane, con i capolavori spostati fisicamente dagli stessi dipendenti del museo nei bunker deposito appositamente predisposti. Ora l’arte torna a mostrare forte il suo messaggio, e lo fa anche con una mostra denominata I don’t want to forget nella quale un gruppo di artisti israeliani sono stati chiamati a catturare l’evoluzione della memoria dei tragici eventi del 7 ottobre. Con una domanda di fondo: che potere può avere l’arte in tempi di crisi? .

La giornalista Cecilia Sala fermata a Teheran dalla polizia

La giornalista Cecilia Sala fermata a Teheran dalla poliziaRoma, 27 dic. (askanews) – La giornalista italiana Cecilia Sala, in Iran per svolgere servizi giornalistici, è stata fermata il 19 dicembre scorso dalle autorità di polizia di Teheran. Lo rende noto la Farnesina. Su disposizione del Ministro degli Affari Esteri, Antonio Tajani, l’Ambasciata e il Consolato d’Italia a Teheran stanno seguendo il caso con la massima attenzione sin dal suo inizio.


“In coordinamento con la presidenza del Consiglio, la Farnesina ha lavorato con le autorità iraniane per chiarire la situazione legale di Cecilia Sala e per verificare le condizioni della sua detenzione”, dopo il fermo della giornalista da parte della polizia di Teheran.Oggi, riferisce la Farnesina, l`ambasciatrice d`Italia Paola Amadei ha effettuato una visita consolare per verificare le condizioni e lo stato di detenzione della dottoressa Sala. La famiglia è stata informata dai risultati della visita consolare.


In precedenza, rende noto il ministero, la dottoressa Sala aveva avuto la possibilità di effettuare due telefonate con i parenti. In accordo con i genitori della giornalista, la Farnesina invita alla massima discrezione la stampa per agevolare una veloce e positiva risoluzione della vicenda.